Etnopsichiatria: l’efficacia dei riti sciamanici secondo Devereux

Georges Devereux (1908-1985) fu un antropologo e psicanalista ungherese naturalizzato francese nonché uno dei maggiori rappresentanti dell’etnopsichiatria, sia per quanto riguarda la definizione disciplinare sia le strategie metodologiche. Nacque in una famiglia di origine ebraica a Lugoj, una piccola città dell’impero austro-ungarico di lingua magiara che dopo il primo conflitto mondiale passa alla Romania. Il piccolo Georgy Dobo si ritrovò dunque  a fare i conti molto presto con le questioni di appartenenza a più culture e lingue. All’età di 18 anni si trasferì in Francia per studiare fisica ma durante il suo soggiorno parigino cambiò indirizzo e si laureò in lingua malese all’Istituto di Lingue orientali. Grazie a una borsa di studio emigrò negli Stati-Uniti dove si specializzò in psicologia e studiò antropologia culturale. Devereux lavorerà sul campo con i Sedang Moi, una tribù del sud Vietnam, poi con gli indiani Mohave dell’Arizona. Importante il suo rapporto con  Jimmy Piccard, un indiano Mohave alcolizzato e con grossi disturbi psichici che lo porterà a scrivere Psicoterapia di un indiano delle pianure.

Devereux ha cominciato a costruire una teoria dell’umano che andava oltre la pretesa di universalità propria della psichiatria e della psicanalisi del tempo. Non vedeva le persone solo come individui, cioè come portatori di una biografia e di un inconscio, le guardava attraverso lo sguardo di due discipline, quello psicologico-psicanalitico e quello etnografico-antropologico, in cui la persona che si ha davanti non è fatta solo del suo interno ma anche di un’etnia, quindi porta con sé una specie di nuvola di relazioni, di pensieri e connessioni attive che lo istituiscono come soggetto di una cultura. Egli tenta di fondare, andando incontro a parecchie difficoltà, una visione dell’uomo e della sua componente psicologica basato su questo doppio registro, antropologico-etnografico e psicologico.

Al fine di capire cosa sia l’etnopsichiatria per Devereux è fondamentale specificare cosa rende scientifica una teoria per lui, ovvero la rinuncia ad essere totalizzante nelle sue interpretazioni o spiegazioni delle cause di un fenomeno e la testarda ricerca di complementi interpretativi in altri campi, per cui l’etnopsichiatria di Devereux si presenta non solo come interazione tra più saperi quali quello antropologico, etnologico, psicoanalitico e psichiatrico, ma anche come preliminare ridefinizione degli oggetti di studio di queste materie. Ne deriva che punti focali del suo pensiero sono il riuscire a governare l’elemento soggettività dell’osservatore, il quale non può essere evitato ma può essere sfruttato (porrà particolare attenzione al controtransfert) e l’indagare il “fatto psicopatologico” in società diverse da quella euroamericana, intrecciando la prospettiva antropologica con quella psicanalitica ed etnologica, sottolineando però la necessità di fare a questa ricorso in momenti successivi. In altri termini, il ricercatore può portare avanti la lettura psicologica fino a quando questa rende dal punto di vista di conoscenza, dopo di che si passa ad una lettura antropologica ed etnografica, assemblando il tutto insieme successivamente (approccio complementarista). Sottolineava che era importante comprendere il funzionamento psichico sia dal punto di vista delle sue forme, dei sui meccanismi che dal punto di vista dei contenuti, dei materiali prodotti. Le forme sono simili ovunque mentre i contenuti cambiano da un contesto culturale specifico ad un altro; la comprensione del comportamento umano e della sua configurazione psicologica dipende dunque, secondo lui, dall’unità di questi due aspetti che rappresentano l’integrazione della personalità in diversi luoghi, cioè il nesso tra similitudine e differenza. Nonostante se ne possa provare l’impulso, chiamare Devereux culturalista è sbagliato, egli stesso si definisce anticulturalista, in quanto si rifiuta di pensare che la comprensione dei comportamenti individuali possa essere collegata solamente alla cultura: ovviamente con questo non intendeva negare il ruolo che questa esercita sulla personalità, sul comportamento o sulla costruzione delle teorie scientifiche.

Nei Saggi di etnopsichiatria generale (1970) dichiara che l’etnopsichiatria è una scienza autonoma che ha come primo obiettivo quello di determinare il locus, l’ubicazione precisa, che separa normale e anormale, che sono la coppia basilare della psichiatria. Definirà inoltre il concetto di adattamento come diviso in esterno, cioè necessario ad ogni individuo per adattarsi in ogni tipo di società, ed interno che risponde, cioè, all’interiorizzazione da parte del soggetto delle norme e forme culturali in cui vive. Se la società è sana è facile per gli individui adattarvisi in senso sano e normale, se è malata, anche se il soggetto cerca di non interiorizzare le norme devianti di essa, sarà comunque portato a provare un senso di disagio ed isolamento che alla fine lo porteranno a conformarsi. Sempre nei saggi darà una definizione di quello che per lui sono inconscio idiosincratico, cioè quei contenuti che il soggetto ha dovuto rimuovere in seguito a stress unici e specifici, e inconscio etnico dato dall’insieme dei contenuti inconsci che accomunano la maggior parte dei membri di una stessa cultura: ogni cultura infatti mette a disposizione dei suoi membri dei mezzi difensivi per rimuovere le pulsioni culturalmente distoniche.

Devereux si esporrà anche riguardo allo sciamanesimo dimostrando grande ambivalenza nei suoi confronti, da un lato ne riconosce la ricchezza del sapere e il valore ma dall’altro esita ad attribuire un efficace ruolo terapeutico ai riti sciamanici. Nei Saggi di etnopsichiatria generale scrive che non si può dire che lo sciamano attui una cura psichiatrica nel senso stretto del termine, in quanto egli aiuta soltanto il paziente a organizzare il suo sistema di difese in modo da consentirgli di far fronte a conflitti idiosincratici che lo tormentano, ma senza però portarlo alla reale presa di coscienza (insight) necessaria per una vera e propria guarigione, in altre parole le cure sciamaniche consistono nel sostituire conflitti e difese idiosincratiche con conflitti culturalmente convenzionali e con sintomi ritualizzati. Per Devereux lo sciamano è un individuo paragonabile ad un soggetto gravemente nevrotico o ad uno psicotico in stato di remissione temporanea, distonico rispetto alla cultura di appartenenza. Porta l’esempio degli sciamani mohave che, conformandosi alla pratica sciamanica, negano il proprio conflitto iniziale di tipo aggressivo e utilizzano l’attività terapeutica come difesa dalle pulsioni ostili, ma, non appena smussata tale difesa, sopraggiunge l’aggressività silente e lo sciamano da guaritore si fa stregone. Quindi lo sciamanesimo, per lo psichiatra francese, può essere considerato a tutti gli effetti una “sindrome restituiva fornita dalla cultura.”

A questa ipotesi si opporrà l’allievo di Devereux, Tobie Nathan le cui ricerche contraddicono l’asserzione secondo cui le cure sciamaniche sono imposture e i loro effetti mera suggestione.

Su Tobie Nathan tornerò a breve, prima mi sembra necessario concludere la parte dedicata a Devereux sottolineando che l’etnopsichiatria da lui proposta, al di là dell’essere d’accordo o meno su alcuni punti, vede al centro dei propri interessi tanto le cure sciamaniche e la follia in altre culture quanto i nodi della psichiatria e psicologia occidentale e i riflessi che una determinata concezione di normalità e persona hanno avuto sulla costruzione di categorie diagnostiche e l’impatto di alcuni valori culturali nel modellare la sofferenza psichica. Tutto ciò ne fa un grande esempio di etnopsichiatria autoriflessiva, che lo stesso Nathan porterà avanti. Si deve soprattutto a quest’ultimo, anche se è stato Devereux a porre le basi per una clinica etnopsichiatrica, la sistematizzazione di un dispositivo clinico etnopsichiatrico. Nathan sembra intendere la cura come un ricostruire le appartenenze, ed in particolare le appartenenze originarie, e questo aspetto del suo dispositivo ha suscitato molte polemiche in Francia. Il dibattito ruota in particolare attorno al ruolo della cultura originaria nei dispositivi di cura dei migranti. In ogni caso il lavoro di Tobie Nathan, che ci si trovi d’accordo su tutto o no, merita di essere citato.

di Alessia Maccarrone

alessia maccarrone

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