La prevenzione dei reati dei minori

Nell’ ultimo trentennio è stato compiuto, in ambito scientifico, un considerevole sforzo per arrivare ad una definizione concettuale rigorosa della prevenzione e per raggiungere una soddisfacente classificazione dell’insieme delle azioni che possono esservi comprese. Tuttavia questi tentativi hanno portato spesso ad esiti poco soddisfacenti e la prevenzione continua a restare un concetto alquanto vago e nebuloso.

Una delle distinzioni tra le varie azioni preventive che ha avuto più fortuna è quella tra azioni di prevenzione primaria, secondaria e terziaria. La prima è diretta a eliminare o ridurre le condizioni criminogene presenti in un contesto fisico o sociale, quando ancora non si sono manifestati segnali di pericolo. La seconda comprende tutte le misure rivolte a gruppi a rischio di criminalità; la terza interviene quando un evento criminale è già stato commesso, per prevenire ulteriori ricadute [Brantingham e Faust, 1976]. Secondo gli autori che per primi hanno avanzato questa tripartizione, la prevenzione primaria rappresenta la forma ideale della prevenzione, perchè si rivolge alla eliminazione di tutti i fattori criminogeni presenti nella società , mentre la prevenzione terziaria risulta la meno soddisfacente sul piano preventivo, perchè caratterizzata da misure reattive, in buona parte tipiche del sistema penale (mentre, come si è detto, tutti gli sforzi di classificazione degli ultimi vent’anni cercano gli elementi di estraneità dal sistema penale stesso).

Questa distinzione originaria viene arricchita da van Dijk e de Ward [1991], che introducono due nuovi aspetti: le vittime di reato e il contesto in cui si interviene. Viene così individuato uno schema più complesso che distingue tra azioni preventive primarie, secondarie e terziarie che siano orientate alle vittime, agli autori, o al contesto. Van Djik e de Ward elaborano, in base a queste considerazioni, un prospetto delle azioni preventive che ha avuto, ed ha tuttora, molta fortuna e che viene presentato di seguito.

Le nove tipologie di misure individuate vengono meglio chiarite da questi esempi, secondo la elencazione proposta dagli stessi autori:

Prevenzione orientata all’autore del reato

  • Prevenzione primaria orientata all’autore: vi rientrano misure quali la socializzazione, gli interventi educativi, le politiche per la famiglia e sociali in genere. Esempi concreti sono: le campagne educative contro il vandalismo o per favorire il rispetto delle norme (cioè che in Italia si definisce come educazione alla legalità), i programmi di protezione per l’infanzia, le campagne contro il bullismo, ecc.
  • Prevenzione secondaria orientata all’autore: comprende i programmi preventivi finalizzati ad evitare l’ulteriore sviluppo di “tendenze” o predisposizioni alla criminalità e alla devianza nei gruppi a rischio. Esempi concreti sono rintracciabili nelle varie misure di prevenzione della devianza giovanile, quali gli interventi formativi e per l’impiego, il sostegno psicologico ai giovani e alle famiglie in difficoltà.
  • Prevenzione terziaria orientata all’autore: comprende gli interventi finalizzati ad evitare la recidiva e attuati dal sistema correzionale o sociale, attraverso, per esempio, i servizi riabilitativi, la formazione per ex detenuti, il trattamento medico, l’aiuto all’impiego, ecc. In questo caso troviamo quindi anche misure tipiche del sistema penale.

Prevenzione orientata alla situazione

  • Prevenzione situazionale primaria: comprende l’insieme delle misure finalizzate a intervenire sul contesto, rendendo più difficile il compimento di reati e/o migliorando il senso di sicurezza. Esempi concreti sono le varie forme di protezione dei beni di tipo tecnologico e le misure architettoniche e urbanistiche.
  • Prevenzione situazionale secondaria: è rivolta ai contesti considerati “ a rischio” di criminalità e consiste in misure architettoniche e di difesa passiva, quali i “programmi di sorveglianza del vicinato”;
  • Prevenzione situazionale terziaria: si rivolge alle aree territoriali dove la criminalità, la devianza o le inciviltà sono fenomeni ormai consolidati. Gli interventi possibili sono, tra i tanti: il controllo di polizia, il controllo delle licenze sugli esercizi pubblici, la dislocazione intenzionale, cioè la concentrazione voluta di alcuni fenomeni o comportamenti in aree precise della città , come avviene nel caso dei quartieri dedicati all’esercizio della prostituzione.

Prevenzione orientata alle vittime

  • Prevenzione primaria orientata alle vittime: comprende interventi di carattere generale quali le campagne informative sulla criminalità rivolte alla popolazione.
  • Prevenzione secondaria orientata alle vittime: comprende azioni orientate ai gruppi che presentano un rischio di vittimizzazione più elevato, quali, per esempio, i corsi di autodifesa per donne, le misure di protezione specifiche per gli anziani.
  • Prevenzione terziaria orientata alle vittime: riguarda gli interventi verso coloro che hanno già subito un reato e comprende pertanto misure di sostegno, economico, psicologico, o di altrogenere, alle vittime.

Di recente, la distinzione originaria tra prevenzione primaria, secondaria e terziaria è stata criticata sotto diversi punti di vista.

Per alcuni studiosi, che si discostano da tale visione, le politiche preventive dovrebbero concentrarsi invece sulla differenza esistente tra i diversi reati, i diversi autori, le diverse ragioni che portano all’atto criminale e suddividersi in: prevenzione situazionale, prevenzione dello sviluppo e prevenzione comunitaria.

Sempre nel tentativo di superare la classificazione tradizionale tra prevenzione primaria, secondaria e terziaria, alcuni autori hanno cercato di individuare altre forme ancora di classificazione.

Sulla base di un’analisi di programmi preventivi realizzati in Belgio negli anni ’80, Walgrave e de Cauter [1986] analizzano criticamente una classificazione basata sulla distinzione tra il momento in cui interviene l’azione preventiva (prima, durante o dopo l’evento indesiderato), il focus dell’intervento preventivo (i comportamenti dei soggetti o la modifica del contesto sociale) e l’orientamento difensivo (sui sintomi) oppure offensivo (sulle cause).

Ekbloom [1996] partendo dalla sua sintetica definizione di prevenzione, quale intervento nel meccanismo che produce un evento criminale, individua cause prossime e cause remote dell’evento stesso e distingue tra metodi preventivi che incidono su alcuni elementi delle cause prossime, (alterandoli, rimuovendoli, eliminandoli) o sulle motivazioni del potenziale autore di reato. Tali motivazioni possono essere “corrette” con un intervento precoce sul soggetto, oppure sulle circostanze della sua vita attuale.

Come è ben evidente, tutte queste ipotesi di classificazione riprendono le tre prospettive di fondo che sono state indicate all’inizio del paragrafo, e si distinguono per l’accentuare l’una o l’altra di esse, per esempio, quella strutturale a scapito di quella sulle circostanze, come nella distinzione di Walgrave e de Cauter, o per la prevalenza accordata al momento in cui la prevenzione interviene o ai destinatari.

Tuttavia, come molto spesso succede nei tentativi di classificazione, esse presentano elementi di insoddisfazione, in primo luogo perché, in molti casi, esiste un’area grigia di sovrapposizione tra misure che teoricamente possono rientrare in diversi approcci. Si pensi, per esempio, ai programmi di sorveglianza del vicinato, che vengono elencati come rientranti sia nella prevenzione situazionale secondaria che nella prevenzione secondaria orientata alle vittime. Inoltre, molti degli interventi orientati all’autore sono anche interventi orientati alla vittima (una ambiguità che nasce dalla difficoltà concettuale a distinguere tra prevenzione della criminalità e prevenzione della vittimizzazione), oppure vi sono misure che sono difficilmente collocabili in queste categorie.

Un caso significativo è quello dei programmi di mediazione tra autori e vittime, che possono considerarsi contemporaneamente rivolti alla prevenzione della recidiva, per l’effetto che questa forma di soluzione dei conflitti può produrre sull’autore, sia una forma di rassicurazione e di sostegno alla vittima. La prevenzione situazionale e la prevenzione sociale, rappresentano i modelli preventivi oggi più diffusi e condivisi. Va però considerato che, nel dibattito europeo, si da grande enfasi alla capacità di riunire in un unico programma tutte e tre le tipologie di prevenzioni considerate (situazionale, sociale e comunitaria), in modo da produrre un’azione preventiva integrata.

La Prevenzione Situazionale

L’idea che intervenire sul contesto, anche con piccoli accorgimenti, possa avere un effetto riduttivo sui fenomeni criminosi o sulla vittimizzazione sta alla base della prevenzione situazionale. Al suo interno troviamo una serie di misure che si indirizzano quindi a specifiche forme di criminalità attraverso l’intervento sull’ambiente circostante, in modo da ridurre le opportunità e da aumentare i rischi per i potenziali autori. Questa strategia trova i suoi presupposti nella teoria delle opportunità , e in particolar modo nella combinazione tra le teorie dell’“attività routinaria”, dello stile di vita della vittima e della “scelta razionale”, che è stata descritta precedentemente. La prevenzione situazionale si basa infatti sul presupposto che la criminalità non è tanto il frutto di una predisposizione individuale, quanto di fattori che creano o

favoriscono le opportunità criminose (abitudini e stili di vita delle potenziali vittime, caratteristiche fisiche dell’ambiente, assenza di controlli). All’interno della prevenzione situazionale troviamo misure molto varie, che possono distinguersi, in queste tipologie:

  • Tecniche che aumentano le difficoltà per il potenziale autore, tra le quali si includono misure quali: l’utilizzo di barriere fisiche o di materiali che rendono difficile l’azione criminosa o vandalica; il controllo degli accessi agli edifici; le misure di allontanamento e di dissuasione; il controllo sugli strumenti utilizzati per il reato, come le armi o le carte di credito;
  • Tecniche che aumentano il rischio per il potenziale autore, quali tutte le misure di sorveglianza (formale, informale, naturale, o affidata a soggetti specifici, quali portieri, parcheggiatori, conducenti di mezzi pubblici, ecc.) oltre che sui soggetti, anche sugli oggetti (per esempio, il controllo dei bagagli negli aeroporti);
  • Tecniche che rendono impossibile o riducono seriamente i vantaggi dell’attività criminosa o vandalica: la rimozione dell’obiettivo (per esempio, l’utilizzo di autoradio estraibili); i meccanismi di identificazione dei beni, che ne rendono difficile l’utilizzo da parte di altri, come la registrazione degli autoveicoli; varie misure di “dissuasione morbida” dal vandalismo (l’esempio più noto è la rapida riparazione delle cabine telefoniche danneggiate); infine, l’introduzione di norme e procedure di carattere amministrativo che chiariscono i confini tra comportamenti accettabili e non.

La prevenzione sociale del reato minorile

La prevenzione sociale comprende tutte le misure che hanno per obiettivo l’eliminazione o la riduzione dei fattori criminogeni. Essa si fonda su una teoria eziologica della criminalità e si propone quindi di intervenire sulle cause sociali, attraverso programmi di intervento a carattere generale, in grado di intervenire o modificare le motivazioni che spingono alla criminalità.

Secondo alcuni, la prevenzione sociale non è un’azione specifica o una delle tante modalità di prevenzione, ma una politica globale orientata al benessere sociale che attraversa tutti i settori delle politiche amministrative. Alcuni autori accentuano l’aspetto di sviluppo sociale che si ritiene stia a fondamento di queste politiche, il cui compito è quindi quello di studiare l’origine e la riproduzione delle ineguaglianze responsabili dei “contesti svantaggiati”’, per superarle intendono la prevenzione sociale come la combinazione di un’azione individuale verso il potenziale autore e di misure basate sulla trasformazione delle condizioni sociali della comunità.

Altri ancora intendono la prevenzione sociale come l’insieme delle misure di carattere collettivo, o come l’insieme delle misure estranee al sistema della giustizia penale. Si tratta di una forma di prevenzione che rimane orientata prevalentemente all’autore di reato, visto però non in una prospettiva individuale, ma in un contesto generale. Diventa quindi difficile distinguere concettualmente questi approcci dalle tradizionali politiche assistenziali e sociali adottate nei paesi occidentali.

Le aree di intervento della prevenzione sociale, secondo gli autori di una delle più recenti rassegne di programmi sulla prevenzione [Graham e Bennet, 1995] sono: la politica urbanistica (recupero del degrado urbano, politica degli alloggi, ecc.); le politiche sanitarie; le politiche per la famiglia; le politiche educative; le politiche per il lavoro; le politiche di integrazione sociale in generale.

Rientrano quindi nella prevenzione sociale una vasta gamma di misure che però , nell’esperienza europea e nord-americana, sono dirette soprattutto verso i giovani o comunque verso gruppi ritenuti marginali o vulnerabili.

La prevenzione comunitaria

Il concetto di prevenzione comunitaria è alquanto controverso: secondo un orientamento diffuso, esso non rappresenta una tipologia autonoma di prevenzione, ma racchiude interventi che appartengono alla prevenzione sociale o a quella situazionale. Secondo altri, al contrario, essa si differenzia da queste strategie preventive e consisterebbe in un insieme di “azioni orientate all’intervento sulle condizioni sociali che stanno alla base della criminalità in una comunità residenziale data”. Il suo carattere distintivo sta comunque nel fatto che essa, indipendentemente dalle tecniche adottate, viene attuata da agenzie estranee al sistema penale, e, più precisamente, dalla comunità attraverso i suoi gruppi e le sue organizzazioni.

All’interno della prevenzione comunitaria si distinguono tre diversi approcci:

  • Organizzazione della comunità , basata sulla mobilitazione dei residenti a fini di prevenzione e di ricostruzione del controllo sociale informale, soprattutto nei confronti della devianza giovanile;
  • Difesa della comunità , attraverso varie forme di autotutela dei cittadini o strategie difensive di carattere urbanistico e architettonico;
  • Sviluppo della comunità , che comprende misure diverse tra di loro ma comunque indirizzate alla ricostituzione della dimensione comunitaria e al miglioramento complessivo delle condizioni sociali, abitative e dei servizi.

Altri distinguono diverse tipologie di risposta comunitaria alla criminalità a seconda delle strategie adottate: troviamo così azioni individuali contrapposte ad azioni collettive, oppure attività di autoprotezione dalla vittimizzazione, attività di protezione di propri beni, attività di difesa della propria area residenziale (a seconda, quindi, di quale è l’oggetto specifico di tutela della prevenzione comunitaria).

Infine, il concetto di prevenzione comunitaria comprende in buona parte o addirittura coincide con l’insieme delle attività di controllo della polizia a stretto contatto con i cittadini o in aree geografiche ben definite, cioè quella che nella terminologia angloamericana è definita come community policing.

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