Come comunicare la diagnosi del Morbo di Alzheimer

LA COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI

 

Il ruolo della diagnosi è di fondamentale importanza sia per il malato sia per la sua famiglia; bisogna infatti considerare i vissuti che si andranno a muovere nel soggetto e nei suoi familiari, ricordandosi che spesso una diagnosi di MCI o Alzheimer lieve, viene fatta anche in presenza del soggetto stesso che è ancora in grado di comprendere ciò che gli stiamo comunicando.

Negli ultimi anni infatti si è assistito ad un cambio di prospettive; si è passati dall’effettuare una diagnosi di demenza solo in fase avanzata, in cui i sintomi erano già arrivati ad essere  molto disturbanti per il malato e l’unica via era la sedazione farmacologica ad una diagnosi precoce con la modificazione della disponibilità dei primi trattamenti farmacologici specifici per la demenza.

Effettuare una diagnosi precoce, significa poter impostare tempestivamente un percorso di cure ed assistenza, migliorare la qualità della vita del paziente e dei suoi familiari e ritardare l’istituzionalizzazione con una conseguente riduzione di costi sociali.

Quando si parla di diagnosi precoce in questo contesto si fa riferimento ad una diagnosi tempestiva, la quale si basa sui criteri caratterizzanti la demenza di Alzheimer.

Compiere una diagnosi precoce significa compiere una diagnosi ad una persona che ancora ha preservate alcune delle sue funzioni cognitive e questo va a modificare completamente la relazione medico-paziente.

L’opinione comune è che una persona con demenza, avendo limitazioni cognitive più o meno gravi, sia incapace di comprendere le comunicazione che le vengono date; questa opinione è del tutto infondata. Se la persona ha oggettivamente una capacità cognitiva ridotta, il clinico può esimersi dal comunicarle la diagnosi ma, non bisogna dimenticare che l‘autonomia è un principio etico riconosciuto che si basa sulla capacità di autogestione della propria malattia. Pertanto è fondamentale considerare che una comunicazione non data o una comunicazione superficiale porteranno ad un’insoddisfazione del paziente e dei suoi familiari; questo inciderà negativamente sulla prognosi, sull’aderenza ai trattamenti e in definitiva sui costi sociali.

Il Nuffield Council on Bioethics e Alzheimer Europe hanno indicato alcuni benefici derivanti da una diagnosi precoce e ben fatta:

  • Il sollievo derivante dal capire che cosa sta succedendo;
  • L’opportunità di accedere ai servizi più adeguati;
  • L’avere il tempo per pianificare le cose, “chiudere i conti” e scegliere una persona di fiducia.

Sono stati però riscontrati anche dei rischi, tra cui il più diffuso è la possibilità che la persona sviluppi stati depressivi fino anche al rischio di suicidio.

È importante suddividere due momenti derivanti dalla comunicazione della diagnosi, un primo momento in cui subentra un distress emozionale e in cui il paziente e la sua famiglia possono andare incontro a reazioni depressive/aggressive o a disgregamenti familiari ed un secondo momento, nel medio-lungo periodo in cui, se supportati da un esperto, possono elaborare la situazione e trovare delle soluzioni adatte alla persona e alle dinamiche familiari.

Seppure sul piano teorico vi sia una forte spinta verso la diagnosi precoce e chiara, sul piano clinico si riscontra un’ enorme difficoltà da parte degli operatori sanitari nel mettere in pratica queste indicazioni.

Una revisione della letteratura ha permesso di identificare quelle che sono le ragioni che spingono o meno un medico a comunicare la diagnosi di Alzheimer, riscontrando in chi è a favore:

  • Il voler rispettare l’autonomia;
  • Il permettere di comprendere meglio i sintomi;
  • Il coinvolgere il paziente nelle decisioni che lo riguardano;
  • Il rendere più facile da accettare la questione delle limitazioni e dell’assistenza.

Tra chi invece è più restio alla comunicazione, si riscontra:

  • La limitatezza delle opzioni terapeutiche a disposizione;
  • Le limitazioni mnesiche e di comprensione presenti nel malato;
  • Il rischio che possano insorgere in lui ansia, depressione ed idee suicidarie.

di Ilaria Giardini

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