Il trauma infantile e resilienza negli eventi catastrofici, incidenti e terremoti

di Marijana Milotic

Nei bambini gli eventi connessi alle emergenze possono apparire assai diversi da come appaiono agli adulti e tra gli stessi bambini vissuti interiori e risposte comportamentali possono essere molte diversificate.

“Tanto più il bambino è piccolo, tanto più è probabile che le modalità percettive prevalenti siano distanti da quelle dell’adulto.”

Il vero termometro delle emozioni infantili rimane l’adulto di riferimento, rispetto al quale il bambino manifesta comportamenti d’attaccamento e di sintonia emotiva. La valutazione degli eventi percepiti è dunque appoggiata all’adulto di riferimento e alla sua capacità di offrire un’interpretazione complessiva della situazione. Soprattutto è di massima importanza è la capacità del genitore e/o degli adulti attorno a lui di sostenerlo e aiutarlo.

Se ritieni che il tuo bambino abbia vissuto una condizione fortemente traumatica contatta uno psicologo per avere maggiori informazioni e modalità attive per salvaguardare la sua salute.

Altro fattore da tenere presente è l’età e la struttura psichica del bambino che vive l’evento traumatico. Anche il tipo di sintomi che si possono sviluppare nei periodi successivi dipende dalle competenze percettive e mnestiche maturate al momento del trauma nonché la capacità di elaborare l’esperienza. Il contesto ambientale e culturale è un’altra variabile da prendere in considerazione.

Dalla complessità di queste variabili variano l’intensità dei vissuti di dolore e gli effetti sintomatici successivi. Come per l’adulto le risposte emotive del bambino debbono considerarsi normali e congrue all’evento traumatico percepito.
I bambini provano vissuti di perdita non solo rispetto alle persone fisiche ma anche rispetto a oggetti, ambienti e abitudini con il conseguente senso di impotenza che scatena.
Spesso più la conoscenza è diretta, meno intensa è la tendenza a non credere che la morte sia davvero avvenuta; se la morte è tenuta segreta, come spesso accade con i bambini, la convinzione che la persona sia viva e che tornerà si fa sempre più forte, ritardando ogni forma di elaborazione della perdita.

Un altro elemento rilevante nei bambini è l’attribuzione di colpa e responsabilità, reale o fantasmatica che sia, per quello che accaduto che può ricadere anche sulla vittima (per sua imprudenza).
Tra le risorse psicologiche rilevate nei bambini in caso di emergenza le più significative risultano essere: una buona abilità di comunicazione, forti credenze di autoefficacia, locus of control interno e un adeguato coping (inteso come la capacità di far fronte alle situazioni problematiche).

Il rischio di perdite di vite umane e di beni materiali per effetto di calamità naturali, che colpiscono ogni anno più di 226 milioni di persone, sta aumentando su scala mondiale.L’incremento demografico e il crescente impatto dei cambiamenti climatici fanno sì che un numero sempre maggiore d’individui viva in zone esposte a pericoli naturali. Il rischio di calamità naturali rappresenta una grande sfida per lo sviluppo sostenibile.

Terremoti, alluvioni, siccità, uragani e tsunami stanno avendo effetti devastanti sulle popolazioni, sull’ambiente e sull’economia. Il cambiamento climatico, la povertà, la scarsa pianificazione e gestione del territorio e il degrado degli ecosistemi, sono tra i fattori che contribuiscono ad aumentare i livelli di rischio. La governance adottata dalle istituzioni può comunque influire moltissimo sulle capacità di risposta e di adattamento delle comunità locali.

Negli ultimi anni i disastri più gravi hanno mostrato la necessità di una maggiore educazione nella gestione del rischio, rafforzando la formazione informale,valorizzando i saperi pre-esistenti delle comunità e creando nuove competenze.
L’educazione ai disastri e soprattutto alle dimensioni sociali del rischio, deve essere integrata nell’educazione formale e nei programmi formativi e di sviluppo nazionali, grazie all’impegno dei governi e all’adozione di una base istituzionale di trasmissione delle esperienze. Esiste infatti una progressiva accettazione della differenza esistente tra i servizi di emergenza e le diverse responsabilità connesse alla riduzione del rischio.

Sono necessari investimenti per lo sviluppo di risorse umane da impegnare nella riduzione del rischio e nel supporto a iniziative nei paesi più a rischio. In Bangladesh, uno dei paesi più vulnerabili al mondo ai disastri naturali, la maggior parte della popolazione è analfabeta. Eppure, la mancanza di formazione formale è compensata dalla conoscenza indigena circa le forme di resilienza ai disastri (quando non di vera e propria mitigazione e gestione). Nel caso delle aree rurali a rischio disastri, la popolazione ha fatto sempre ricorso alla gestione autonoma e comunitaria dei disastri, spesso senza alcun riconoscimento formale da parte delle autorità.

Ci si chiede quindi in che senso in questo caso è opportuno educare la popolazione alla gestione comunitaria dei disastri.

Forse la risposta sta nella limitata applicabilità delle conoscenze ancestrali a livello comunitario, soprattutto nel complesso panorama socio-economico offerto dal mondo moderno. La pressione della popolazione sui centri urbani, l’invasione di terre marginali e particolarmente vulnerabili,i cambiamenti senza precedenti dell’ambiente fisico,hanno giocato un ruolo determinante nell’accresciuta vulnerabilità ai disastri, al punto che questa non può più essere gestita sulla base dei saperi tradizionali e dell’intervento autonomo delle comunità. Si rende quindi sempre più necessario integrare la gestione comunitaria autonoma con una più articolata ove individui, famiglie,comunità, governi, imprese e società civile possano tutti avere il proprio ruolo.

Albania,Kosovo, Bosnia, Iraq, Afghanistan: scenari internazionali di estrema complessità sotto molti aspetti. Scenari caratterizzati da situazioni in cui il conflitto,a tutti i livelli, ha spesso raggiunto condizioni di estrema pericolosità creando incertezza e instabilità che hanno messo a dura prova la capacità di resistenza di intere popolazioni, accompagnati dalla paura e dalla necessità di trovare la forza per affrontare la situazione con coraggio e con grande forza d’animo.
A supporto della popolazione civile, con grande dispiegamento di uomini e di mezzi, sono stati presenti, in missioni di peacekeeping, molti militari provenienti dall’Italia che hanno fornito assistenza e sostegno agli uomini e alle donne di questi Paesi martoriati, in contesti mai del tutto pacificati, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane.

A questi uomini coraggiosi, addestrati e abituati a operare in situazioni estremamente critiche non può mancare certo la resilienza, la capacità di riadattamento di fronte ad avversità, traumi, tragedie, minacce.

Resilienza significa, dunque, saper trovare le modalità migliori per fronteggiare le crisi, che aiutino a non lasciarsi travolgere dagli eventi, anche in condizioni di estrema difficoltà, per riuscire a mantenere integre le proprie risorse interiori.
La prepotenza si abbatte sui poveri del mondo. Ma la retorica, qui, per quanto c’entri, interessa poco. Non sono retorica,infatti,i dati che diffonde Oxfam sul crescente impoverimento dei paesi più poveri del modo che,in generale e sempre, subiscono le scelte nocive delle nazioni più potenti, ovviamente minoritarie rispetto alla massa che soccombe. Alcuni elementi di valutazione possono rendere meglio l’idea: il 50% circa delle emissioni di carbonio nel pianeta, per esempio, vengono generate soltanto dall’11% della popolazione mondiale che è la meno colpita dalle sue dannose scelte. E ancora, 1,5 miliardi di persone vivono in zone non sicure a causa di conflitti e violenze armate e il cambiamento climatico potrebbe provocare nuove guerre per le risorse e un’escalation di violenza. I maggiori traumi che si verificano nelle popolazioni più esposte sono dovuti a eventi climatici estremi, conseguenti ai mutamenti atmosferici, volatilità dei prezzi delle materie prime alimentari, degrado ambientale.

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