Psicologia economica: perché l’economia non funziona

Psicologia economica: perché l’economia classica non funziona

Di Ilaria Polidori

Critiche all’utilitarismo

Il corpus di assiomi fin qui enunciati, ben presto divenne oggetto di numerose critiche, una parte delle quali condotte dagli stessi economisti, ma la maggior parte, provenienti dall’allora nascente psicologia economica.

Le prime critiche furono piuttosto generiche, ma non per questo meno incisive.

Esse puntarono il dito su una verità, che forse proprio per essere così evidente, era stata a lungo trascurata: le persone cambiano idea con grande volubilità.

Ci si rese conto dei problemi che sorgevano ove si cominciasse a considerare quell’instabilità nelle preferenze che è fisiologica negli individui a causa dell’esistenza di complessità di situazioni, forze dinamiche, condizionamenti, che li rendono incapaci di formulare un ordinamento di panieri in maniera stabile nel tempo.

A tal proposito Samuelson, nel 1938, propose un approccio definito “teoria delle preferenze rivelate”, il cui grande vantaggio consisteva nel fatto che tali preferenze non ricorrevano alle curve di indifferenza, ma consentivano di ricavarle, allontanando così la necessità di giustificare i risultati economici con assunti economico-comportamentali.

Insomma ciò che Samuelson in sostanza proponeva, altro non era che un’inversione del metodologico utilizzato: una volta di più dobbiamo osservare come la logica deduttiva doveva cedere il passo a quella induttiva; erano i primi tasselli di un progetto più ampio che doveva sfociare in quella che abbiamo definito “rivoluzione cognitivista” e che troverà in Simon il primo e più grande esponente.

Le critiche successive cominciano a farsi più specifiche. Contro il primo assioma, gli psicologi cominciano a compiere una serie di esperimenti, volti a dimostrare l’erroneità di quell’assunto, evidenziando come, in molte situazioni, gli individui non sanno definire una stabile relazione di preferenza, a causa dell’ambivalenza dei loro desideri, di carenze caratteriali, dell’incapacità fobica di prendere decisioni, o per altri motivi.

Queste critiche non sono state respinte dagli economisti, che hanno però considerato le deviazioni dal comportamento medio come eccezioni economicamente trascurabili e di pertinenza di altre discipline.

L’assioma della transitività fu criticato tanto dagli economisti, quanto dagli psicologi.

Green (1971), sebbene ritenesse corretto l’assunto posto a base del secondo assioma, e cioè la validità di una proprietà transitiva nelle preferenze, sottolineò tuttavia l’esistenza di una “variabile soglia”, al di sotto della quale, la differenza fra i vari panieri non è percepita. Le preferenze sono cioè determinate dalla possibilità di poter percepire le differenze. Queste ultime, per poter essere percepite, devono superare una certa intensità: ciò che ne consegue è una discontinuità percettiva che fa sì che la transitività sia applicabile solo in una parte dei casi.

Un attacco più radicale all’ipotesi di transitività, proviene da due psicologi, Tversky e Russo (1969), i quali non perdono occasione di far notare come, ciascun bene, e quindi ciascun paniere, soddisfano diverse esigenze. La prevalenza, in momenti differenti, di esigenze diverse, rende dunque irrimediabile l’intransitività delle scelte.

Questo per quanto riguarda le ipotesi di razionalità.

Ma le critiche investono anche le ipotesi psicologiche sottese al modello neoclassico.

La psicologia economica, fin dal suo sorgere, ha avuto cura di evidenziare come gli assiomi, al di là di ogni intenzione degli economisti, contengano una psicologia implicita, trattata però in maniera inconsapevole e del tutto superficiale, sulla quale ben difficilmente si sarebbe potuta costruire una coerente teoria della scelta razionale.

Le critiche alle ipotesi psicologiche muovono da più direzioni e spesso sono in grado di mettere in discussione più assiomi contemporaneamente.

In particolare, la messa a punto di alcuni esperimenti, ha inferto un duro colpo sia all’ipotesi di convessità delle preferenze, che all’ipotesi di non sazietà.

Tali esperimenti infatti, dimostrano come gli organismi possiedono una sorta di distribuzione ideale delle varie quantità di stimoli e attività piacevoli. Se questa ripartizione viene alterata, per esempio obbligando a più frequenti esperienze di un certo tipo, allora si ha un capovolgimento del loro vissuto, da positivo a negativo.

D’altronde, che la varietà sia un valore positivo è cosa ben nota anche agli economisti.

Ed è proprio da un economista che proviene un altro tipo di critica nei confronti, non solo (e di nuovo), dell’ipotesi di non sazietà, ma anche dell’ipotesi di egoismo, nonché di tutta la teoria economica dell’utilità.

L’economista in questione è il premio Nobel Amartya Sen, che nel saggio dal titolo “Sciocchi razionali: una critica dei fondamenti comportamentistici della teoria economica” (Sen, 1982), prende le mosse da un’affermazione contenuta in un’opera di Edgeworth (1981)[1], per smontare del tutto, quello che è il modello stesso di tutta la logica economica neoclassica, e cioè l’Homo Oeconomicus.

Sen afferma infatti, che un grave limite alla teoria economica, consiste nella visione dell’uomo come egoista, guidato solo dal proprio interesse, e non anche sulla base di obblighi e simpatie. In realtà il tema della simpatia era già stato affrontato da Adam Smith (1976) e più in generale, da tutto il filone dell’illuminismo scozzese, da cui probabilmente l’autore indiano prende le mosse per elaborare la sua teoria.

Sen definisce la simpatia come quel fenomeno per il quale il senso di benessere di una persona dipende, psicologicamente, dal benessere di qualcun altro; mentre intende l’obbligo, come qualcosa

in grado di spingere l’individuo ad optare per un atto che, a suo giudizio, comporterà un livello di benessere personale inferiore, rispetto a quello che un’alternativa, sarebbe in grado di generare.

 

Un esempio: si pensi al caso delle rinunce da parte dei genitori per il benessere dei propri figli. E’ una tipica situazione di individui che agiscono prevalentemente sulla base della simpatia (verso il familiare) e, probabilmente, seguendo un obbligo morale.

* * *

Insomma, molti e vari sono gli argomenti utilizzati per confutare l’assiomatica neoclassica e, con essa, l’utilitarismo che le fa da sostrato filosofico.

Abbiamo visto come alcuni attacchi provengano dalla scienza economica, ma quelli più incisivi derivano dalle scienze cognitive; ora, affinché tali argomentazioni non rimangano fine a se stesse, è opportuno che si trovi un modus procedendi in comune, fra scienza economica e scienza psicologica.

I tempi sono ormai maturi.


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[1] Afferma Edgeworth: “… il principio primo della scienza economica è quello per cui ciascun agente è guidato soltanto dal proprio interesse…” (1981)

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