Autismo definizione

Una definizione di autismo

Definizione e significato di autismo

Gaia Baldoni

Il termine “autismo” dal greco autòs (se stesso) compare per la prima volta nella trattazioni di Eugen Bleuler, per descrivere un particolare sintomo della patologia schizofrenica caratterizzato dalla tendenza alla polarizzazione sul mondo interno tipica di molti soggetti schizofrenici. Nell’articolo Autistic disturbance of affective contact (1943) Leo Kanner descrive i segni di una nuova patologia che sembrano accomunare diversi bambini, quali: isolamento sociale, relazioni interpersonali povere, resistenza al cambiamento.

Il sintomo “patognomonico” del disturbo è l’incapacità del bambino di interagire in modo spontaneo e usuale con gli altri significativi e con le situazioni di vita quotidiana. Gli 11 bambini vengono descritti dai loro genitori come autosufficienti, intrappolati in un guscio, più contenti e a loro agio se lasciati soli, indifferenti nella comunicazione interpersonale trasmettendo l’impressione di una saggezza tacita. La cognizione sociale sembrava essere del tutto assente. La maggior parte di questi bambini appariva affetta da mutismo o manifestava linguaggio ecolalico, alcuni operavano in maniera ricorrente un’inversione pronominale mentre altri presentavano straordinarie abilità associate ad un ritardo mentale generalizzato.

Un tratto caratteristico è quello di una monotonia ripetitiva in cui la vicinanza fisica e la percezioni di suoni o rumori vengono avvertiti come elementi disturbanti e fonti di profondi sentimenti di angoscia e inquietudine. Kanner adottò il termine “disturbo del contatto affettivo” e arrivò alla conclusione secondo la quale questi bambini sembravano privi della capacità di realizzare un legame di tipo affettivo presente nel bagaglio biologico fornito dai genitori.

Kanner considerava questo disturbo come distinto dal gruppo delle patologie schizofreniche e nonostante riconoscesse che nelle forme schizofreniche più evidenti l’appiattimento emotivo fosse il sintomo prevalente nel quadro clinico, successivamente attribuì maggiore rilevanza alla perdita di contatto con la realtà; intuendo come, mentre il sintomo schizofrenico si traduca in un ritiro dal mondo sociale, nel bambino autistico la possibilità di instaurare questo tipo di contatto non è contemplata in quanto il bambino autistico non vi è mai entrato. In seguito a tale intuizione egli optò per una definizione differente che gli permettesse un migliore inquadramento del problema parlando a tal proposito di “autismo infantile precoce”.

Se in un primo momento Kanner non conferì molta importanza alla relazione comportamentale tra il bambino autistico e la famiglia, a seguito delle indagini condotte assieme al suo collaboratore Eisenberg, giunse alla conclusione, esposta nel Simposio del 1955, del ruolo fondamentale che la configurazione familiare riveste nella genesi del disturbo autistico. In seguito Kanner e Eisenberg osservarono come “la refrigerazione affettiva” intesa come la mancanza di vicinanza emotiva, fosse il tratto maggiormente diffuso tra i bambini autistici. Kanner si pose il quesito di quale fosse la causa della refrigerazione affettiva e dedusse, proseguendo nelle indagini, che il bambino resta rinchiuso nella sua condizione autistica primaria in quanto sono i genitori a non aver fornito al bambino i mezzi che gli consentirebbero di superare il suo stato di isolamento, che Kanner paragona a un guscio.

Un anno dopo (1944) Hans Asperger ignaro delle osservazioni di Kanner, individua e descrive i casi clinici di 4 bambini che presentano lo stesso tipo di sintomatologia, giungendo a parlare di “psicopatia autistica”. I ragazzi manifestano inclinazioni e doti straordinarie, relazioni sociali limitate, comportamenti stereotipati e un uso del linguaggio del tutto peculiare.

Asperger focalizza l’attenzione sui fattori organici della patologia e individua nei genitori alcune caratteristiche di personalità che sembrano essere presenti anche nei figli, seppure in forme più moderate. Dal 1950 al 1980 assistiamo al predominio sulla scena internazionale, della concezione sulle origini dell’autismo e la sua cura, dello psicanalista austriaco Bruno Bettelheim, coadiuvata tra l’altro da una forte impronta psicoanalitica e espressa nell’opera che negli anni sarà considerata un classico su tale tema: “La fortezza vuota”. L’autore può essere considerato il fautore di una nuova prospettiva che, a differenza delle precedenti teorie, le quali ritenevano che la causa dell’autismo potesse essere rintracciata in una lesione organica, si fa sostenitrice della tesi secondo cui la causa possa risiedere in tappe successive della vita del bambino. In questa stesura egli illustra le motivazioni alla genesi del disturbo autistico sintetizzabili in una considerazione di colpevolezza attribuibile alla madre del bambino, e in certa parte anche al padre, in quanto essi ostentano un radicale rifiuto nei confronti del bambino che portato alle estreme conseguenze si traduce nella negazione dell’esistenza stessa del bambino. Bettelheim coniò il termine “madri-frigorifero” per definire quelle madri che nel rapportarsi con i figli assumevano atteggiamenti contraddistinti da mancanza di contatto fisico e carenza di riscontri affettivi e indicò queste due condizioni come indispensabili per poter rilevare la patologia e la sua manifestazione. Lo psicologo, proseguendo nella trattazione, propone l’autismo come meccanismo difensivo nei confronti della percezione da parte del bambino di tale rifiuto materno. Il bambino come conseguenza della sofferenza, dell’ansia e del malessere sperimentati nella relazione con il caregiver, dà inizio a quel processo di ritiro, fino a recludersi in quella che Bettelheim definisce una fortezza vuota. “Dal canto suo la madre, o perché frustrata nei suoi sentimenti materni o a cagione della propria ansia, può reagire, invece che con dolce insistenza, con la collera o con l’indifferenza proprio e in ragione del fatto che si sente ferita.

Questo, a sua volta, si presta a creare nuova angoscia nel bambino, angoscia alla quale può aggiungersi il sentimento che il mondo (rappresentato dalla madre) non solo è causa di angoscia ma, a seconda dei casi, è anche rappresentata dalla madre irata o indifferente. La famiglia considera il bambino come un peso, quest’ultimo non viene concepito come un essere umano. In conclusione la “madre-frigorifero” è colei che dispensa cibo ma non è in grado di fornire un contatto emotivo. L’opera di Bettelheim suggerì misure riabilitative che implicassero l’allontanamento dai genitori fornendo garanzie di guarigione non fondate scientificamente.

Tutto ciò non contribuì allo sviluppo di conoscenze adeguate per la comprensione e il trattamento di questa patologia. In quegli anni l’autismo viene concepito come una patologia infrequente, spesso accompagnata da ritardo mentale, implicante alterazioni nelle abilità sociali e interattive manifestandosi in soggetti con quozienti intellettivi nella norma. Gli anni 60 rappresentano anni di profondo cambiamento nell’approccio a questa patologia; in particolare è opportuno citare i contributi di Michael Rutter che portarono a un più preciso inquadramento delle caratteristiche dell’autismo quali: impossibilità di instaurare rapporti sociali, ritardo nello sviluppo del linguaggio e fenomeni rituali e compulsivi.

Inoltre l’autore coglie l’associazione del disturbo con l’epilessia sottolineando come gli attacchi epilettici si verifichino soprattutto all’inizio del periodo adolescenziale. Negli anni 80 grazie alle acquisizioni nell’ambito della psicologia cognitivista, in particolare alle ricerche di Uta Frith e di Simon Baron Cohen, il disturbo viene fatto risalire a specifiche anomalie nell’accrescimento cerebrale e viene ricondotto a particolari difficoltà cognitive quali la capacità di operare una differenziazione tra apparenza e realtà, nel conferire ad altri opinioni e stati mentali fino ad arrivare all’elaborazione teorica che vede l’autismo come espressione di un deficit della “teoria della mente” ovvero l’incapacità di riflettere sulle emozioni e intenzioni sia proprie che altrui. La portata concettuale di questi contributi segnò una rivoluzione nelle trattazioni sul tema, sancita dal cambiamento del titolo della rivista “ the journal of autism and schizofrenia”( fondata nel 1971 da Leo Kanner e Stella Chees) in “Journal of Autism and Developmental Disorder” a sottolineare come l’autismo non debba più essere considerato come un espressione infantile secondaria di schizofrenia ma come una patologia dello sviluppo riconducibile a differenti espressioni sintomatologiche e quadri clinici. Gli studi in ambito epidemiologico individuano alcune difficoltà tipiche dell’autismo anche in individui con intelligenza nella norma giungendo a parlare di disturbi dello spettro autistico in ragione della eterogeneità delle manifestazioni del disturbo.

Venerosi Op.cit;

Ramaglia Giovanna, Pezzana Chiara, Capire L’autismo, 1 ed, Roma, Carocci, Maggio pp 10

Kanner Leo, Autistic disturbance of affective contact, Nervous Child ,vol 2, 1943, pp. 217-250

Bettelheim Bruno, The empty Fortress, (gli elefanti), 2ed, New York, The macmillan Company, 1967, traduzione: Anna Maria Pandolfi, La fortezza vuota, s.l. (senza luogo), Garzanti editore s.p.a, 1998, pp.403-405

Kanner, Op. cit; pp 222

Bettelheim Bruno, The empty Fortress, (gli elenfanti), 2 ed, New York, The Macmillan Company, 1967, Traduzione: Anna Maria Pandolfi, La fortezza vuota, s.l. (senza luogo), Garzanti Editore s.p.a., 1998, pp. 55-56

Rutter Michael, Lawrence Bartak, Causes of infantile autism: Some considerations from recent research, journal of autism and childhood schizophrenia, vol1, January march, 1971, pp. 20-32

Rutter Michael, progress in understanding autism 2007-2010, journal autism and developmental disorder, vol.4,12 February 2011, pp. 395-404

Zennaro, Op.cit; pp.203 9

Dott.Ssa Giulia Paglialonga
Email: giuliapaglialonga@alice.it

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