Come assistere persone con Alzheimer

 

Occuparsi di un malato di Alzheimer, vivere con lui, accudirlo, comporta un peso non indifferente nel familiare; al caregiver viene chiesto di rinunciare parzialmente alla sua vita, tutto si deve riadattare in funzione dell’altro (vedi tabelle 10 e 11). Un altro però che non è un altro qualsiasi ma un padre, una madre, un partner o un fratello, qualcuno con cui si è trascorso gran parte della vita in salute ed ora lo si guarda senza nemmeno riconoscerlo. Frequente è il sentire descrivere queste persone come fantasmi, “un involucro in cui una volta c’era mio padre ed ora più nulla” ha detto una signora che ha partecipato alla nostra ricerca.

Guardare qualcuno che non potrà migliorare ma solo peggiorare crea nella famiglia un senso d’impotenza e di sfiducia; l’essere circondati da familiari ed amici aiuta però il caregiver a non sentirsi abbandonato e ad avere la possibilità di mantenere alcune delle sue attività, venendo supportato.

Di grande sollievo è anche una condivisione del proprio dolore con persone che ci sono già passate o che ci stanno passando; spesso questi incontri possono diventare una fonte molto utile di informazione per migliorare la gestione del malato. Ogni contatto con l’esterno aiuta il caregiver a ridurre il senso di isolamento provocato dalla malattia.

A questo punto è possibile affermare che la demenza non colpisce solo il paziente, ma tutta la sua famiglia, che risulta gravata da un enorme carico assistenziale ed emotivo. Questo carico, usando le parole di George e Gwyther, è definibile come: “l’insieme dei problemi fisici, psicologici o emotivi, sociali e finanziari che possono essere incontrati dai familiari che si prendono cura di persone anziane deteriorate” (George & Gwyther, 1986).

La parola burden deriva dall’inglese e significa infatti “peso”, “fardello”,un carico che ogni caregiver è chiamato a sperimentare e sopportare.

Tra i fattori che possono maggiormente determinare un burden assistenziale troviamo:

  • Isolamento sociale
  • Sesso femminile
  • Bassa scolarità
  • Stili di coping inefficienti (Iavarone et al., 2014)
  • Abilità cognitive povere
  • Senso di colpa
  • Mancanza di consapevolezza o disinformazione
  • Vivere soli con il malato
  • Frequenti cali di salute del parente (Adelman et al., 2014)

Come vi sono fattori in grado di determinarlo, ve ne sono altri in grado di ritardarlo o contenerlo:

  • Aiuto familiare
  • Strategie di coping efficaci (Iavarone, p. 24-25)
  • Capacità di problem solving

I sintomi del burden sono quelli tipici dello stress come i disturbi del sonno, dell’attenzione, della concentrazione, difficoltà mnesiche, facile irritabilità, somatizzazioni, sbalzi di umore, agitazione, forte apprensione, facilità ad ammalarsi soprattutto nelle fasi non  acute della malattia del paziente.  Si possono instaurare anche variazioni del comportamento, umore depresso e aumento notevole dell’ansia.

Nel familiare con un elevato livello di burden si assiste in oltre ad un iper-coinvolgimento emotivo o, al contrario, al distacco emotivo, e, non raramente, il caregiver familiare con burden fa uso di psicofarmaci, per lenire l’ansia e l’umore depresso che prova.  Questo stato di forte stress si ripercuote in modo negativo sull’assistenza al paziente (caregiving negativo) e sulla propria qualità di vita.

Questa sensazione di peso, fardello, viene vissuta anche dagli operatori sanitari, ed è chiamata Burnout[1], ma a differenza di essi, il famigliare non può né prendersi una vacanza, né andare in malattia, né cambiare settore lavorativo poiché la persona ammalata è un suo parente prossimo e lui è, generalmente, uno dei pochi se non l’unico individuo che possa assisterlo. Inoltre, ciò che incide fortemente è la condizione di obbligo: lui non ha scelto di fare assistenza per professione, ma si trova nella condizione di doverlo fare; non ha conoscenze mediche e spesso è disinformato sulla malattia; non è da dimenticare che molti di coloro ai quali viene diagnosticata la demenza di Alzheimer sono over65/70 e i loro partner (spesso caregiver principale) sono coetanei o anche più grandi, con un livello di scolarizzazione non elevato, pertanto è plausibile aspettarsi una vasta disinformazione in materia.

I possibili peggioramenti o non miglioramenti del familiare si riflettono sull’ autostima del caregiver, giacché viene vissuta come una inefficienza ad assisterlo bene e subentrano colpe ingiustificate per la presunzione di aver dovuto possedere conoscenze o abilità specifiche attraverso cui avrebbe potuto migliorare l’assistenza o la sopravvivenza del paziente.

Come dire, col senno del poi e in un momento più lucido siamo tutti bravi e sappiamo tutti che cosa è meglio fare; di fatto, al familiare spesso manca la consapevolezza delle reali risorse, soggettive e oggettive, che erano presenti durante la malattia del proprio caro.

È possibile riscontrare anche un burden minore in chi vive con il malato ma che non è identificabile come caregiver principale: i nipoti di un nonno che vive in casa, il coniuge del caregiver principale, ecc; queste figure che ruotano intorno al malato, anche se non si occupano in prima persona dei suoi bisogni, vivono una condizione di rinunce e difficoltà, dovuta sia all’avere in casa un malato di Alzheimer sia al dover supportare il caregiver principale con i suoi inevitabili vissuti.

Ad incidere fortemente sull’entità del burden vi è indubbiamente il numero di ore giornaliere di assistenza; più un malato è presente in casa e meno aiuto viene offerto al caregiver e più sarà elevato il burden. Per questo motivo, quando la situazione diventa insostenibile, il caregiver può rivolgersi a badanti o altri enti esterni, centri diurni e/o centri residenziali che andranno ad alleggerire il suo carico assistenziale ma andranno a gravare sul bilancio economico familiare e sulla sua coscienza; come vedremo meglio nel Capitolo 4 infatti spesso associate a queste decisioni vi sono numerose diatribe familiari e un aumento di sensi di colpa nei caregiver.

Anche il genere del caregiver è predittivo di un minore o maggiore burden; è stato infatti dimostrato che la donna, data la molteplicità dei suoi impegni, lavorativi e familiari, sia maggiormente sensibile ad un burden elevato; su di lei viene in oltre riversato il ruolo di apportatrice di cura per eccellenza, al quale è difficile sottrarsi.

Oltre ai fattori di contenimento vi sono anche dei comportamenti che il caregiver può attuare per gestire meglio il burden:

  • Accettare la malattia del proprio parente; molte ripercussioni emotive sono date dalla non accettazione, cosa non semplice da raggiungere dato il coinvolgimento affettivo.
  • Saper gestire il quotidiano; evitare di pensare ai possibili peggioramenti, a ciò che non potrà più fare o a ciò che dovrebbe potenziare; rimanere su ciò che avviene giorno per giorno, valutando non solo le difficoltà ma anche e soprattutto le capacità preservate per valorizzarle al meglio.
  • Saper accettare quel poco che il paziente riesce a dare; Anche quel sorriso in più o il fatto che ha mangiato con più appetito è da apprezzare e da vivere come momento importante (Carrara, 2011).
  • Praticare discipline di meditazione; vari studi, anche se per la maggior parte attuati in piccoli campioni, hanno dimostrato come lo yoga ed altre discipline come Longevity, training autogeno, ecc possano diminuire il livello di stress avvertito dai caregiver e riescano ad alleggerire il burden percepito, aiutando i cargivers ad acquisire maggiore consapevolezza di sé e della malattia (Danucalov et al., 2013; Umadevi et al., 2013; Lavretsky et al., 2013).

di Ilaria Giardini

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