Gelosia e invidia secondo Melanie Klein

Per comprendere la prospettiva kleiniana sulla gelosia e sull’invidia e sul legame che sussiste tra questi sentimenti, bisogna richiamarsi alla conflittualità innata fra amore e odio, fra impulsi amorosi e distruttivi, che scaturisce dal rapporto dell’Io con l’oggetto.

«Dobbiamo ricordare che, in senso lato, l’odio è una forza distruttiva e disintegrante che tende verso la privazione e la morte, e l’amore una forza armonizzante, unificatrice e tendente alla vita e al piacere. […] Lo scopo fondamentale della vita è vivere e vivere piacevolmente. Nel tentativo di raggiungere questo, ognuno di noi cerca di affrontare le forze distruttive e di sistemarle dentro di sé sfogandole, deviandole e fondendole in modo da ottenere la massima sicurezza possibile nella vita, e magari anche nei piaceri; scopo questo che può essere raggiunto con infiniti adattamenti sottili e complicati.

I differenti risultati in ogni individuo sono in complesso il prodotto della costante interazione, dalla nascita alla morte, di due fattori variabili: la forza delle tendenze amore e odio (le forze emotive in noi) e l’influenza dell’ambiente» (Klein e Riviere, 1969 pp. 9-10).

La prima e fondamentale relazione oggettuale del bambino, fondata sul conflitto amore e odio, è il rapporto con il seno materno e con la madre stessa, sulla cui base si forma e si sviluppa il nucleo dell’Io e si modellano le successive relazioni.

Il bambino desidera «un seno inesauribile e onnipresente» (Klein, 1969, p. 26), che non viene considerato solamente un oggetto fisico per l’appagamento del bisogno di cibo e dei desideri di natura libidica, in quanto «nel suo aspetto buono, [esso] è il prototipo
della bontà materna, della sua inesauribile pazienza e bontà» (Klein, 1969, p. 16), pertanto attraverso la disponibilità del seno il bambino cerca la prova costante dell’amore della madre, che è radicata nell’angoscia di fronte alla minaccia di distruzione del Sé e dell’oggetto da parte degli impulsi distruttivi (Klein, 1969).

La possibilità da parte del bambino di vedere soddisfatti i suoi bisogni attraverso il contatto fisico e psichico con il seno buono, contribuisce a ricreare quel senso di unità e sicurezza che, caratterizzava il suo mondo psichico nella situazione prenatale, anche se si presume che oltre al senso di sicurezza il bambino abbia sperimentato anche delle esperienze spiacevoli alimentate dall’«intensa angoscia persecutoria messa in moto dalla nascita» (Klein, 1969, p. 14).

Queste esperienze positive e negative anticipano il doppio rapporto con la madre e con il suo seno («seno buono» e «seno cattivo»), rispetto al quale le circostanze esterne giocheranno un ruolo rilevante: ad esempio un parto difficile o difficoltà psicologiche della madre relative all’alimentazione potrebbero compromettere un’esperienza positiva e gratificante con l’oggetto primario (Klein, 1969).

Quindi, da un lato il bambino ama la madre nel momento in cui ella soddisfa il suo bisogno di nutrimento e gli procura il piacere derivante dal succhiare il seno, dall’altro, quando la gratificazione viene meno, la odia e si destano in lui gli impulsi distruttivi, che lo spingono a distruggere l’oggetto desiderato, fonte di tutte le cose, buone e cattive. «Un elemento di frustrazione da parte del seno entra necessariamente a far parte
del rapporto precoce del bambino con esso, poiché anche una situazione di allattamento felice non può sostituire completamente l’unità prenatale con la madre» (Klein, 1969, p. 15).

L’elaborazione fantastica accompagna gli impulsi e i sentimenti infantili: il bambino può immaginare la gratificazione di cui è privo quando il seno non è presente o avere delle piacevoli fantasie associate alla soddisfazione reale, oppure, quando è frustrato, può elaborare delle fantasie distruttive nei confronti della madre e del seno, immaginando di morderlo e di lacerarlo. Aspetto significativo di queste fantasie distruttive, che equivalgono a desideri di morte, è che il bambino crede di aver distrutto realmente l’oggetto: questa credenza gli consentirà di sperimentare il senso di colpa, di identificarsi con la madre e poter riparare nei suoi confronti.

L’esperienza emotiva del bambino è caratterizzata da questo continuo processo di perdita e riconquista dell’oggetto (Klein e Riviere, 1969).
In questo scenario emotivo è proprio il seno che nutre il primo oggetto d’invidia, «in quanto il bambino sente che il seno possiede tutto quello che egli desidera, ha una quantità illimitata di latte e di amore ma che lo tiene per il suo godimento» (Klein, 1969 p. 21).

In tal senso l’invidia condivide con l’avidità, «un desiderio imperioso ed insaziabile che va al di là dei bisogni del soggetto e di ciò che l’oggetto vuole e può dare» (1969 p. 18), «lo scopo di svuotare completamente, di prosciugare succhiandolo e di divorare il seno», ma si arricchisce di un ulteriore obiettivo, quello di «mettere ciò che è cattivo, e soprattutto i cattivi escrementi e le parti cattive di Sé nella madre, e in primo luogo nel seno allo scopo di danneggiarla e distruggerla» (1969 p. 18).

Invidia, avidità e impulsi distruttivi si potenziano vicendevolmente e accrescono in misura più o meno maggiore le difficoltà che il bambino può incontrare nel costruire il suo oggetto buono in quanto lo portano ad attaccare il seno con un’intensità e una durata tali da danneggiare le capacità di godere, di provare gratitudine, e di ricambiare il piacere ottenuto (Klein, 1969).

Dall’invidia del seno che nutre e dalla sensazione di averne deteriorato la bontà con gli attacchi, deriva «il precoce instaurarsi del senso di colpa» (Klein, 1969 p. 42) in una fase, quella schizoparanoidea, in cui il bambino non è in grado di poterlo elaborare e che può condurre ad una «intensificazione dei desideri e delle tendenze genitali» (Klein, 1969 p. 44) basata su di una «fuga dall’oralità» (Klein, 1969 p. 45).

Soltanto nella fase depressiva il bambino sarà in grado di attribuire la cattiveria dell’oggetto alla propria aggressività e proiezione, e di provare il senso di colpa da un lato, ma anche la speranza dall’altro, nella misura in cui l’oggetto non è così cattivo come era percepito nei suoi aspetti scissi (Klein, 1969).

Ulteriore distinzione compiuta dalla Klein è fra il sentimento dell’invidia che si caratterizza per la rabbia verso qualcuno che possiede qualcosa che non si ha e per l’impulso di derubarlo o portarlo via, e la gelosia che coinvolge almeno altre due persone ed ha a che fare con la perdita reale o minacciata di un amore che il soggetto sente come suo a causa di un rivale (Klein, 1969).

«Tra l’invidia nei confronti del seno materno e lo svilupparsi della gelosia esiste un legame diretto. La gelosia nasce dalla diffidenza e rivalità verso il padre, che è accusato di aver portato via il seno materno, e la madre stessa» (Klein, 1969 p. 47). Questa rivalità sorge in uno stadio precoce del complesso edipico, quando il bambino è alle prese con la posizione depressiva nel secondo trimestre del primo anno di vita e dipende dal primo rapporto esclusivo con la madre, infatti, se questo è stato eccessivamente disturbato da attacchi invidiosi, il bambino non ha potuto introiettare un oggetto interno buono e svilupperà «fantasie intense del pene dentro la madre o dentro il suo seno, [che] trasformano il padre in un intruso ostile» (Klein, 1969 p. 48).

«Se l’invidia non è eccessiva, la gelosia della situazione edipica diventa un mezzo per elaborarla. Quando nasce la gelosia, i sentimenti ostili sono diretti non tanto verso l’oggetto primario, quanto piuttosto verso i rivali –padre o fratelli- il che permette di diluirli [d’altra parte] sorgono dei sentimenti di amore che sono una nuova fonte di gratificazione» (Klein, 1969 p. 50).

Per quanto concerne lo sviluppo del complesso edipico nelle bambine, Melanie Klein, rifacendosi a Freud, sottolinea come l’originaria invidia del seno materno si sposterebbe sul pene del padre: così, da una parte essa invidia e odia il padre perché ha il tanto desiderato pene e dall’altra invidia la madre e mostra una certa rivalità nei suoi confronti nella misura in cui ella possiede il padre e il suo pene. L’idealizzazione del pene deriva dalla ricerca di un oggetto buono da interiorizzare, processo che si risolverà con un esito positivo, nella misura in cui la bambina potrà mettere insieme l’odio provato nei confronti della madre e l’amore per il padre.

Nell’uomo, l’invidia nei confronti del seno materno si sposta su altri attributi e investe la capacità della donna di generare figli: soltanto concependo un figlio con la futura moglie ed identificandosi con lui, egli potrà compensare l’invidia precoce e le frustrazioni.

Tutti noi inconsciamente sentiamo l’invidia per i membri del sesso opposto, ma «solo quando il desiderio delle cose buone, e del possesso di qualcosa di più di quello che si ha, è associato nelle mente esclusivamente con gli attributi o coi vantaggi dell’altro sesso, e non si possono accettare sostituti, questa invidia diventa incontrollabile e patologica» (Klein e Riviere, 1969 pp. 35-36)

Dunque, dal punto di vista della Klein e della sua allieva Joan Riviere (1969) la gelosia è strettamente collegata a questa invidia primaria, nonché al bisogno di accumulare cose buone dentro di sé come prove e assicurazioni contro il vuoto interno e gli impulsi distruttivi.

La persona invidiosa sente la mancanza di cose buone istituendo un paragone con gli altri e gode indirettamente nel sentirsene priva, perché
ciò le consente di dimostrare che non è colpevole di avidità, ma in questo modo si preclude la possibilità di godere effettivamente dei piaceri che la vita le può offrire.

D’altra parte la gelosia si caratterizza, non soltanto per la reazione d’odio e d’aggressività a una perdita reale o minacciata, ma anche per la mancanza di fiducia in se stessi: «La persona gelosa inevitabilmente si sente umiliata e inferiore e, meno consciamente, indegna, depressa e colpevole. Questo vuol dire che non essere amata, o credere di non esserlo, significa per lei inconsciamente che non è da amare, che è
odiosa, e piena di odio» (Klein e Riviere, 1969 p. 44).

Come messo in evidenza da Joan Riviere (1932), subentra un meccanismo proiettivo, attraverso il quale la mancanza di amore non è vista in se stessi, ma nel partner e tutto il male e la distruttività sono scorsi nel rivale, che può essere odiato, senza provare senso di colpa.

Dunque, altro che «invidia buona» e gelosia come prova d’amore, emerge da questa concezione soprattutto l’aspetto distruttivo di questi sentimenti: essi, se presenti con una certa intensità e durata pregiudicano il rapporto dell’individuo con l’oggetto e in particolare la possibilità di costituire un oggetto interno buono, compromettendo così il piacere di vivere e di godere delle cose della vita, che si sviluppa a partire da questa esperienza primaria.

di Valentina Donnari

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