Il coinvolgimento dei minori nella criminalità organizzata

Il fenomeno del coinvolgimento dei minori nella criminalità organizzata.

Il fenomeno del coinvolgimento dei minorenni in attività criminali proprie delle organizzazioni criminali si è andato negli ultimi anni sempre più incrementando. Per questo motivo diverse analisi criminologiche sono state realizzate e sono in corso di attuazione per conoscere ed approfondire le cause del fenomeno ed intervenire con azioni strutturate sul piano preventivo socio-educativo.

 Sono stati studiati i minori coinvolti nel reato di associazione di tipo mafioso, camorristico o aderenti alla ‘ndrangheta ed alla sacra corona unita, seguendone il percorso giudiziario, quello nei servizi ed è stata  confrontata l’esperienza degli operatori nei loro confronti con quella nei confronti di altri minori riconducibili all’universo criminale o assai lontani da essi.

E’ emerso soprattutto che i minori coinvolti in reati associativi di tipo mafioso non solo sono identificati e ben individuabili nel contesto ove operano e nel quale si interviene, ma al contempo è evidente l’enorme difficoltà ad intervenire rispetto a minori che si sentono costantemente rinforzati e protetti nei loro comportamenti dal nucleo familiare che è indisponibile a processi di recupero o di trasformazione.

Se la famiglia è il partner fondamentale per qualsiasi percorso di cambiamento e se, in sua assenza, i servizi sociali hanno strategie di intervento adeguate, non appare semplice il lavoro di trasformazione e di intervento in presenza di una famiglia che rinforza i disvalori della cultura criminale e associativa nella quale il minore è cresciuto ed è ben inserito.

Il fenomeno della devianza minorile nel meridione d’Italia trova le sue radici nel processo di disgregazione del tessuto sociale fatto di povertà, emarginazione, bassi livelli formativi con tassi d’evasione scolastica altissimi, mancanza d’occasione di lavoro legale.

Il sistema di organizzazioni criminali che caratterizza alcune Regioni del Meridione d’Italia (Campania, Calabria, Sicilia e Puglia ) e si ramifica anche in altri contesti regionali, deve essere studiato come prodotto di uno sviluppo distorto, parassitario e fortemente caratterizzato da modalità illegali d’intervento. Naturalmente, questo punto di vista impone un’attenta analisi degli aspetti più strettamente sociologici del fenomeno “sistema di organizzazioni criminali”.

Si è visto, inoltre, come la criminalità organizzata nelle aree metropolitane si addensa stabilmente in alcuni quartieri e che il tasso di criminalità è indipendente dai cambiamenti della popolazione. Così, in queste situazioni territoriali, il delitto e la delinquenza sono diventati aspetti più o meno tradizionali della vita sociale e queste tradizioni delinquenziali sono trasmesse attraverso contatti personali e di gruppo. All’interno del gruppo, l’adolescente acquisisce la cultura della devianza, cioè l’insieme di norme, stili di vita, modelli di comportamento, modelli di comprensione della realtà che diventeranno il bagaglio di convinzioni, certezze che ne orienteranno l’agire sociale. L’apprendimento non riguarda solo le tecniche o le informazioni e le conoscenze per svolgere le differenti attività delinquenziali ma soprattutto ciò che alcuni studiosi hanno definito come “sentire mafioso”, che garantisce “la sopravvivenza, la coesione e l’accomunamento nei membri di una sub-cultura” (Di Maria et al., 1989; De Leo, 1998). In generale, le idee di ciascuna persona, derivano dalle subculture cui è più esposto e con cui si identifica maggiormente.

È perciò vero, che gli atti devianti vanno ricondotti alle componenti della subcultura di appartenenza, ma le forme che assumerà la devianza dipendono dalla posizione che i soggetti occupano nella struttura, di opportunità illegittime che la situazione di vita configura. In pratica, le diverse forme che le subculture devianti possono assumere sono riconducibili a diverse configurazioni. La prima si può denominare “criminale” ed è caratterizzata dal fatto che intere zone territoriali, omogenee dal punto di vista della subcultura deviante, sono dominate da criminali di grande importanza, perché oltre a controllare l’organizzazione, hanno collegamenti con gruppi convenzionali di potere (partiti, imprenditori, organi di controllo). In contesti di questo tipo, l’orientamento verso l’attività criminale è favorito dalla presenza visibile di modelli riusciti di devianza. L’apprendistato alla professione criminale è regolato da codici d’azione e di comportamento, da prove di destrezza e di fedeltà, soprattutto per quanto riguarda l’impiego di larghe fasce di minori. Il secondo tipo di configurazione è quella che si può definire “conflittuale”, caratterizzata dal fatto che il potere criminale è frantumato e le diverse organizzazioni sono in lotta tra loro. In questa situazione sono molto socializzati e visibili modelli di devianza riusciti, caratterizzati dall’ostentazione di violenza e temerarietà.

I contesti urbani dominati da questa configurazione della devianza, vedono un allargarsi del suo campo d’azione, in quanto c’è gran disponibilità di manodopera, utilizzabile nelle situazioni più disparate. In questo senso, il fenomeno della devianza minorile può essere meglio compreso a partire dalle cause o facilitazioni che lo generano (insieme all’impiantarsi delle forme di criminalità organizzata) e che si distinguono in: a. ambientali: il contesto di riferimento, è caratterizzato da un aumento progressivo e costante della disgregazione sociale (situazioni abitative e di vita, il lavoro nero, il degrado delle strutture scolastiche, le distorsioni che caratterizzano l’Amministrazione Pubblica, la carenza di sbocchi occupazionali). Questa situazione genera la caduta della solidarietà sociale e il diffondersi di livelli inquietanti d’incertezza normativa, che alimenta il riprodursi e il rafforzarsi della subcultura deviante già esistente ed operante; b. culturali: il degrado economico, il degrado urbanistico, l’incapacità della classe politica a gestire ed amministrare il funzionamento della macchina istituzionale, generano ed alimentano fenomeni di distorsione criminale vistosi, perché a tutte le altre forme d’arretratezza si aggiunge la presenza di una subcultura deviante arretrata ed in contrasto, quanto a finalità e obiettivi, con la cultura industriale; c. economiche e politiche: anche in questo caso esiste l’incapacità di dirigere e controllare quel complesso di modificazioni avvenute nella Pubblica Amministrazione in conseguenza del decentramento politico-amministrativo e, soprattutto con riferimento all’aumento delle competenze degli Enti Locali riguardo alla gestione dei programmi d’intervento e di spesa pubblica.

Esistono molteplici aree meridionali, alcune caratterizzate da uno sviluppo selvaggio prodotto dall’urbanesimo e da un certo tipo di industrializzazione, mentre altre sono soggette allo spopolamento, alla depauperazione e marginalizzazione. I due fenomeni sono connessi e rappresentano le due facce di uno stesso processo che accomuna tutte le aree nei loro rapporti verso il Nord, rispetto al quale “…il meccanismo di sviluppo che è stato attivato non tende né tenderà a colmare il divario tra Nord e Sud, se mai ad accrescerlo”.

Così, considerato che tale biforcazione si è dilatata funzionalmente e strutturalmente al tipo di sviluppo che si è configurato, quest’ultimo va visto sia all’interno del Sud sia nel rapporto verso il Nord, ma inserito nel quadro più generale del Nord Europa, Sud Europa e nell’area del Mediterraneo. In effetti, lo sviluppo è tale se presenta i caratteri di un fenomeno endogeno che accelera la mobilità sociale e la partecipazione politica, riduce il gap tra borghesia e proletariato industriale, eleva la capacità contrattuale del potere sindacale, elimina o riduce a livelli minimi la disoccupazione e valorizza le forme culturali del tessuto sociale attraverso processi di socializzazione, acculturazione e legittimazione in cui i giovani sono soggetti attivi e protagonisti. Al contrario, il sottosviluppo del Sud si basa sulla dipendenza economica e finanziaria, sulla dipendenza politica e culturale e sul fatto che le grandi decisioni riguardanti questi settori sono prese fuori dell’area meridionale. La conseguenza a questo stato di cose e ad un modello di sviluppo imposto sono stati la resistenza, l’assenteismo, la crescita della conflittualità sindacale e la conseguente marginalizzazione.

La marginalità è un processo economico, politico e culturale che gradualmente o attraverso un movimento rivoluzionario colloca settori della popolazione ai margini del sistema sociale.

L’essere ai margini si esprime: a. nella dipendenza eccessiva senza possibilità di reciprocità; b. nella subordinazione senza possibilità rivoluzionaria anche se con capacità di ribellione; c. nella perdita della propria identità nello sforzo di integrarsi, nel senso che la mancata integrazione equivale all’accettazione acritica di modelli esterni alla propria cultura e il rifiuto di aprire la propria cultura agli impulsi innovativi. La marginalità è generata dallo sviluppo dipendente e la sua crescita si esprime nella crescente distanza tra centro e periferia, con la separazione e ghettizzazione della sua formazione. Essa diviene il polo della povertà, dell’analfabetismo, delle vittime, dei soggetti della devianza e della violenza. La marginalità è “come una coltura in vitro o un incubatore della devianza minorile e diversità sociale, nel senso che ponendo l’individuo e il gruppo nella situazione di ambivalenza e ambiguità lo colloca di fronte a codici morali e culturali contrastanti e perciò devia dall’uno o dall’altro o da tutti e due insieme”. In questo senso, la contraddittorietà nella situazione marginale del meridione nasce appunto in questa sovrapposizione e coesistenza di modelli propri di una società tradizionale e modelli propri di una società moderna. Inoltre, “la cultura della marginalità non è necessariamente frantumata al proprio interno, anche se presenta elementi contraddittori, perché l’ambiguità di cui è portatrice è inserita in un sistema gerarchico che stabilisce priorità, regole dominanti e codici familiari prevalenti rispetto agli altri. Perciò, la cultura della marginalità genera devianza rispetto ai codici esterni, ma non accetta deviazione rispetto ai codici dominanti nel proprio subsistema”.

La devianza, è una risposta adattiva dell’individuo e del gruppo ad una situazione d’ambivalenza comportamentale ed è una mediazione tra codici tradizionali e moderni. D’altra parte, essa è integrativa, ha degli obiettivi da raggiungere e nello stesso tempo risponde a fenomeni di latenza, tensioni, conflitti e drammi presenti nell’area marginale. Solo che nel tempo rivela anche una propria elaborazione subculturale, consolidandosi e trasmettendosi per linee generazionali e di gruppo, rivelando propri codici normativi.

Dalle considerazioni emerse, siamo in grado di tracciare un profilo psicosociale dei minori che delinquono nel contesto meridionale: – tutti questi minori provengono da famiglie multiproblematiche, vale a dire da famiglie disgregate, famiglie conflittuali, famiglie in cui sono presenti problemi di tossicodipendenza, di alcoolismo, di malattia mentale e collegate alle organizzazioni criminali, quindi disfunzionali alla crescita; – la maggioranza di questi ragazzi sono protagonisti/vittime di evasione scolastica.

Tutti questi fattori, ovviamente, non vogliono assolutamente evidenziare un inesorabile incamminarsi su percorsi di devianza. È però vero, che queste connotazioni determinano un meccanismo di rischio, proprio perché ognuna di esse costituisce un momento di esposizione al rischio. Allora, un qualsiasi progetto teso a ridurre la delinquenza minorile non può che avere l’obiettivo di inserirsi in quel meccanismo di rischio, al fine di correggere un percorso che non è affatto scontato. Bisogna intervenire in modo mirato e tempestivo sulle famiglie in difficoltà, creare nuove metodologie didattiche che richiedono però una trasformazione strutturale della scuola, intervenendo sul recupero scolastico, bonificare gli ambienti a rischio. Inoltre, esaltare le sinergie tra le specifiche competenze in quello che possiamo definire “progetto educativo di rete”. I suoi contenuti specifici vanno individuati con riferimento alla gradualità del percorso che porta un ragazzo dalla normalità alla delinquenza, identificando questa caduta attraverso tre fasi: – passaggio dalla fase della normalità a quella del disagio; – passaggio dalla fase del disagio a quella della devianza; – passaggio dalla fase della devianza a quella della delinquenza. Diciamo che il disagio è costituito da quella sensazione di malessere diffuso, apparentemente privo di ragioni precise, che si manifesta già nella scuola dell’infanzia: la difficoltà di apprendimento, la difficoltà di socializzare, l’isolamento, l’oppositività e l’aggressività, la violenza sulle cose e sulle persone sono i segnali di un malessere profondo.

La devianza è costituita da quell’insieme di comportamenti che non costituiscono ancora specifici reati, ma che sono tuttavia disapprovati dal comune sentire sociale: il minore comincia ad assumere droghe leggere, a non frequentare la scuola, a sottrarre denaro in casa, a rientrare sempre più tardi la notte.

Le statistiche degli ultimi anni indicano un netto aumento nelle regioni del Sud del coinvolgimento di minorenni nella criminalità organizzata. Anche se resta sempre difficile provare l’associazione per delinquere di stampo mafioso o camorristico, si può con sicurezza affermare che molte centinaia di minori svolgono, stabilmente, un ben preciso ruolo esecutivo nell’ambito delle organizzazioni criminali.

Siamo sicuramente in presenza, rispetto ai primi anni novanta, di una specializzazione e di un perfezionamento dei compiti svolti da questi ragazzi e ciò si deduce in maniera incontrovertibile dalle estorsioni condotte a termine con modalità sempre più allarmanti da questi esecutori di ordini, dalle armi di grosso calibro con matricola abrasa trovate in loro possesso, dalle migliaia di auto rubate che non potrebbero sparire nel nulla se non ci fosse una ben strutturata organizzazione, dallo spaccio di notevoli quantitativi di droga di diversa qualità. Gli esperti del settore raggruppano i minori radicati nell’area della criminalità organizzata in tre gruppi: – il primo gruppo è costituito da figli di appartenenti alle organizzazioni criminali più o meno autorevoli, che quindi fanno parte per vincolo di sangue della famiglia malavitosa;

– il secondo gruppo è costituito da quei ragazzi che, pur non facendo parte della famiglia e non portandone quindi il cognome, sono tuttavia inseriti nel clan familiare col quale si identificano, condividendone gli obiettivi. Essi sono, quindi, legati alla famiglia per vincolo di appartenenza;

– rientrano, infine, nel terzo gruppo quei ragazzi che, pur non appartenendo al clan e non identificandosi con esso, comunque operano nell’area dell’illegalità, nel pieno rispetto delle regole che in quel quartiere la famiglia malavitosa ha stabilito a salvaguardia dei propri traffici: non toccano certe persone, non commettono certi reati, non invadono certe zone. Essi sono, quindi, legati alla famiglia per vincolo di interesse. I ragazzi del primo gruppo, quasi mai arrivano nell’istituto penale in espiazione di pena, cioè per effetto di una sentenza definitiva, perché la famiglia è molto attenta a tenerli lontani da grossi rischi nel corso della minore età. È solo nelle faide familiari che, negli ultimi tempi, si vedono ormai coinvolti anche i giovanissimi. Essi, talvolta, vi giungono a seguito dell’applicazione nei loro confronti della misura della custodia cautelare, ma riescono spesso ad ottenere misure meno afflittive. Diversamente da quanto si immaginerebbe, questi ragazzi in carcere si comportano benissimo, sono molto rispettosi delle regole e ricevono dagli altri grande rispetto. Su questi ragazzi è difficile concepire interventi educativi efficaci.

I ragazzi del secondo gruppo, invece, entrano in carcere sia in custodia cautelare sia in espiazione di pena, e vi restano anche per qualche tempo. Nell’ambito della struttura carceraria, si comportano come piccoli leader, tendendo ad aggregare e a creare legami, servendosi dei ragazzi in ruolo di subalternità per azioni di protesta, sommossa e vendetta. Le loro famiglie, poco collaborative con i Servizi Sociali, negano ogni problema e non accettano quasi mai l’intervento educativo, perché lo vivono come un’arbitraria intrusione.

I ragazzi del terzo gruppo,  svelti e intelligenti, entrano in carcere e vi restano per qualche tempo. Su di loro, in generale, è possibile impostare un progetto educativo che avrà maggiori garanzie di efficacia.

 In particolare, sui ragazzi del primo gruppo gli interventi di osservazione e trattamento sono complessi, perché la famiglia è al di là di ogni possibile aggancio da parte dei Servizi del territorio e della Giustizia. Pertanto, l’unica possibilità sono le politiche globali di contrasto alla criminalità organizzata e alle sue mire espansionistiche. Per impostare un’efficace politica di intervento sui ragazzi del secondo e terzo gruppo, dobbiamo ricordare che essi hanno fatto ingresso nell’area della criminalità organizzata, ovvero vi hanno un riferimento valoriale, perché alla ricerca di un’identità che la società non è stata in grado di riconoscere loro. Essi sono stati rifiutati ed espulsi dalla scuola come indesiderati e l’etichettamento su base scolastica ha segnato un’identità negativa che ha trovato il suo completamento con l’ingresso nell’area illegale dell’altra società. È fondamentale, allora, che in carcere o fuori, il progetto educativo trasmetta a questi ragazzi la certezza che anche la nostra società può loro riconoscere un ruolo, e che dipende dalla loro capacità se quel ruolo sarà vincente.   In relazione al particolare vincolo di appartenenza all’organizzazione criminale evidenziato devono essere previste modalità adeguate di approccio al reinserimento del minore attraverso azioni di sostegno volte in primis a stimolare la revisione critica degli schemi comportamentali adottati.

E’ necessario attivare  progetti di rete al fine di creare una sinergia tra i servizi sociali coinvolti per affrontare al meglio la complessità di un fenomeno difficile da circoscrivere.

La finalità degli interventi rivolti ai minori legati alla criminalità organizzata è quella di incidere sui modelli culturali, sui valori di riferimento, sugli stili di vita; vengono scelte attività volte a sperimentare esperienze alternative per far conoscere altri modi del vivere sociale, per attivare condizioni favorevoli a scelte di cambiamento e legalità.

  Il cambiamento per i minori legati alla criminalità organizzata deve passare attraverso modelli diversi di identificazione per creare adesione e condivisione di nuovi stili di vita.

In Italia, la cultura giuridica e le attuali tendenze legislative per la prevenzione della devianza minorile si ispirano alla concezione del minimo intervento penale. Questo approccio consiste nel cercare di ridurre al minimo possibile l’intervento penale, con l’obiettivo di ridurre la permanenza del soggetto nei servizi detentivi e, soprattutto, di fare in modo che questa permanenza sia sempre accompagnata dall’attenzione alla sua personalità e alla sua fase evolutiva.

In questa prospettiva, naturalmente, il trattamento non è punizione, né assistenza, né terapia, ma è un modo di organizzare risposte e risorse complesse con l’obiettivo della responsabilizzazione giudiziaria nel periodo ben delimitato del processo e della erogazione della sanzione. L’obiettivo non è quello di correggere il soggetto, di cambiare la sua personalità, ma di fare in modo che egli possa partecipare, elaborare, utilizzare quelle proposte di attività, quelle risorse, nella prospettiva di attivare qualche cambiamento nell’interazione con l’istituzione e, in un secondo momento, forse anche della sua personalità. La tendenza attuale, sul piano della prevenzione e legislativo, si configura sempre più come una “restituzione al sociale” del problema della devianza, della delinquenza minorile, soprattutto nel meridione d’Italia, in quanto è proprio il contesto ambientale che contiene quelle risorse, quegli spazi relazionali di cui il minorenne ha bisogno per definire il proprio percorso. Il tentativo è quello di riattivare quel contesto spesso irrigidito, di sollecitare e stimolare quelle risorse e quegli spazi in modo da individuare nella famiglia, nella scuola, nel quartiere nuove strategie di contatto significativo con il minore.

Chiaramente, una nuova articolazione dei servizi e la complessità di una nuova proposta organizzativa, sempre più orientate ad un’apertura al territorio di appartenenza del minore a rischio e/o che delinque, richiede: innanzitutto la valorizzazione della multidisciplinarietà ed una maggiore specializzazione delle figure che si occupano del ragazzo, ma soprattutto una fluidità di passaggio del minore fra servizi. In particolare, gli obiettivi si possono riassumere nei punti più interessanti che riguardano la polifunzionalità dei servizi, gli interventi privilegiati di rete sull’area penale esterna e la metodologia di lavoro per progetti. Il primo punto prevede, oltre al raccordo tecnico-operativo tra Servizi, la costituzione di équipe di operatori polifunzionali negli Uffici di .Servizio Sociale per i Minorenni e nei Centri di prima accoglienza, il potenziamento del servizio educativo esterno, la sperimentazione di progetti che prevedano la partecipazione congiunta di minori ristretti, di quelli dell’area penale esterna e di quelli dell’area a rischio. Una modalità che sempre più si va affermando è quella di lavorare per progetti, consentendo la rapida individuazione di obiettivi, risorse, analisi e verifiche.

Tale orientamento deriva dalle caratteristiche, analisi e considerazioni sulle nuove e/o differenti caratteristiche dell’utenza, che si configura con aspetti e problemi dovuti ad un crescente radicamento di minorenni nelle organizzazioni criminali, con reati gravi, con pene più pesanti ed un ulteriore problematicità dovuta a disagio socio-psicologico e all’uso sempre più diffuso e sommerso delle nuove droghe.

A livello legislativo e preventivo, la risposta al problema in questione si è realizzata attraverso l’emanazione di alcune leggi, come la legge n. 285/97, con la quale si finanziano progetti elaborati dai comuni e da associazioni per l’attivazione di interventi di prevenzione della delinquenza e di risocializzazione. Tuttavia, gli elementi che assumono particolare significato causale sono: a. una conferma che le accresciute condizioni di degrado sociale e che rappresentano la radice dei fenomeni di devianza e microcriminalità si riconducono all’assenza di sviluppo; b. l’espansione del potere dei clan insieme ad una trasformazione derivata dalle nuove condizioni politiche ed economiche e che sviluppano il controllo del territorio attraverso un “ricambio generazionale”. Ciò che appare preoccupante, in linea con le tesi interpretative di alcuni studiosi degli anni ottanta, è che oggi la forza attrattiva dei modelli mafiosi e camorristici per i minori appare sempre più consolidata. Si ritiene, infatti, che i minori impiegati nella criminalità organizzata, negli ultimi anni stiano sperimentando una fase di specializzazione e perfezionamento dei loro compiti, ma anche di vicariato ai vertici dei clan.   Appare chiaro che anche l’intervento pedagogico, messo in atto dai vari operatori dei servizi della giustizia minorile, dovrà tenere presente un intervento a tutti i livelli sul minore che proviene da questo particolare contesto, quest’ultimo caratterizzato da radicate solidarietà familiari e collusioni territoriali. Da un punto di vista di politica sociale, l’istituzione Comune era caratterizzata esclusivamente dall’erogazione di sussidi economici e da ricoveri in convitto per i minori.

Ciò determinava l’applicazione di interventi sociali parziali e frequentemente fuori misura, relativamente a problematiche specifiche. In più, il ruolo del Comune era totalmente marginale nei confronti dell’associazionismo e del terzo settore. Oggi è stato fatto molto rispetto al dato di partenza, ma ancora non a sufficienza rispetto ai bisogni dei minori e delle loro famiglie, in un territorio su cui i fenomeni di devianza minorile non subiscono battute d’arresto. Le nuove politiche sociali hanno cominciato a funzionare quando si è cominciato a lavorare su due opzioni: la territorialità e la costruzione di reti. Tutto ciò ha consentito di leggere e considerare il territorio come risorsa da cui partire e di creare alleanze e sinergie a vari livelli istituzionali. Un primo inizio di stabilità delle istituzioni locali ha portato sin dall’inizio quelle condizioni per un integrazione e implementazione dei progetti, concretizzatisi poi nella prima cornice della legge n. 285/97 ed oggi con la realizzazione del sistema integrato dei servizi e degli interventi sociali.

Tuttavia, è importante sottolineare che per lavorare sulla prevenzione della devianza occorre interrogarsi sui limiti e difficoltà che si incontrano quotidianamente nel lavoro di tanti operatori sociali. La vera capacità delle istituzioni, oggi, si misura nella programmazione e realizzazione di proposte progettuali serie e coerenti, ben sostenute economicamente, insieme ad un’inversione di tendenza nella mentalità dei soggetti preposti. Se, da un lato, assistiamo alla costruzione e alla sperimentazione di una valida capacità progettuale a favore dell’ infanzia e adolescenza, dall’altro non esiste ancora il ragionevole sostegno per la sua attuazione sul territorio. Per provocare davvero un effetto positivo o un cambiamento è necessario oltre all’interazione interprofessionale, la cooperazione  istituzionale,  la partecipazione del terzo settore e della società civile.

Scrivi a Igor Vitale