L’uso dell’autoritratto in Fototerapia e Psicologia

di Lorena Rigoli

All’origine dell’autoritratto si può immaginare un uomo che per la prima volta si è posto il problema del proprio ritratto oppure più semplicemente il bisogno dell’uomo di bloccare l’immagine, fermarla e riprodurla per sottrarla alla sua stessa dissolvenza. È giusto, però, partire da una premessa ovvia ma necessaria: occuparsi dell’autoritratto da un punto di vista psicologico è diverso che occuparsene da un punto di vista storico-artistico, nel senso che l’oggetto stesso della ricerca è diverso, elementi che posso essere importanti nella prospettiva psicologia possono non esserlo in quella artistica, e viceversa. Focalizzando particolarmente l’attenzione sull’autoritratto da un punto di vista psicologico, è importante concentrarsi innanzitutto sull’essenzialità del gesto che presiede alla sua formazione rintracciando il bisogno dell’uomo di lasciare un’immagine di sé, del proprio corpo e soprattutto del proprio volto.

Naturalmente l’artista è l’uomo che meglio interpreta determinati bisogni comuni ad ogni individuo e in particolare il bisogno di autorappresentazione. Non tutti gli artisti amano autoritrarsi, e per ciascuno di loro questo tipo di rappresentazione ha poi un significato particolare. L’autoritratto è sempre e necessariamente il gesto di un particolare momento, il momento in cui viene dipinto. Certo, dietro di esso c’è tutto il passato di un uomo, ma questo passato si è come cristallizzato in un’immagine e una sola. Nell’autoritratto di per sé non c’è racconto.[1] L’artista figurativo può rappresentare della sua vita e del suo trascorrere soltanto gli effetti ultimi, ovvero l’espressione unica e irripetibile del suo vissuto, ma non può raccontare la sua storia in quanto nel ritratto in sé non c’è memoria. Soltanto una successione di autoritratti può dare l’idea del divenire, del tempo che passa.

Inoltre il bisogno dell’uomo di rappresentare se stesso o per meglio dire la propria psichicità, il proprio mondo interno, il suo modo di soffrire e di vivere le emozioni, non si esprime solo negli autoritratti propriamente detti ma anche nel modo di dipingere oggetti, luoghi, persone o situazioni con i quali l’artista s’identifica. Attraverso i meccanismi d’identificazione, l’artista, rappresentando quelle figure, rappresenta se stesso. È paradigmatico citare a questo proposito un pittore italiano di fine Ottocento, Antonio Ligabue (1899-1965), per il quale l’autoritratto sembra corrispondere a un bisogno profondo che testimonia oltre al disagio anche una precisa modalità per tentare di elaborarlo. Le opere di Ligabue nel complesso sono l’espressione della psichicità dell’autore, dei modi in cui funziona la sua psiche, della sua maniera di amare, ridere o piangere e di tutti gli altri modi di esprimere le emozioni. In certi suoi autoritratti egli sembra attribuirsi caratteristiche somatiche che ricordano abbastanza da vicino le sue bestie favorite. Gli autoritratti di Ligabue rappresentano dunque il suo tentativo di ritrovare quell’identità, quel senso di sé che egli non era stato in grado di costruire prima, un modo per autodefinirsi, per circoscrivere e oggettivare nello spazio limitato del quadro, la sua dispersa e sofferta soggettività.[2]

Da un punto di vista storico la nascita dell’autoritratto moderno, inteso come riproduzione su tavola o tela della figura dell’artista, è strettamente legato all’introduzione dello specchio piano. Sotto un profilo tecnico lo specchio è dunque il mezzo di cui si serve di solito l’artista per autoritrarsi. E anche quando questa funzione non viene esplicitata, lo specchio, inteso come dispositivo tecnico e concettuale, fa parte integrante della dinamica dell’autoritratto […] Lo specchio è parte integrante dell’autoritratto anche nel senso che il termine conserva a livello etimologico, in relazione al concetto e all’idea della ‘riflessione’ insita in ogni forma di auto rispecchiamento[3]. Nella misura in cui l’autoritratto ha a che fare con i processi e i meccanismi che presiedono alla formazione dell’Io e del senso d’identità, è valido affermare come certamente la prima e più importante occasione di relazione con la nostra immagine sia data dallo specchio.

Al di là della sua funzione di mero supporto tecnico, lo specchio costituisce un elemento centrale nella costruzione e nella stabilizzazione dell’identità, di cui l’autoritratto rappresenta in diversi gradi un corrispettivo. È stato soprattutto Jacques Lacan[4] a sottolineare la funzione dello specchio nella formazione dell’Io. Lacan introduce per la prima volta la questione dello stadio dello specchio nel 1936 in una comunicazione al XIV Congresso internazionale di Psicoanalisi di Marienbad. Lo psichiatra francese considera l’atteggiamento del bambino davanti allo specchio nell’età compresa tra i sei e i diciotto mesi, durante i quali si possono distinguere tre tappe fondamentali. Inizialmente il bambino, nonostante sia incuriosito da quello che vede nello specchio, non riesce a riconoscere la propria immagine ma la scambia per quella di un altro che egli cerca di sorprendere guardando dietro lo specchio. Successivamente il bambino smette di trattare la sua immagine come un oggetto reale fin quando durante la terza tappa, fondamentale per la formazione dell’Io, il bambino riconosce finalmente l’immagine nello specchio come propria e s’identifica con essa.

Tale identificazione del fanciullo con l’immagine altra allo specchio è un’identificazione primaria, ed è la matrice di ogni identificazione successiva. Lacan definisce l’identificazione del bambino allo specchio “immaginaria” in quanto egli si identifica con una figura che non è lui stesso ma che gli permette di riconoscersi, cioè d’integrare la propria immagine con il proprio corpo. La nostra identità è dunque costitutivamente qualcosa che sta fuori di noi e che, passa sempre attraverso lo sguardo degli altri. Questo carattere alienato della nostra soggettività verrà via via riconfermato nel corso di tutta la nostra esistenza e continuerà a segnare il rapporto con lo specchio e con la riproduzione della nostra immagine. Teniamo conto, infatti, che questi processi identitari, per quanto abbiano la loro origine e il loro modello nella primissima infanzia, non sono in realtà del tutto conclusi e si ripropongono a ogni svolta importantissima della nostra vita, quando, come dire, ci troviamo nella necessità di riassettare la nostra identità adattandola all’immagine di una nuova identificazione.[5]

Per approfondire il parallelismo esistente tra specchio ed autoritratto, non si può non citare la figura mitica di Narciso, il quale si riflette e riflette alla ricerca della propria identità, come fa l’artista che attraverso la propria immagine spesso vuole giungere al cuore dell’esistenza. Il confronto con l’altro sé, con il doppio, la ricerca della propria identità oppure il semplice compiacimento nel contemplare la propria immagine rivelano l’analogia esistente tra l’artista che posa davanti allo specchio e il giovane eroe mitico posto di fronte al suo riflesso. Elemento centrale della vicenda di Narciso è l’esperienza visiva dell’incontro con il riflesso, con l’immagine, con l’idea cioè di riflessione. Consapevolezza e riflessione sono i concetti chiave che, oltre a definire ogni autoritratto, permettono di vedere in Narciso l’emblema della ricerca di se stessi. Nel momento in cui Narciso si specchia e nella fonte si riflette l’immagine, l’immagine stessa diventa metafora dell’opera d’arte, egli diviene quindi al contempo creatore e fruitore dell’opera e la fonte diventa metafora della pittura. L’atto del vedersi in una fonte o in uno specchio presuppone l’uscire da sé per provare ciò che è fuori di sé.

 


[1] S. Ferrari, Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Bari-Roma, 2002, p. 30.

[2] S. Ferrari, Autoritratto, psicologia e dintorni, Clueb, Bologna, 2004, p. 167.

[3] S. Ferrari, Lo specchio dell’Io, cit., p. 109.

[4] J. Lacan, Scritti I, trad. it. Einaudi, Torino, 1974.

[5] S. Ferrari, AutoFocus. L’autoritratto fotografico tra arte e psicologia, Clueb, Bologna, 2010, p. 12.

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