Come gestire la relazione tra fratelli

Quando parliamo di contesto sociale in grado di influenzare la qualità delle relazioni interpersonali, nella fattispecie quella fraterna, è doveroso fare riferimento al complesso dei rapporti che intorno ad esso gravitano: nascendo e sviluppandosi in seno alla più ampia costellazione familiare, il legame fraterno è profondamente influenzato dalla relazione che ciascun figlio intrattiene coi genitori, dal loro rapporto di coppia, e dalla specifica esperienza che padre e madre hanno vissuto come figli, ed eventualmente come fratelli.

Un primo sguardo al rapporto fra relazione di coppia e relazione genitore figlio ci pone di fronte all’ipotesi che queste relazioni siano profondamente interconnesse (Minuchin, 1985):

  1. l’affetto dimostrato dalle madri nei confronti dei figli è fortemente associato alla qualità del legame matrimoniale (Easterbrooks ed Emde, 1988);
  2. la sicurezza della relazione madre figlio è correlata all’affetto e al sostegno reciproco sperimentato nel rapporto coniugale (Belsky, 1984; Goldberg ed Easterbrooks, 1984),
  3. una madre può risultare meno adeguata nel momento in cui il marito viene meno nel supportarla e quando sono presenti conflitti coniugali (Christensen e Margolin, 1988; Engfer, 1988; Quinton e Rutter, 1988; Rutter, 1988).

Tuttavia, bisogna considerare che i collegamenti fra le due relazioni sono differenti per il padre e per la madre, per il figlio e per la figlia, che si rivelano consistenti negli studi su famiglie problematiche ma non in quelle che non sono sottoposte a stress psicologico e sociale, ed, infine, che variano a seconda delle dimensioni considerate (Dunn, 1993).

Un ulteriore aspetto, da non sottovalutare, riguarda la comprensione dei processi che sono implicati nell’«associazione tra una relazione coniugale soddisfacente ed una relazione genitore-bambino armoniosa» (Dunn, 1993 p. 101): la si potrebbe attribuire ad una caratteristica del genitore che abbia contribuito alla scelta di un partner che offra sostegno, piuttosto che ad una scelta attiva del coniuge di impegnarsi nel ruolo genitoriale.

Ancora, la si potrebbe intendere come «trasposizione diretta della qualità emotiva da una relazione all’altra» (Dunn, 1993 p. 102), come influenza generale da parte di «uno degli aspetti dell’ambiente dei genitori». (Dunn, 1993 p. 102) e, non da ultimo, come effetto di una relazione coniugale che esercita ampie conseguenze sulla vita del genitore, e indirettamente su quella del bambino (Dunn, 1993). Una questione abbastanza dibattuta, quando si indagano le relazioni familiari, concerne la continuità generazionale: il modo in cui un individuo esplica la funzione genitoriale dipende dalla passata esperienza come figlio? Due ricerche, una di Rutter (1988) condotta su donne allevate in istituto e sui loro figli di due anni, e l’altra di Elder e collaboratori (1988), dimostrano che ci sono elementi di continuità intergenerazionale. Infatti, nel primo studio era stata riscontrata un’associazione significativa tra esperienza di istituzionalizzazione e inadeguatezza genitoriale, mentre nel secondo si è visto che il fatto di crescere in una famiglia in cui regnavano l’ostilità e la mancanza di affetto, comportava delle instabilità caratteriali, che si riflettevano sia nella futura relazione coniugale, sia nel rapporto con i figli.

Nonostante queste evidenze, risulta difficile trarre conclusioni certe da questi studi, senza tener conto dell’eventuale ruolo della componente genetica e del fatto che per molte donne, affidate in istituto, le esperienze negative tendevano a perdurare in epoche successive della vita (Dunn, 1993). Un ulteriore livello di complessità è dato dallo speciale rapporto che il genitore instaura con ciascuno dei suoi figli: da questa specificità scaturiscono evidenti differenze fra una relazione e l’altra, nonché fra un trattamento e l’altro riservato ai due fratelli. Nonostante la forte aspettativa sociale di un amore distribuito in maniera ugualitaria tra i figli, l’imparzialità tende piuttosto ad essere la regola. Ad esempio il Colorado Sibling Study (Dunn e Plomin, 1990) mette in evidenza che solamente un terzo dei genitori riferiva di provare la stessa intensità d’affetto con i figli quando in media avevano quattro e sette anni, solamente un terzo dichiarava di prestare la stessa attenzione ad entrambi ed infine solo il dodici per cento diceva di avere la stessa frequenza di scambi disciplinari.

Queste differenze individuali nelle interazioni delle madri con i bambini erano correlate al particolare stadio di sviluppo: la madre mostrava uno stesso tipo di affetto per entrambi i figli quando questi, prima l’uno poi l’altro, avevano una certa età, ma esso non rimaneva stabile verso lo stesso bambino nel corso del tempo (Dunn, 1993). «Il secondo punto sottolineato dagli studi sulle relazioni dei fratelli con i loro genitori è che fin da piccolissimi i bambini sono testimoni estremamente sensibili delle differenze di affetto, interesse e disciplina da parte dei genitori. Tale sensibilità emerge sia dai loro commenti sull’insieme delle relazioni familiari, sia dal modo in cui essi reagiscono alle interazioni fra i genitori e i fratelli» (Dunn, 1993 p. 108).

Negli studi classici di Helene Koch (1960), alcune dichiarazioni dei bambini, sembrano dimostrare ciò, sia quando le differenze di comportamento erano per loro svantaggiose («La gente è dalla sua parte»; «Lei riceve più attenzione»), sia quando si sentivano in un qualche modo favoriti («Io non devo mangiare gli spinaci»; «Io posso fare cose pericolose che mio fratello non può fare»). Per quanto concerne lo studio delle reazioni dei bambini alle interazioni fra fratelli e genitori, sono state realizzate a Cambridge un’indagine longitudinale sui primogeniti, seguiti a partire da un periodo di poco precedente alla nascita del fratello per tutta l’infanzia di quest’ultimo, e due ricerche sui secondogeniti dal secondo anno di età fino al sesto (Dunn e Kendrick, 1982).

Queste ricerche sembrano dimostrare che primogenito e secondogenito, rispondono entrambi in maniera immediata e diretta agli scambi comunicativi dei genitori con il fratello: molto comunemente il più grande, alla nascita del fratello, protestava o cercava di ottenere la medesima attenzione su di sé, talvolta, invece, si univa al gioco del fratello con la madre, oppure lo interrompeva; da parte sua, anche il più piccolo dimostrava di essere particolarmente attento alle interazioni delle madri con i loro fratelli maggiori, soprattutto quando si trattava di giochi o dispute scherzose (Dunn e Kendrick, 1982).

Altro aspetto di notevole importanza è che queste differenze di comportamento si associavano a diverse conseguenze sul bambino: ad esempio nel campione dello studio in Colorado il diverso affetto e controllo materno erano collegati a diverse misure dell’adattamento emotivo, nel senso che i bambini che ricevevano meno affetto e più controllo erano più inclini a provare ansia e depressione (Dunn, Stocker e Plomin, 1990); in maniera analoga nel campione esaminato nelle ricerche di Cambridge, i bambini che esperivano l’amore materno in misura minore, tendevano ad avere un più basso livello di autostima (Dunn, 1998). «Questi risultati suggeriscono che dobbiamo intendere l’importanza delle relazioni dei bambini con i loro genitori non considerandole come diadi isolate dalle altre relazioni che vi sono all’interno della famiglia, ma invece considerandole in funzione della relazione dei genitori con gli altri figli presenti in famiglia.

Sembrerebbe che ciò che conta dal punto di vista evolutivo non sia solamente quanto un bambino si senta amato e curato da parte della madre o del padre, ma anche quanto si senta amato e curato rispetto ai fratelli» (Dunn, 1993 p. 110). In tal senso la percezione di essere amati di meno gioca un ruolo importante, non soltanto perché ha un considerevole impatto evolutivo sul bambino nel corso del tempo, ma poiché influenza negativamente la relazione fra fratelli nella direzione di un alto livello di ostilità (Dunn, 1993).

In sintesi, oltre al ruolo del comportamento differenziale del genitore, dalle ricerche, soprattutto quelle condotte a Cambridge, sono emersi altri possibili collegamenti tra la relazione madre-bambino e quella fra fratelli:

  • il bambino che al momento della nascita del fratello presentava dei problemi nel legame con la madre, avrebbe avuto difficoltà in varie relazioni, compresa quella fraterna;
  • se il rapporto madre-bambino alla nascita del secondo figlio era intenso e intimo si sarebbero manifestati alti livelli di ostilità specifica nella relazione fratello- bambino, viceversa questa sarebbe stata caratterizzata da un comportamento maggiormente amichevole, qualora invece fossero consistenti gli scontri con la madre;
  • alti livelli di ostilità sarebbero stati presenti nel caso in cui si sviluppava una relazione particolarmente affettuosa e intima fra madre e secondogenito;
  • infine, le discussioni materne sul secondogenito, visto come persona con bisogni, interessi e sentimenti propri, nonché la valorizzazione del legame fraterno, erano associate ad un comportamento maggiormente amichevole fra i fratelli (Dunn, 1993).

Da questi studi si evince che, pur essendo le relazioni familiari intimamente interconnesse, non si possono riscontrare collegamenti semplici e globali fra le stesse, perché entrano in gioco una molteplicità di caratteristiche, inoltre, bisogna fare attenzione alla direzione degli effetti, alle differenze individuali e alla fase evolutiva del bambino, che in un dato momento può essere più sensibile ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri (Dunn, 1993).

di Valentina Donnari

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