Come comunicare una diagnosi di autismo

La comunicazione della diagnosi esercita un impatto distruttivo per la famiglia del bambino autistico. La Letteratura sull’argomento in virtù della forza di tale impatto si è concentrata sull’effetto che tale evento esercita sugli equilibri sia familiari che personali, le peculiarità che lo rendono assimilabile alla perdita del bambino sognato e atteso.

Le reazioni immediate dei genitori sono molto simili a quelle vissute durante un lutto, con una iniziale fase di stordimento e incredulità. Questo tipo di reazione spesso agisce come meccanismo di difesa contro l’angoscia derivante dalla presa di coscienza del significato della scoperta. Il trauma vissuto dai genitori in questa prima fase, può essere seguito da una reazione di rifiuto che in alcuni casi può sfociare nella negazione, ma più frequentemente si traduce nella minimizzazione della gravità delle condizioni del proprio bambino fino all’emergere di fantasie riguardanti improbabili cure miracolose. Altri
vissuti sperimentati sono quelli di rabbia e senso di colpa: la prima causata dall’ingiustizia subita.

Domande frequenti sono: «Perché è successo proprio a me? Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo?» mentre il senso di colpa si tramuta spesso in sentimenti di tristezza e disperazione.

Nonostante queste siano le reazioni più frequenti, i sentimenti di un genitore alla diagnosi di autismo del proprio figlio sono differenti sia in relazione all’esordio del disturbo che al sospetto delle prime difficoltà del bambino. I membri della famiglia possono quindi attraversare differentemente le fasi di superamento dello shock iniziale e le singole reazioni possono continuare anche in seguito ad essere differenti da quelle dell’altro coniuge.

La nascita di un figlio disabile rende problematico per i genitori immaginarsi il futuro del bambino, soprattutto per l’indefinitezza delle aspettative circa ciò che potrà accadere. Un bambino disabile obbliga i propri familiari a pensare al futuro senza possedere i mezzi e gli strumenti per poterlo immaginare. I genitori si pongono domande circa la vita del proprio figlio e le risposte spesso rimangono in sospeso in quanto non solo elicitano un enigma di difficile soluzione circa le condizioni del bambino, ma spesso appaiono premature: «Mio figlio imparerà a leggere? quanto la sua vita sarà limitata? e ancora potrò lavorare, viaggiare, vivere come prima?».

Inoltre la scoperta della cronicità del disturbo spesso determina un amplificazione del dolore provato dalla famiglia, generando pensieri relativi al futuro del proprio figlio, nella prospettiva di doversene prendere cura per la vita, alla
presa di decisioni finalizzati a preservarne l’esistenza dopo la loro morte. Anche in questo delicato momento i genitori possono mostrare reazioni diverse nonostante stiano fronteggiando la medesima situazione.

Spesso la portata di questo evento getta i genitori in uno stato di disperazione, il vissuto è spesso comparabile a quello di una paralisi emotiva, essi si sentono spesso incompresi, impotenti, insicuri sulle scelte da compiere. Una reazione frequente in risposta alla diagnosi è il tentativo di individuare la causa del disturbo, tuttavia le scarse conoscenze a riguardo e il timore di esserne i diretti responsabili, inducono nei genitori forti sensi di colpa e di auto accusa.

Anche quando il sentimento di colpa non è presente, la copia può rivolgere a se stessa dure recriminazioni quali il
non essersi accorti prima del problema o il non aver ricercato aiuto in modo insistente. “Se allora qualcuno mi avesse detto chiaramente di che si trattava, non avrei perso almeno tre o quattro anni ad aspettare che chissà chi lo rendesse normale ”.

Uno stato d’animo comunemente sperimentato successivamente al senso di colpa, è la rabbia. Si tratta di un sentimento generalizzato che porta i genitori a chiedersi perché ciò sia capitato proprio a loro, che cosa abbiano sbagliato. Spesso i genitori si sentono offesi nel rapportarsi a qui genitori che danno per scontata la salute dei propri figli.

La comunicazione della diagnosi, nonostante rappresenti una situazione di estrema gravità, non sempre assume una valenza esclusivamente negativa. Una parte dei genitori riferisce di aver provato sollievo nel momento in cui è stata
comunicata loro la diagnosi, in quanto ciò ha permesso di prendere coscienza dei problemi del proprio figlio e rivolgersi a specialisti.

Una variabile importante nel determinare le reazioni dei genitori, è la modalità con cui viene comunicata la diagnosi. La chiarezza e la gradualità appaiono elementi fondamentali. Hasnat e Graves in un loro studio hanno riscontrato come al momento della diagnosi, i genitori che avevano ricevuto un ampia mole di informazioni erano maggiormente soddisfatti di coloro che giudicavano le indicazioni ricevute come semplicemente adeguate. Lo studio sembra quindi indicare come i genitori desiderino ricevere il più ampio numero di informazioni possibili, anche laddove non siano in grado di comprenderle a pieno.

“Non penso sia una responsabilità del pediatra o del neurologo giudicare cosa i genitori possano o non possano sopportare. Se io mi siedo qui e dico ditemi tutto e poi piango quando loro mi spiegano questo è un mio problema […] sono i genitori che devono chiedere quante informazioni vogliono e devono poterle ricevere liberamente.”

La comunicazione poco partecipativa della diagnosi rischia di aggravare, anziché mediare, la durezza dell’impatto, e la sensazione di solitudine che ne consegue. Spesso i genitori sottolineano un atteggiamento eccessivamente rigido, da parte di operatore e medici, sia nell’atto della comunicazione che nelle fasi successive.

L’esperienza di solitudine viene incrementata spesso anche dalle istituzioni e dalle comunità, che sottolineano l’importanza dell’attivarsi, ma spesso non illustrano le vie necessarie al raggiungimento di questo obiettivo. Non sempre esiste una connessione tra i servizi diagnostici e quelli riabilitativi, la diagnosi quindi, rappresenta spesso, l’inizio di un lungo cammino alla ricerca dell’intervento possibile.

I Percorsi terapeutici variano in funzione della loro accessibilità e efficacia anche in relazione alle risorse familiari. Alcuni autori sottolineano come le caratteristiche di personalità dei genitori, il grado di coesione della coppia, influiscano sulle modalità di affrontare il compito educativo. Nella maggior parte dei casi è necessario un certo intervallo di tempo per poter fronteggiare la situazione nei sui più disparati effetti.

Questo lasso di tempo che secondo alcuni autori è finalizzato alla presa di coscienza del disturbo, può anche essere considerato come necessario all’attivazione delle risorse emotive, cognitive, e organizzative della coppia coniugale. Di conseguenza anche risposte in cui prevalgono l’ansia o la tendenza a minimizzare i problemi, assumono valenza positiva. La prima ad esempio consente alla coppia un’attivazione nei momenti di sconforto, la seconda può agevolare l’assunzione di informazioni e mitigare la portata traumatica di una notizia carica di valenze negative soprattutto se associata a una prognosi senza alcuna speranza per il futuro.

È utile sottolineare come quei genitori che nutrono una fiducia anche illusoria nella possibilità di risvolti positivi si impegnino maggiormente nel trattamento e siano più motivati e attenti nelle cure quotidiano del proprio bambino. Interpretare i comportamenti della coppia in termini di accettazione e rifiuto significa dare una lettura univoca dei comportamenti familiari, non prendere in considerazione la coesistenza di stati d’animo e criteri di valutazione contrastanti, fermando le
famiglie in un tempo “ in sospeso” dove si compie il loro destino. La vita che attende la coppia è invece segnata da un percorso in cui elementi negativi e positivi si intrecciano a formare storie familiari sempre diverse.

di Gaia Baldoni

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