Mobbing femminile e mobbing maschile: le differenze

Prima degli anni ’70 la stragrande maggioranza delle donne era praticamente priva di diritti politici e in parte di quelli civili. Le donne erano sottomesse all’uomo di casa, passive, poco istruite, tanto era considerato inutile investire nella loro istruzione dal momento in cui sarebbero diventate mogli e avrebbero dovuto svolgere compiti prettamente familiari. Per cui l’esperienza delle donne nell’ambito lavorativo è sempre stata fondamentalmente diversa da quella degli uomini. Dopo i movimenti femminili degli anni ’70 la donna ha conquistato i pari diritti dell’uomo; in particolare si è emancipata in ambito lavorativo.[1]

Oggi nel mondo del lavoro le persone rincorrono i propri sogni, aspirando sempre più a posti di lavoro migliori, salari più elevati e raggiungere gradi sempre più alti. Tutto ciò non sarebbe sbagliato se non fosse che, molto spesso, per raggiungere questi obiettivi vengono utilizzati metodi violenti, che nel mondo del lavoro si traducono con il termine mobbing.

I ricercatori da tempo studiano questo fenomeno ed hanno progressivamente elaborato e proposto spiegazioni sempre più complesse, evidenziando l’inadeguatezza di ipotesi monocasuali.

La parola inglese mobbing deriva dal verbo to mob, che letteralmente significa: “affollarsi intorno a qualcuno con atteggiamento minaccioso”.

Tale termine è stato utilizzato dall’etologo Konard Lorenz negli anni’70, per descrivere il comportamento di alcuni uccelli in presenza di un predatore: in queste condizioni l’animale non attacca da solo ma in gruppo, perciò il predatore viene “mobbizzato” dal branco.[2]

Alla fine degli anni ’80 il primo a parlare di mobbing fu Leymann, trovando un’analogia tra l’aggressività degli uccelli e quella manifestata da lavoratori nei confronti di altri[3], descrivendo il mobbing come“una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica e non occasionale ed episodica da una o più persone, nei confronti di un solo individuo il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative debbono ricorrere con una determinata frequenza (statisticamente almeno una volta a settimana) nell’arco di un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi di durata). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali.”[4]

Perciò la vittima del mobber subisce aggressioni intenzionali ripetute volte alla distruzione psicologica, sociale e professionale.

Attualmente il fenomeno viene definito come una pressione psicologica sul posto di lavoro attraverso comportamenti vessatori ripetuti da parte di colleghi o superiori, protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. [5]

Il mobbing può esprimersi sotto varie forme in quanto non esiste un comportamento univoco.

Nel 1976, Brodsky individuò cinque forme di vessazioni esercitate sul posto di lavoro. Esse sono:

  • Stigmatizzazione e identificazione di un capro espiatorio;
  • Uso di appellativi e nomignoli offensivi;
  • Aggressione fisica;
  • Pressione lavorativa;
  • Violenza sessuale.[6]

È anche vero che un ruolo molto importante è giocato dal fattore stress lavorativo.

Infatti molti studi evidenziano che le persone stressate sono considerate i soggetti più predisposti nell’assunzione del ruolo di mobber, in quanto lo stress porta a sfogare la rabbia accumulata attraverso delle persecuzioni su un altro individuo. [7]

Si può affermare che il mobbing è legato allo stress nel momento in cui singoli individui accumulano una grande quantità di tensione che non riescono a gestire e la dirigono verso atti persecutori su un bersaglio, non riuscendo a trovare altra via di sfogo. Il mobbing, invece, è indipendente dallo stress quando l’individuo, più o meno consapevolmente, compie vessazioni non finalizzate allo smaltimento della tensione accumulata.”[8]

Perciò, il mobbing non è un evento stabile ed omogeneo che si abbatte all’improvviso sulla vittima, bensì è un processo articolato che comincia lentamente e in modo subdolo e che spesso si manifesta solo dopo una lunga incubazione.

In quanto processo il mobbing, può essere suddiviso in fasi. Il modello esistente  più completo ed esauriente ci viene fornito da Leymann, suddiviso in quattro fasi.

 Ha effettuato una classificazione più dettagliata, dividendo gli atti di mobbing in:

  • Attacchi alla comunicazione e contro i contatti umani della vittima;
  • Attacchi alle relazioni sociali e atti di isolamento sistematico della vittima;
  • Attacchi contro l’immagine sociale e la reputazione della vittima;
  • Attacchi alla salute e atti di violenza sulla vittima.[9]

Inoltre è interessante il modo in cui Leymann distingue il modo di fare mobbing nei due generi : femminile e maschile.

“In particolare il mobber uomo preferisce azioni passive, cioè azioni che non puntano sulla cattiveria aperta ma su quella nascosta, come ignorare qualcuno, o dargli sempre nuovi lavori o metterlo sotto pressione. La mobber donna invece in genere preferisce il mobbing attivo, cioè sparlare dietro le spalle, prendere in giro qualcuno davanti ad altri o fare girare voci su di lui/lei.”[10]

In generale i mobber preferisco attaccare una vittima del loro stesso sesso. In particolare le donne tendono a mobbizzare altre donne, per il fatto che statisticamente ci sono più uomini nei ruoli responsabili, e quindi più difficili da mobbizzare, ma anche per il fatto che nei confronti di un’altra donna possono subentrare più facilmente invidia e gelosia.[11]

Per quanto riguarda la figura del mobber, l’European Agency for Safety and Healthat Work, ha riportato nel 2003 che le donne sono vittime di intimidazioni e di mobbing più spesso degli uomini.[12] Altri studi (UNISON, 2001) mostrano come gli uomini siano nella maggior parte dei casi i responsabili di azioni di mobbing[13], probabilmente anche per le posizioni lavorative da loro occupate: essi ricoprono cariche dirigenziali più spesso delle donne. Secondo dati Istat riguardanti il biennio 2008-2009, le donne appaiono come le principali vittime di mobbing e mostrano, rispetto agli uomini, differenze importanti: le lavoratrici subiscono più scenate e critiche senza motivo, sono più spesso umiliate, non si rivolge loro la parola e ricevono più offerte e offese di tipo sessuale. Gli uomini, invece, vengono solitamente costretti a lavorare in condizioni di disagio, vengono privati di incentivi o promozioni riservati ad altri, ricevono maggiori sanzioni o controlli disciplinari e vengono maggiormente attaccati per le loro idee politiche e religiose.[14]

Questi dati, fanno quindi pensare al mobbing come ad un fenomeno di genere. Tuttavia, è importante notare che ad influenzare tali risultati è in gran parte la percezione soggettiva di essere vittime di tale atteggiamento. Gli uomini, infatti, mostrano una minore propensione delle donne a considerarsi delle vittime. Per questo, il mobbing, così come altre forme di aggressività solitamente attribuite agli uomini, fa parte dell’universo femminile, così come di quello maschile, seppur in misura minore.

Per concludere, gli effetti che il mobbing produce non si ripercuotono solo sul lavoratore, ma la sua violenza ritorna come un boomerang anche sull’impresa che è responsabile delle violenze sulle vittime.

Nell’insieme il mobbing è un fenomeno molto complesso, nel quale si possono rintracciare una serie di variabili riferite all’organizzazione, alle caratteristiche della vittima, alle caratteristiche del perpetratore, al gruppo sociale, ed infine alle possibili conseguenze.[15]

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[1]Colombo, C.(2010). La posizione della donna sul lavoro e il mobbing. Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza,IV,(3), 94-118.

[2]Tomei,G., Cinti, M.E., Sancini,A., Cerratti,D., Pinpinella,B.,Ciarrocca,M.,Tomei,F. & Fioravanti ,M.(2007). Evidencebased medicine mobbing. Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, 29 (2), 149-157.

[3]Bartalucci,T. (2010). Conoscere,comprendere e reagire al fenomeno del mobbing.Unpublishedmanuscript.

[4]Tomei,G., Cinti, M.E., Sancini,A., Cerratti,D., Pinpinella,B.,Ciarrocca,M.,Tomei,F. & Fioravanti ,M.(2007). Evidencebased medicine mobbing. Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, 29 (2), 149-157.

[5]Bartalucci,T. (2010). Conoscere,comprendere e reagire al fenomeno del mobbing.Unpublishedmanuscript.

[6]Maier (2003) in Salerno Alessandra, Giuliano Sebastiana (a cura di), La violenza indicibile, L’aggressività femminile nelle relazioni interpersonali, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 152.

[7]Bartalucci,T. (2010). Conoscere,comprendere e reagire al fenomeno del mobbing.Unpublishedmanuscript.

[8]ibidem

[9]Salerno Alessandra, Giuliano Sebastiana (a cura di), La violenza indicibile, L’aggressività femminile nelle relazioni interpersonali, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 152.

[10]Bartalucci,T. (2010). Conoscere,comprendere e reagire al fenomeno del mobbing.Unpublished manuscript.

[11]ibidem

[12]Salerno Alessandra, Giuliano Sebastiana (a cura di), La violenza indicibile, L’aggressività femminile nelle relazioni interpersonali, Milano, Franco Angeli, 2012,  p. 155.

[13]Ibid.,Ibidem, p. 155.

[14]Ibid.,Ibidem, p. 157.

[15]Giorgi, I., Argentero, P., Zanaletti, W., Candura, S. M., (2004). Un modello di valutazione psicologica del mobbing. Giornale italiano di medicina del lavoro ed ergonomia, 26 (2), 127-132.

di Giorgia Bonelli

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