Etnopsichiatria di Tobie Nathan: riassunto di Medici e Stregoni

È uno psicoanalista, scrittore e diplomatico francese, considerato il più autorevole rappresentante dell’etnopsichiatria in Francia. Nasce in Egitto, è ebreo, parla il francese e l’arabo e vive sulla sua pelle due migrazioni: prima quella in Italia e poi in Francia. Qui diviene esperto psicologo presso la Corte d’appello di Parigi. Parallelamente all’attività accademica fonda nel 1979, presso l’ospedale Avicenna di Bobigny, il primo consultorio etnopsichiatrico francese e  il Centre Georges Devereux, innovativo centro universitario di formazione, ricerca e assistenza psicologica alle famiglie di immigrati residenti nel quartiere. Nel 1978 fonda, con Devereux, la rivista Ethnopsychiatrica, e, rispettivamente nel 1983 e nel 2000, La Nouvelle Revue d’ethnopsychiatrie e Ethnopsy.

Scrive Nathan:

Possedere una cultura ed essere dotati di psichismo sono due fatti strettamente equivalenti, e per lo psicopatologo di conseguenza, la differenza culturale non è una deviazione, ma un dato di fatto altrettanto “umano”, altrettanto imprescindibile quanto l’esistenza del cervello, del fegato o dei reni. (Nathan, 1996, p. 40)

Afferma Nathan che, per essere “umano”, bisogna essere dotati allo stesso tempo di uno psichismo e di una cultura, che sono due strutture omologhe, rette dagli stessi meccanismi. Quindi la psicopatologia per Nathan non cerca l’uomo genericamente umano, l’uomo nudo, ma al contrario sa che gli esseri umani sono specifici, culturalmente condizionati e organizzati attorno ad appartenenze e che non può esistere un soggetto universale indipendente dal suo universo culturale.

Partendo quindi dal fallimento del tentativo di creare una psicopatologia strutturale, cioè una psicopatologia che cerca di rintracciare dietro la varietà dei sintomi, delle categorie nosologiche universali, egli crede che l’unica cosa che può essere studiata in maniera oggettiva sia la tecnica che il terapeuta utilizza, cioè i dispositivi terapeutici:

Auspico una psicopatologia che si assuma dei rischi, che si cimenti nella descrizione più raffinata possibile dei terapeuti e delle tecniche terapeutiche, e non dei malati. Infatti in questo ambito, i soli fenomeni osservabili sono il terapeuta ed i suoi oggetti: i suoi strumenti, ma anche le sue teorie, i suoi pensieri, e anche i suoi esseri soprannaturali (Nathan, 1996, p. 32)

Secondo lo psicoanalista francese l’unico elemento che potrebbe divenire oggetto di una teoria scientifica è il dispositivo terapeutico stesso. Più esattamente: i diversi dispositivi in quanto capaci di fabbricare una trasformazione radicale, profonda, duratura, sono  i soli “esseri” che potrebbero non essere influenzati dalla pratica di chi li osserva. Ciò comporta un’evidente conseguenza, ovvero che lo psicoterapeuta non debba trovarsi a dover scegliere tra le varie scuole teoriche che pretendono di detenere la verità sulla natura del male e la classificazione dei malati in quanto i dispositivi si presentano di per sé come universali. L’occasione che viene data dall’arrivo dei pazienti migranti è proprio questa, quella di non perdersi in discussioni teoriche sull’universalità della psicoanalisi ma di metterla alla prova insieme ad altri dispositivi.  Su queste basi si fonda la metodologia di cura del Centro Devereux, dove una stessa équipe si occupa di fare ricerche sul campo sulle tecniche di cura locali (in Africa nera, Africa del nord, Antille, Isole francofone dell’Oceano indiano, ma anche nella banlieu parigina) e nello stesso tempo cerca di costruire un dispositivo originale che metta all’opera e alla prova le ipotesi sull’efficacia di questi dispositivi di cura, così il dispositivo psicoterapeutico di Nathan ispirandosi alle terapie tradizionali […]impiega o prescrive l’utilizzo culturalmente codificato, di oggetti, ritmi corporei, suoni, sacrifici animali, nella convinzione che le terapie tradizionali sono fondate essenzialmente sul fare e sul mostrare piuttosto che sul dire o, peggio, sul persuadere. (Nathan, 1996, p. 40)

Egli quindi intende ridare statuto di serietà ai sistemi tradizionali includendoli tra i dispositivi di cura.

In numerosi suoi scritti riflette sulla razionalità delle eziologie tradizionali e sulla scientificità della psicoterapia. Innanzitutto crede che il termine psicoterapia sia inappropriato perché per Nathan si parla di cura attraverso la psiche e non di cura della psiche visto che vengono curati anche disordini fisici. Inoltre propone di superare una certa visione, originata con Freud, che ha creato dei confini netti tra la psicoanalisi e le psicoterapie tradizionali, distinguendole in base al fatto che la prima fosse caratterizzata da una certa scientificità, le seconde invece basate sulla suggestione. Nel libro Medici e stregoni (1996) sostiene che la differenza tra sistemi di cura tradizionali e occidentali (più specificamente la psicanalisi perché egli proviene da una formazione psicanalitica), è che:

In una società occidentale, un medicamento è un oggetto attivo che permette di creare, mantenere e perpetuare una disgiunzione del sintomo dalla persona. (Nathan, 1996, p. 83)

 Il sintomo infatti può essere attribuito alla possessione da parte di uno spirito, mentre

Nel nostro mondo[…] è l’opposto: di legare il sintomo alla persona. (ibidem, p. 83)

La differenza sostanziale, stando al pensiero di Nathan, è che nel campo della psicopatologia i bianchi tendono ad isolare il malato e rafforzare il gruppo di medici mentre la medicina altra raggruppa i malati ( i posseduti, coloro che sono la manifestazione degli antenati) ed isola il tecnico.

Laggiù il “dottore” è […] eletto dai suoi pazienti e non dai suoi colleghi (ibidem, p 63)

Nella conclusione di Medici e stregoni egli propone una ricerca (ancora mai effettuata) che parta dall’analisi più dettagliata possibile delle reali tecniche  degli attori terapeutici per risalire alla teoria di queste tecniche. Solo procedendo in questa direzione arriveremo a scoprire il patrimonio concettuale accumulato dalle etnie e impareremo a lasciare che utilizzino le loro risorse terapeutiche piuttosto che trasmettere ad ogni costo il nostro “vecchiume”. Insomma il terapeuta professato da Nathan è come un ricercatore che deve sperimentare le varie tecniche terapeutiche, sia quelle occidentali che quelle tradizionali.

 Nathan arriva ad affermare ne  L’influence qui guérit (1994):

In altri termini ,non sono lontano dal pensare che la psicologia – in quanto scienza dell’apparato psichico, secondo la formula di Freud, discorso su una materia oggettivabile che sarebbe possibile descrivere, indagare per scoprirne le leggi di funzionamento nascoste – la psicologia sia una pura finzione. La sola disciplina scientificamente difendibile sarebbe, se mi si perdona il barbarismo, un’influenzologia, che avrebbe per oggetto l’analisi delle differenti procedure di modificazione dell’altro. (Nathan, 1998, pp. 24-25)

 

Quindi  di una psicopatologia fondata sull’investigazione concreta e reale dell’azione del terapeuta e non della natura del malato.

Il lavoro di Tobie Nathan è un lavoro molto interessante: egli ha cercato di fare un passo in più rispetto all’etnopsichiatria classica cercando di costruire un dispositivo concreto di presa in carico dei pazienti migranti. Proprio per questo motivo, nei suoi scritti si concentra soprattutto sulle questioni di tecnica, lasciando che la teoria diventi una conseguenza delle modificazioni tecniche. Modificazioni che nascono come risposta a problemi pratici incontrati nella quotidianità del lavoro con i pazienti migranti. Il dispositivo etnopsicoanalitico di Tobie Nathan nasce in un contesto in cui i migranti venivano descritti in termini di carenza, poiché i dispostivi terapeutici occidentali non funzionavano con questi pazienti, la responsabilità veniva data a loro e non al fatto che il dispositivo attraverso cui venivano curati potesse essere sbagliato.

È come se ogni mondo avesse costruito il suo modo di ammalarsi e anche il sistema per fronteggiarlo, per cercare di guarire.

Questo rapporto così stretto tra la forma della sofferenza e la modalità per occuparsene De Martino l’aveva descritto nel suo studio sul tarantismo, pubblicato poi con il titolo La terra del rimorso (1961). Nel libro De Martino racconta il tarantismo, antico rito contadino caratterizzato dal simbolismo della taranta – il ragno che morde e avvelena – e dalla potenza estatica e terapeutica della musica e della danza, con un’impostazione inedita rispetto a quella di tanta letteratura meridionalista di stampo folcloristico, dimostrando come le pratiche rituali abbiano la funzione di scongiurare le ansie di un’esistenza segnata dalla povertà e dall’emarginazione. Con De Martino citiamo un grande volto dell’etnopsichiatria in Italia.

di Alessia Maccarrone

alessia maccarrone

 

 

 

 

 

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