Autoritratto fotografico – Fotografia e psicologia

di Lorena Rigoli

L’autoritratto fotografico costituisce un’occasione di studio privilegiata, in quanto sembra esaltare e accrescere le normali dinamiche di ogni processo di autorappresentazione. Riferendoci sempre all’autoritratto in termini psicologici, non facciamo cenno soltanto alla pratica concreta di chi si scatta una fotografia, ma più in generale al rapporto che ciascuno di noi intrattiene con la raffigurazione della propria immagine. Come abbiamo già detto, in generale, per comprendere la dinamica psichica dell’autoritratto occorre ritrovare le origini elementari del gesto dell’uomo che si autorappresenta, occorre in un certo senso tornare alla situazione esemplare di Narciso che si specchia nella fonte. In fondo all’origine dell’autoritratto troviamo la situazione di un uomo che vede la propria immagine riflessa e intende fermarla e conservarla.

Ebbene, la fotografia sembra il mezzo più semplice e appropriato attraverso il quale l’uomo riesce a dare immediato compimento a questa esigenza. Infatti, la fotografia è investita di quella porzione d’identità che si vuole o si deve mostrare a seconda dei contesti e delle occasioni. In ogni caso l’autoritratto fotografico, più e meglio di quello pittorico, riesce facilmente a documentare ed è parte integrante del prospetto identitario di ogni individuo che deve tener conto sia degli incrementi che delle negazioni dell’Io.  Nel caso dell’autoritratto fotografico risulta ancora più incisivo parlare del rapporto tra specchio e fotografia, non solo perché lo specchio funziona da modello e da metafora, ma anche perché può servire concretamente, in quanto superficie riflettente, per fotografarsi. Più in generale va ricordato che l’invenzione stessa della fotografia discende direttamente dalla sua relazione con lo specchio, quasi come se tra di loro esistesse uno stretto rapporto di dipendenza. Infatti, il riferimento al tema dello specchio permette di individuare quello che Stefano Ferrari ha definito il grado zero dell’autoritratto, ovvero la capacità che la fotografia ha di bloccare e oggettivare l’immagine allo specchio: La situazione infatti è quella dell’uomo davanti allo specchio (il solito Narciso), ma con la possibilità di bloccare e congelare l’immagine nell’atteggiamento e nella prospettiva che più ci piace: si assume una determinata posa, una determinata espressione e, senza che occorra l’intervento di chicchessia, ecco che la si trasforma in una foto: ci guardiamo allo specchio, troviamo l’espressione giusta e la fermiamo con uno scatto.[1]

È bene però precisare che quando parliamo di specchio non facciamo necessariamente riferimento a uno specchio fisico. A tal proposito citiamo la tecnica digitale o tradizionale dell’autoscatto: dobbiamo metterci in posa senza poterci vedere, senza poter scegliere l’inquadratura giusta prima dello scatto definitivo. Dobbiamo immaginarci, vederci in anticipo con gli occhi della mente. Ci mettiamo comunque in posa, ma il paradosso è che non c’è nessuno che osserva tranne noi stessi o per meglio dire la nostra immaginazione. Non è quindi possibile per il soggetto vedersi ma solo immaginarsi, vedersi nello specchio della mente. Ci mettiamo in posa come davanti ad uno specchio, ma lo specchio materialmente non esiste. Il vero specchio sono gli occhi degli altri; chi si pone davanti ad un obiettivo e sceglie la sua posa, inevitabilmente si vede come vorrebbe che gli altri lo vedessero. Ad ogni modo l’autoscatto permette molta più scelta per quanto riguarda il luogo, la posa, la luce e il contesto in cui operare e per questo può essere definita la tecnica che meglio soddisfa l’esigenza di rappresentarsi nel modo più libero e vario.

È importante ricordare poi che la fotografia non si esaurisce mai nel momento dello scatto, infatti chi si autofotografa di solito non si limita ad un solo scatto e per questo successivamente ha la possibilità di scegliere l’immagine che più gli piace. È interessante notare come nella fotografia rimanga sempre un tasso più o meno incisivo di non riconoscibilità, poiché per diversi motivi l’immagine che osserviamo presenta sempre qualche aspetto estraneo o falso. Prima di tutto a differenza dello specchio della cui immagine siamo abituati, nella fotografia la figura non è invertita, per cui noi ci vediamo effettivamente come ci vedono gli altri. L’immagine fotografica è quindi troppo analitica e troppo poco sintetica; con il suo eccessivo realismo essa contrasta con l’immagine interna che l’individuo possiede nel momento dell’autoscatto.

 Spesso da parte degli artisti, compresi i fotografi, vi è la tendenza a sottovalutare le implicazioni profonde dell’autoritratto. In molti casi gli autoritratti degli artisti rischiano di farci perdere di vista l’essenzialità psicologica di quello che abbiamo definito il grado zero dell’autoritratto. Nello stesso tempo, grazie alla speciale sensibilità che questi uomini hanno nei confronti dell’immagine e in particolare della relazione che intercorre tra immagine e identità, essi consentono di mettere meglio in evidenza alcune dinamiche specifiche dell’autoritratto e quindi del rapporto che ciascuno di noi ha con la propria immagine. A tal proposito ritengo interessante citare il caso dell’artista di origine polacca Roman Opalka, nato nel 1931, che dal 1965 a oggi ha continuato ad autoritrarsi continuamente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, sempre nello stesso luogo, nella stessa posa e nella stessa identica inquadratura. È chiaro come il progetto di questo artista, attraverso un evidente gesto ossessivo- compulsivo, sia quello di neutralizzare l’inesorabile trascorrere del tempo.

Questa compulsione a fotografarsi costituisce un tentativo di controllo attivo per sostituire l’insopportabile sensazione di passività legata all’inevitabile accettazione degli eventi riguardanti il passare del tempo, la propria immagine e il suo deteriorarsi. La compulsione all’autoritratto può essere collegata a un disagio che non sempre il soggetto da solo sarà in grado di risolvere. A tal proposito secondo Stefano Ferrari la pratica dell’autoritratto prevede quella che lui chiama una acrobazia psichica, dove il soggetto deve tornare a vedersi come oggetto al contrario di quello che succede quando guardandosi allo specchio vede riflessa un’immagine preconfezionata, che semplicemente riconosce. Ebbene, il fatto stesso di riuscire ad autoritrarsi, a sopportare cioè le tensioni di questa effettiva acrobazia psichica, costituisce la prova di un Io che al di là dei suoi dubbi identitari o delle sue propensioni onnipotenti può ancora contare su una sostanziale integrità. Per questo l’autoritratto in generale è non solo una possibile modalità di riparazione […] ma di per sé la prova di una psichicità ancora sostanzialmente sana e reattiva. Questo è tanto più vero nell’autoritratto fotografico che, come ho detto, nella straordinaria potenza della sua meccanica semplicità, sembra concentrare ed amplificare l’intensità di tutti questi meccanismi e di queste sollecitazioni.[2] 

 

 


[1] S. Ferrari, Lo specchio dell’Io, cit., p. 139.

[2] S. Ferrari, AutoFocus, cit., p. 21.

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