Trauma psicologico: definizione (Freud, Bion, Ferenczi, Klein)

Nel corso del tempo sono state fornite molte definizioni differenti del concetto di trauma. Il termine “trauma” ha un origine complessa: il suo difficile inquadramento concettuale risulta anche dal suo essere derivato dall’ambito medico, secondo il quale l’organo traumatizzato è quello che riporta una lesione ad opera di un oggetto esterno, che ne inficia il normale funzionamento[1]. In modo molto generale, il trauma può essere definito come un evento imprevisto, improvviso e imprevedibile che la persona sperimenta come destabilizzante e devastante. L’evento traumatico domina la capacità di risposta della persona, rimanda a una condizione d’ impotenza davanti a un’esperienza sconvolgente e incontrollabile che provoca un flusso di sensazioni incontenibili, travolge le normali difese dell’individuo che lo rende privo di difese e incapace di reagire, imponendo la messa in atto di difese patologiche[2]. Dal punto di vista etimologico la parola trauma deriva dal verbo greco τραῦμα, che significa “perforare”, “danneggiare”, “ledere”, “rovinare” e contiene un duplice riferimento a una ferita con lacerazione, ed agli effetti di un urto, di uno shock violento sull’insieme dell’organismo. Ampiamente diffuso nell’ambito delle discipline medico-chirurgiche, durante il XVIII sec. il termine è stato adottato dalla psichiatria e dalla psicologia clinica che indicano con esso la sopraffazione del soggetto da parte di uno stimolo eccessivo .

I primi a scrivere sulle conseguenze di vita opprimenti furono il  filosofo e psichiatra francese Janet,  il cui lavoro è fondamentale per la comprensione e il trattamento dei disturbi legati al trauma, e il neurologo francese Charcot, il quale fu l’ideatore del termine Isteria traumatica, dovuta ad un forte shock. Charcot notò che la paralisi corporea non era sempre dovuta a incidenti che procuravano lesioni organiche ma, a volte, si poteva verificare una paralisi anche in assenza di un trauma organico; da qui dedusse che le paralisi isteriche post-traumatiche erano dovute ad uno shock psichico. Sostanzialmente è l’idea che provoca la paralisi e quindi l’isteria traumatica, come ci viene affermato dallo stesso autore: “l’influenza del traumatismo sulla produzione delle paralisi e delle contratture è ben nota. Non vi ha nessun rapporto fra la violenza del traumatismo e il grado del disturbo motorio che gli tien dietro. Il fattore essenziale è l’emozione, lo shock morale che accompagna la violenza. La paralisi che compare dopo i traumatismi non compare immediatamente dopo lo shock, ma soltanto dopo un tempo più o meno lungo, dopo un periodo di incubazione o di meditazione, di auto-suggestione, durante il quale l’idea di impotenza dell’arto ferito, ingigantisce e si impone alla mente dell’ammalato”[3].

Per provare ciò l’autore portò un soggetto in uno stato di ipnosi e attraverso la suggestione procurò delle paralisi che fece poi regredire. Con questo espediente, Charcot provò che il trauma induce uno stato ipnotico durante il quale opera l’autosuggestione. Sulla base di questi studi precedenti Freud, nel 1925, definì traumatica una situazione d’impotenza. Riprese più volte le sue teorie sul concetto di trauma concependo due diverse visioni di questo, connesse a due diverse fasi del suo pensiero. Fu tra i primi a credere che i traumi infantili avessero un ruolo prioritario nella patogenesi di alcuni disturbi mentali. Inizialmente Freud scompose l’azione del trauma in due momenti: il primo detto “di seduzione”, dove il bambino subisce un tentativo sessuale da parte di un adulto, e un secondo momento, nella pubertà, dove c’è una rievocazione di quella esperienza e da qui i sintomi nevrotici, come lo stesso Freud scrisse nel 1896: “Devo i miei risultati all’impiego di un nuovo metodo di psicoanalisi, al procedimento esplorativo di Josef Breuer[…] Per mezzo di tale procedimento si risale dai sintomi isterici fino alla loro origine, che viene in tutti i casi trovata in un episodio di vita sessuale del soggetto, idoneo a suscitare un’emozione penosa[…] si tratta ancora di un ricordo relativo alla vita sessuale, ma che presenta due caratteri di estrema importanza. L’episodio di cui il soggetto ha conservato il ricordo inconscio è un’esperienza precoce di rapporti sessuali, con conseguente irritazione degli organi genitali, come conseguenza di un’aggressione sessuale effettuata da un’altra persona e inoltre il periodo nel quale tale funesto avvenimento si è svolto è quello dell’infanzia, cioè quello che va fino agli otto-dieci anni, prima che il bambino sia arrivato alla maturità sessuale. […] Grazie al cambiamento operato dalla pubertà, il ricordo svilupperà una potenza che era del tutto assente nell’episodio originario: il ricordo agirà come se fosse un episodio attuale. Si ha quindi, per così dire, l’azione postuma di un trauma sessuale”[4] .

Citando Charcot e Janet, Breuer e Freud pensavano che qualcosa diventi traumatico perché si dissocia e rimane al di fuori della consapevolezza attiva. [5]Sono quindi gli affetti “traumatici”, per Breuer e Freud la causa dei sintomi isterici. Nelle successive elaborazioni di Freud, la teoria dell’eziologia sulle neuropsicosi da difesa si arricchisce dei riferimenti alle reali esperienze sessuali di seduzione e/o abuso subite dalla persona durante l’infanzia. In queste prime pubblicazioni sull’isteria, i sintomi isterici rappresentano, per l’autore, un ritorno del rimosso a cui l’Io reagisce attivando operazioni difensive che si declinano in formazioni di compromesso fra la rappresentazione rimossa (di natura sessuale) e la rappresentazione rimovente ( di natura non sessuale, ma posta in connessione logica o associativa con l’esperienza sessuale traumatica). L’evoluzione del pensiero freudiano segue un percorso che, non ripudiando l’importanza della realtà oggettiva e dei suoi effetti sullo sviluppo psichico, si concentra maggiormente sull’intrapsichico, sulla valorizzazione della fantasia inconscia e dell’angoscia traumatica.[6] A questo riguardo Freud scrive nel libro Autobiografia: “Affidandomi a tali comunicazioni dei miei pazienti, supposi di aver trovato l’origine delle successive nevrosi in questi episodi di seduzione sessuale risalenti all’età infantile. […] Se qualcuno, di fronte alla mia credulità, scuotesse il capo in segno di diffidenza, non potrei dargli completamente torto […] In seguito, mi vidi invece costretto a riconoscere che tali scene di seduzione non erano mai avvenute in realtà, ma erano solo fantasie create dall’immaginazione dei miei pazienti.”[7] In questa riformulazione teorica, l’eziopatogenesi dell’isteria non risiede tanto nell’evento reale di cui il soggetto può avere una qualche memoria, quanto nelle reazioni inconsce a un evento che di per sé può non essere traumatico: è l’inconscio a scegliere quale evento avrà rilevanza traumatica.

Questa riflessione rappresenta un importante punto di snodo della psicoanalisi, che segna il passaggio dall’eziologia traumatica all’eziologia psichica dell’isteria. La realtà psichica assume il primato sulla realtà storica, ragion per cui, suggerisce Freud, la cura non deve limitarsi a raccogliere informazioni sui fatti ma deve piuttosto comprendere il vissuto interiore associato all’evento stressante. Si fa strada dunque l’idea dell’esistenza di una fantasia inconscia universale sottesa a tutte le nevrosi, che Freud, grazie all’analisi del caso del piccolo Hans, riconosce nel mito di Edipo.[8] Gli studi sulle esperienze traumatiche vennero ripresi da Freud durante la Prima Guerra Mondiale e vennero concettualizzati due modelli distinti di trauma, il primo era il modello della situazione insopportabile; l’altro era il modello dell’impulso inaccettabile, in cui è possibile produrre i sintomi per mezzo dell’immobilizzazione dei meccanismi di difesa. [9]

Questa seconda nozione compare nella letteratura freudiana per quanto riguarda la nozione di coazione a ripetere. Molto importanti furono gli studi portati avanti da Abram Kardiner, psichiatra statunitense, che cominciò la sua carriera curando reduci di guerra, e tentò nel 1923, di fondare una teoria delle nevrosi di guerra, basandosi sulle teorie psicoanalitiche precedenti. Fu uno dei primi a definire il concetto di disturbo da stress post-traumatico, notando che, chi era colpito da nevrosi traumatica diveniva guardingo e sensibile ad ogni minaccia dell’ambiente constatando che, oltre ad alterazione fisiologiche, nel trauma si avevano anche alterazioni della coscienza di sé in relazione al mondo.[10] 

E’ nell’ambito psicoanalitico con il contributo di Sàndor Ferenczi, allievo di spicco di Freud, che si introduce al concetto di trauma una nota relazionale. Nel suo testo più conosciuto, “ Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione”(1982), Ferenczi afferma che il trauma relazionale rappresenta il fulcro della psicopatologia sia infantile che adulta e inoltre identifica il trauma esterno in ricorsive esperienze di non-curanza vissute dal bambino nel proprio ambiente familiare. I genitori emotivamente trascuranti si distinguono per il loro disconoscimento della realtà delle percezioni del bambino. Incapaci di protestare ,di sostenere l’impatto emotivo e di sopravvivere al proprio persecutore, i bambini reagiscono con un atteggiamento di sottomissione alla volontà dell’adulto aggressore, che si declina nella tendenza “a indovinarne tutti i desideri, a obbedirgli ciecamente, a identificarsi completamente a lui”.[11]

Da Ferenczi in poi la psicoanalisi muove i suoi passi verso un approccio evolutivo e relazionale, in cui gli effetti traumatici di un evento stressante vengono associati a una vulnerabilità psichica che trae origine da relazioni primarie genitore-bambino non contenitive. In modi diversi furono Winnicott, Fairbairn, Balint, Sullivan e Bowlby a riportare l’attenzione sull’origine traumatica infantile di gran parte delle patologie della personalità. In modo particolare questi autori danno un peso maggiormente traumatico alle forme precoci di perdita o agli assetti patologici e fallimentari nella cura del bambino[12]. Winnicott, ad esempio, afferma che un bambino non può esistere da solo, la sua esistenza è data dal rapporto che costruisce con la figura di accudimento primaria, la quale ha il compito di sostenerlo, contenerlo e aiutarlo nel suo percorso di vita. Per l’autore, ad avere una valenza “traumatica” sono le scarse capacità di “holding” e “handling” della figura di riferimento, nella maggior parte dei casi, la mamma. La precocità e il rivivere ripetutamente esperienze di deprivazione materna, nel periodo in cui il bambino vive uno stato di assoluta dipendenza nei confronti della figura che rappresenta il suo primo oggetto d’amore, si traducono in angosce traumatiche, cioè in vissuti emotivi “impensabili” capaci di creare una profonda frattura nella continuità personale del bambino[13] .

L’ esperienza traumatica, quindi, risiede nella somma di più momenti di privazione: la rottura della continuità personale che ne deriva porta a una profonda scissione fra il vero Sè psicosomatico e il falso Sè mentale, creando l’incapacità, da parte del falso Sè,di svolgere le sue funzioni protettive  nei confronti del vero Sé. L’idea di una vulnerabilità psicopatologica correlata alle incapacità di contenimento delle figure genitoriali nella relazione con l’infante viene sostenuta anche da altre due importanti figure di spicco della psicoanalisi infantile: Melanie Klein e Wilfred Bion. Punto fermo e fondamentale della teoria kleniana è che lo sviluppo sano della personalità difficilmente può avere luogo se non è stato segnato da esperienze buone. Per questo, secondo la Klein, il “ripetersi di esperienze nelle quali l’amore prevale sull’odio, la pulsione di vita prevale sulla pulsione di morte, è una condizione essenziale affinchè l’Io abbia le capacità per integrare se stesso e per compiere la sintesi degli elementi contrastanti dell’oggetto[14].

Bion afferma il concetto di reverie materna, ovvero di contenimento materno dell’angoscia proiettata dal lattante attraverso il meccanismo psichico dell’identificazione proiettiva. Secondo Bion un’adeguata funzione materna si manifesta in un processo di introiezione e metabolizzazione, da parte della madre, dell’angoscia proiettatale dal bambino, e di restituzione della stessa emozione in una forma tollerabile per il bambino[15]. A conferma ancora del ruolo fondamentale che hanno le prime relazioni di accudimento sullo sviluppo di una continuità esistenziale priva di traumi e di psicopatologie, bisogna soffermarsi sul contributo apportato da John Bowlby con la sua teoria sull’attaccamento e sulle formulazioni teoriche dell’ Infant Research. Secondo questi approcci teorici, più centrati su gli aspetti evolutivi e relazionali, non esistono eventi traumatici in sé. La traumaticità di un evento è il prodotto della combinazione di una serie fattori, come:

  • le caratteristiche oggettive dell’evento stressante;
  • l’età del soggetto;
  • le capacità soggettive di gestione delle emozioni associate allo stress;
  • il grado di sostegno sociale;
  • la storia evolutiva del soggetto;
  • la presenza o meno nel soggetto di un disturbo psichiatrico precedente all’evento stressante.[16]

Questi approcci teorici considerano il trauma come effetto patogenetico di croniche esperienze di trascuratezza emotiva e di maltrattamento vissute dall’individuo sin dalla sua infanzia nel rapporto con caregiver poco responsivi. La relazione caregiver-bambino rappresenta quindi un sistema interattivo che organizza e regola il comportamento e la fisiologia del bambino. Il concetto di regolazione affettiva viene definito nell’Infant Resarch soprattutto come un tipo di regolazione reciproca tra madre e bambino: si tratta di un sistema di comunicazione affettivo basato sul regolare gli stati emotivi in modo sincronizzato e vicendevole. Nell’interazione con i propri caregiver, il bambino partecipa a un sistema di correzioni reciproche, per cui apprende, già dai primi mesi di vita, quelle abilità che gli consentiranno di far fronte a situazioni di stress e di adeguare il proprio stato fisico e psichico. Il tipo di responsività del genitore sarà fondamentale per far imparare al bambino come modulare e contenere le emozioni negative e positive. A tal proposito, Peter Fonagy afferma che è nel contesto di una relazione di attaccamento sicuro che il bambino sviluppa un Sè riflessivo capace di identificare, nominare e modulare le emozioni. Storie di traumi precoci di natura interpersonale determinano un indebolimento della mentalizzazione che può generare una seria vulnerabilità nella capacità di resilienza a traumi successivi[17].Lo stesso autore, insieme a Jon Allen e Anthony Bateman, hanno formulato il concetto di “attaccamento traumatico”: il bambino che fa questo tipo di esperienza internalizza stati mentali che non stabiliscono con il Sè psicologico connessioni dotate di significato. L’esperire forme di attaccamento insicuro e traumatico portano il bambino a sviluppare profondi sentimenti di insicurezza e paura, e come un circolo vizioso, conducono il bambino alla ricerca di protezione datagli dal suo caregiver, maltrattante. Il trauma infantile alimenta quindi la sensibilità allo stress nell’età adulta: la reazione ad uno stressor che potrà presentarsi in un futuro sarà costituita da un 10% dall’evento traumatico attuale, il restante 90% sarà costituito da un fattore di stress traumatico passato. I sintomi post traumatici sarebbero l’espressione di una riattualizzazione di stati psichici associati al trauma infantile. La riattualizzazione dell’evento traumatico è data dall’incapacità a mentalizzare in quanto il soggetto non riesce a far subentrare il ricordo piuttosto che il rivivere l’esperienza.[18] Sia Mary Ainsworth che John Bowlby furono entrambi interessati allo sviluppo della personalità e al ruolo chiave che giocano le interazioni tra genitori e figli nel percorso evolutivo. Bowlby era convinto fortemente che le precoci esperienze d’interazione coi genitori, le quali, a loro volta sono influenzate dalle loro stesse esperienze infantili, svolgono un ruolo significativo nello sviluppo della personalità e,allo stesso modo, si convinse dell’effetto fortemente patogeno che hanno sullo sviluppo del bambino precoci esperienze, reali o minacciate, di separazioni o di perdita delle figure genitoriali.[19]In un celebre rapporto scritto per la World Health Organization nel 1951,Bowlby stabilì che: “Un bambino nella sua infanzia dovrebbe avere l’esperienza di una relazione calda, intima e continua con la madre( o con un sostituito permanente della madre, una persona che si occupi di lui come farebbe una madre) nella quale entrambi possano trovare soddisfazione e gioia”.[20] L’attaccamento è un bisogno primario, una predisposizione innata alla continuità e stabilità di un rapporto interpersonale che si costituisce come sistema motivazionale finalizzato allo sviluppo. Le ricerche sull’attaccamento evidenziano il ruolo della relazione caregiver-bambino nello sviluppo delle capacità di esplorare l’ambiente, di regolare le emozioni, di attuare strategie di coping e di resilienza adeguate in situazioni di stress. Insieme alla Ainsworth, ha elaborato la Strange Situation, procedura di laboratorio utile per discriminare lo stile di attaccamento del bambino. Da questa situazione artificiale ha identificato 4 diversi tipi di attaccamento: attaccamento sicuro, attaccamento evitante-insicuro, attaccamento insicuro-ambivalente e un pattern di attaccamento disorganizzato-disorientato. I diversi stili di attaccamento si formano attorno ai modelli operativi interni (MOI), ossia quell’insieme di norme coscienti e/o inconsce che consentono di organizzare l’informazione relativa alla relazione di attaccamento. Si trattano, quindi, di strutture mnestiche che il bambino si è costruito in maniera complementare sulla base di quanto egli stesso sia risultato accettato e ascoltato dalle sue figure di attaccamento, e che vanno a costruire le matrice delle sue future interazioni[21].I pattern di attaccamento, con le relative rappresentazioni mnestiche di esso, rimangono identici nel corso della vita, salvo qualche esperienza di vita notevolmente significativa può modificarli, ad esempio l’adolescenza, la gravidanza oppure lutti, separazioni o disastri naturali. Quando il sistema di attaccamento è attivato da esperienze di paura e di dolore, i diversi MOI determinano risposte emotive e cognitive differenti tra loro: un MOI “sicuro” si costituisce proprio a partire da una relazione nella quale i reciproci comportamenti garantiscono sicurezza, fiducia e affetto al bambino e gli consentono di svolgere i vari compiti richiesti nelle fasi evolutive, troverà un genitore responsivo e attento alle esigenze di aiuto richieste; un MOI “insicuro” dà luogo ad aspettative ambivalenti o negative rispetto al bisogno di aiuto e di protezione e, di conseguenza, una regolazione meno efficiente delle emozioni; infine un “MOI” disorganizzato produce comportamenti contraddittori, conflittuali, che implicano disorientamento e  atteggiamenti incoerenti che trasmettono paura.[22] Un MOI disorganizzato è spesso presente in bambini che hanno subito un abuso da parte del genitore o un comportamento che provoca uno stato di terrore o di insicurezza. L’attaccamento disorganizzato è la causa, nello sviluppo, di diversi disturbi psicopatologici implicanti esperienze dissociative o disturbi bordeline. Per Liotti sia la disorganizzazione dell’attaccamento precoce che l’esposizione a traumi psicologici durante lo sviluppo costituiscono fattori di rischio per lo sviluppo di un disturbo dissociativo d’identità e di un disturbo bordeline di personalità, i quali possono essere interpretati come disturbi post-traumatici da stress insorti nell’infanzia e cronicizzati in età adulta.[23]  Importanti sono gli studi di Stern, che vede il trauma come un evento che origina da interazioni reali: egli considera la vita mentale come frutto di una co-creazione di un dialogo continuo con le menti degli altri, che l’autore chiama matrice intersoggettiva.[24] Inoltre il trauma può originare dal fallimento della sintonizzazione affettiva del sistema caregiver-bambino. La sintonizzazione affettiva consiste nell’esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso, senza tuttavia, imitarne l’esatta espressione comportamentale. Quindi è una vera e propria “danza emotiva” dove si instaura intimità, sicurezza, calore e comprensione. Alterazioni all’interno di questo processo possono creare quindi le condizioni per una continuità traumatica. Arrivando ai nostri tempi, Van der Kolk si è soffermato sul concetto di “atmosfera traumatica” per indicare l’effetto pervasivo che l’abuso cronico o la trascuratezza familiare hanno sui regolatori biologici e psicologici, in quanto viene a mancare quel sostegno esterno, rappresentato dai familiari, che costituiscono la condizione necessaria affinchè il bambino possa imparare a gestire gli stati affettivi interni e le risposte comportamentali per far fronte agli stressor esterni.[25]    Attorno alla definizione di che cosa considerare traumatico si è sviluppato un dibattito storico tra chi accentua il ruolo giocato dagli eventi della realtà esterna e chi enfatizza quello svolto da uno specifico assetto intrapsichico[26]. Per un buon inquadramento teorico in ambito psicologico è fondamentale vedere le diverse eccezioni del termine, perché non esiste una sola definizione di trauma. Il vocabolario di lingua italiana dice: “lesione determinata dall’azione violenta di agenti esterni; nel campo psichico, emozione che incide profondamente sulla personalità del soggetto”.[27]  Sicuramente non può essere una definizione completa per quanto riguarda il nostro ambito. Molto esaustiva invece è la spiegazione del termine data da Giannantonio, il quale spiega il trauma come un esperienza di particolare gravità che compromette il senso di stabilità, continuità fisica e psichica di una persona.[28] Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM-IV-TR, ci dà una definizione più esaustiva per quanto riguarda l’aspetto intrapsichico definendo il trauma come “l’esposizione a un fattore traumatico estremo che implica l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi o altre minacce all’integrità fisica di un’altra persona; o il venire a conoscenza della morte violenta e inaspettata, di grave danno o minaccia di morte o lesioni sopportate da un membro della  famiglia o da altra persona con cui è in stretta relazione”[29]. La definizione data nel DSM può essere considerata restrittiva perché privilegia una lettura prevalentemente oggettiva degli eventi traumatici, ma se così non fosse si rischierebbe di etichettare come trauma qualunque evento negativo accada all’uomo, facendo perdere ogni utilità al concetto stesso. Quando parliamo di trauma, parliamo di un evento esterno violento, unico, da costituirsi in sé quale agente patogeno o piuttosto di un insieme di microtraumi relazionali, ripetuti e poco evidenti, che si accumulano silenziosamente nel corso del processo di sviluppo. Come si può notare il concetto di trauma in letteratura è molto vasto, ci sono modelli e teorie diverse ed è impossibile adottare un termine unico, possiamo dunque considerare il termine trauma come un termine-ombrello, necessario ma non sufficiente. [30] 

 


[1]             Zennaro, A. (2011). “Lo sviluppo della Psicopatologia”, Bologna: il Mulino.

2              Bessel A. Van der Kolk, Alexander C. McFarlane, Lars Weisaeth, “Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili”,ediz. Ma. Gi srl, 2004, pag. 15

3              Charcot, J.M. (1897). “Isterismo, in Trattato di medicina.” Vol. VI, 477-536 Torino: Unione Tipografico.

4              Freud, S. (1896). “L’ereditarietà e l’etiologia delle nevrosi”. Tr. It. In Opere vol. 2, (1968).Torino: Boringhieri

5           Van der Kolk, B. – A. McFarlane – L. Weisaeth (2007). “Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili”. Roma: Magi.

[6]              Craparo, G. (2013). “ Il disturbo post-traumatico da stress.” Roma: Carocci Editore

[7]              Freud in Van der Kolk, B. – A. McFarlane – L. Weisaeth (2007). “Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili”. Roma: Magi.

[8]              Craparo, G. (2013). “ Il disturbo post-traumatico da stress.” Roma: Carocci Editore

[9]              Van der Kolk, B. – A. McFarlane – L. Weisaeth (2004). “Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili”. Roma: Magi.

[10]             Ibidem,71

[11]             Craparo, G. (2013). “ Il disturbo post-traumatico da stress.” Roma: Carocci Editore

[12]             Lingiardi V. (2004), “La personalità e i suoi disturbi”, Milano: Il saggiatore

[13]             Craparo, G. (2013). “ Il disturbo post-traumatico da stress.” Roma: Carocci Editore

[14]             Gennaro, A. (2004). “Introduzione alla psicologia della personalità”, Bologna: il Mulino.

[15]             Craparo, G. (2013). “Il disturbo post traumatico da stress”, Roma: Carocci editore

[16]             Ivi, pag 28

[17]             Craparo, G. (2013). “ Il disturbo post traumatico da stress” Roma: Carocci Editore

[18]             Ibidem, pag 31

[19]             Caviglia, G. (2003). “Attaccamento e psicopatologia”, Roma: Carocci editore

[20]             Ammaniti, M. (2010). “Psicopatologia dello sviluppo”, Milano: Raffaello Cortina Editore.

[21]             Caviglia, G. (2003). “Attaccamento e psicopatologia”, Roma: Carocci editore

[22]             Pallini, S. (2008). “Psicologia dell’attaccamento. Processi interpersonali e valenze educative”, Milano: Franco Angeli

[23]             Caviglia, G. (2003) “Attaccamento e psicopatologia”, Roma: Carocci editore

[24]             Zennaro, A.(2011). “Lo sviluppo della psicopatologia” , Bologna: il Mulino.

[25]             Lingiardi V. (2004), “La personalità e i suoi disturbi”, Milano: Il saggiatore

[26]             Ibidem, pag

[27]             Dizionario Garzanti di Italiano,(1994).

[28]          Giannantonio, M. (2009). “Psicotraumatologia. Fondamenti e strumenti operativi”. Torino: centro  scientifico

[29]             American Psychiatric Association (APA), (2007). DSM IV TR. “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.” Milano: Elsevier Masson.

[30]             Lingiardi V,(2004). “La personalità e i suoi disturbi”. Milano: il Saggiatore

di Ilaria Tabarretti

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