Psicologia della Menzogna: Comunicazione Non Verbale, Microespressioni

Nel corso della propria vita ognuno ha a che fare con emozioni, sensazioni e comportamenti, più in particolare, con parole che lo mettono di fronte a ciò che tanto la propria cultura, quanto le rappresentazioni che da questa derivano classificano come menzogna, verità, falsità, passione, ira, desiderio, impulso, sdegno, sentimento, bugia, emozione, ecc. Nel corso della storia del pensiero umano, si è prestata molta attenzione a questi costrutti mentali. Abbiamo visto come la linguistica si colloca in una dimensione che costituisce un osservatorio particolare e privilegiato a cui non è possibile rinunciare.

Essa, infatti, si trova in una condizione favorita, poiché possiede la strumentazione necessaria per descrivere dettagliatamente quanto una lingua mette a disposizione dei parlanti quando questi, per i casi delle loro vite, si ritrovano nei meandri della menzogna, dell’ira, della passione amorosa, ecc. La menzogna e l’inganno sono apparsi, comunemente, solo come semplici negazioni della verità nonostante la lunga riflessione filosofica abbia mostrato che verità e menzogna sono strettamente intrecciate in una sorta di «doppia relazione», in una dimensione che presuppone che la possibilità della menzogna sia data dalla coscienza stessa; e che «come la maturità è simultaneamente la coscienza di sé e della giovinezza, così la coscienza menzognera è una coscienza a fortiori, e doppiamente cosciente, dato che essa comprende in sé l’ingenuità superandola».

Per Socrate il bugiardo è del tutto trasparente tanto che l’esercizio della parrhesìa, ovvero l’esser sincero a costo della propria vita, e quello della menzogna, finiscono per assumere, in determinate condizioni, pari dignità.
Non solo la filosofia contemporanea ha rivalutato l’idea di passione ma, soprattutto, la sociologia della scienza dell’ultimo quarto del secolo appena trascorso, così come gli sviluppi delle scienze cognitive, hanno messo in luce l’intreccio tra emozione e ragione, riflettendo sul legame tra la vita emozionale ed affettiva, quasi riprendendo le affermazioni della sacerdotessa Diotima nel Simposio di Platone, per la quale non c’è filosofia (conoscenza) senza desiderio.

Sant’Agostino riteneva che un mentitore pensava o esprimeva a parole cose non vere essendo che il linguaggio verbale era ed è la modalità fondamentale della socialità umana, ovvero lo strumento a disposizione per avere una qualsiasi forma di relazione con gli altri.

Possiamo pensare che, in qualche caso, si parli per affermare o difendere la verità oppure, al contrario, per occultarla, manipolarla, oppure, addirittura, per modificarla, per adattare comodamente la verità alle nostre debolezze. Non tutti sono il virtuoso Socrate capaci di affermare la verità a costo della propria vita. Ma è pur vero che non c’è bisogno delle parole per mostrarsi sinceri o insinceri e che, dunque, verità e menzogna ci parlano anche soltanto con gesti e comportamenti. Tuttavia, allo stesso modo, in maniera del tutto involontaria, gesti e comportamenti possono indurre in inganno.

È chiaro, allora, che il linguaggio degli esseri umani non si limita solo alle parole. Atteggiamenti e gesti descrivono determinate emozioni in modo del tutto inconsapevole. Essi manifestano contenuti emotivamente profondi che il soggetto, probabilmente, non intenzione di rivelare. Le relazioni umane non dipendono solo da scambi verbali. È il nostro comportamento non verbale che permette di giudicare e di essere giudicati. Non è un caso che la prima impressione che abbiamo quando incontriamo una persona proviene all’inizio dai suoi gesti, dal suo tono di voce, dai suoi movimenti e solo in seguito dalle parole. La capacità di interpretare le emozioni degli altri riveste un ruolo importante nella qualità delle relazioni sociali e, per la nostra specie, l’espressione del volto è un veicolo d’informazione sia attiva che passiva del proprio stato d’animo.

Gli uomini e le donne mentono di continuo, con finalità molto diverse tra loro e con un grado maggiore o minore di consapevolezza e sfrontatezza. Solo una piccola percentuale degli enunciati compiuti da un uomo sono veritieri.
una ricerca compiuta da Adler e Towne si vede come su un campione di centotrenta soggetti solo il trentotto percento di essi dice la verità. Il riconoscimento delle espressioni facciali, che manifestano le emozioni, sembra essere innato, transculturale e basato sull’integrità di alcune strutture celebrali che seguono vie nervose del tutto diverse dalla capacità di riconoscere un volto. Infatti, i movimenti muscolari relativi agli stati d’animo possono, fino ad un certo limite, essere controllati volontariamente. Le espressioni facciali vengono, generalmente, mascherate poiché si è sottoposti a regole, culturalmente determinate, che ne condizionano l’esibizione sociale, oppure perché si dissimula deliberatamente un’emozione.

La Comunicazione Non Verbale secondo Ekman

Nonostante i gesti non verbali siano parte integrante della nostra quotidianità, solo negli ultimi anni sono stati compiuti notevoli passi in avanti riguardo l’interpretazione sistematica e scientifica della comunicazione non verbale. Paul Ekman, autore di importanti studi su microespressioni ed emozioni, dedica tutt’ora la propria ricerca allo studio del comportamento non verbale e alle sue funzioni comunicative. Nato nel febbraio del 1934, è tra i pochi scienziati che siano entrati a far parte della lista delle cento persone più influenti al mondo, apparsa sul Time Magazine nel 2009. Egli, da anni impegnato nella ricerca sui segni della mimica facciale che potrebbero rivelarsi come indizi di menzogna, ritiene, come Damasio, che le espressioni del viso e le emozioni umane siano attivate e regolate soprattutto dall’interazione sociale con le altre persone. Il volto è il luogo dove si concentrano maggiormente le informazioni sensoriali sia che un soggetto le esibisca come emittente o che le codifichi, come ricevente, sul volto di un’altra persona, all’interno di un processo comunicativo.

Le Espressioni Facciali secondo Ekman

Quindi, le espressioni facciali possono essere usate volontariamente per comunicare, ad esempio, delle intenzioni, ma il viso esprime emozioni anche involontariamente. Tali espressioni involontarie sono emesse, ovviamente, per informare gli altri sul nostro pensiero. I segnali non verbali sono più credibili e veritieri delle parole; quando qualcosa suscita un’emozione, prende via un processo di espressione mimica in conformità a istruzioni codificate a livello neuronale, che modulano le risposte a livello del comportamento osservabile. Se conducessimo una vita nella quale tutti riuscissero a mentire alla perfezione, indubbiamente, condurremmo un’esistenza inconsistente e altamente misera. Tuttavia, pensiamo che esista un nocciolo di verità emotiva e che la maggior parte delle persone non possa o non voglia mentire. Per natura, gli uomini non sono «né trasparenti come il lattante né perfettamente camuffati. Possiamo mentire o essere sinceri, riconoscere le bugie o non vederle, essere ingannati o riuscire a difenderci. Abbiamo la possibilità di scelta, è questa la nostra natura».

Già Darwin, nel 1872, nell’opera L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, pubblicata 13 anni dopo la divulgazione dell’Origine della specie, sosteneva che l’espressione fisica delle emozioni, in modo similare ad altri comportamenti, fosse il prodotto dell’evoluzione, con il compito principale di comunicare l’azione che si sta per compiere. Le emozioni, contrariamente al linguaggio vero e proprio, si sviluppano da comportamenti che indicano ciò che si ha intenzione di mettere in atto. L’antropologo Ray Birdwhistell, primo studioso della comunicazione non verbale, ha stimato che l’uomo è in grado di fare e riconoscere approssimativamente 250.000 espressioni facciali82. Ekman, Friesen e Sorenson hanno studiato le espressioni facciali di soggetti appartenenti a cinque culture diverse e hanno confermato la tesi di Darwin relativa ai gesti innati: ogni cultura ha la stessa mimica facciale per manifestare i vari stati emozionali. Questo ha condotto i ricercatori a concludere che tali espressioni siano innate83. Darwin tentò, anche, di spiegare i meccanismi cognitivi animali e umani, estendendo la teoria dell’evoluzione e della selezione naturale ai substrati biologici della cognizione. Egli fornì dei dati atti a dimostrare che le espressioni dell’uomo, come degli altri animali, sono un semplice prodotto dell’evoluzione, per cui molte espressioni che denotano paura, rabbia o stupore si ritrovano invariate non solo in uomini di diversa estrazione culturale o appartenenti a civiltà diverse, ma anche in primati non umani o in altri animali. Il fatto che il riso, ad esempio, sia molto simile nell’uomo e nello scimpanzé testimonia un’origine comune fra le due specie.

Ma perché mentiamo?

Questo è uno degli interrogativi che per tanto tempo ha mosso a curiosità di filosofi ed esperti del campo. Dissimulare, ovvero la propensione a dire il falso e non essere sinceri nei confronti del prossimo, è un atteggiamento umano riconducibile perfino ai primati.

Frans de Waal, etologo e primatologo olandese, durante gli studi centrati sull’osservazione di una colonia di scimpanzé, ha notato come queste scimmie applichino tattiche ingannatorie sia con gli uomini che tra di loro: «Ho visto gli scimpanzé cancellarsi dalla faccia un’espressione poco conveniente, nascondere con le mani parti del corpo rivelatorie e compromettenti, diventare totalmente cieche e sorde quando un altro individuo saggiava il loro sistema nervoso con una rumorosa esibizione intimidatoria. Molti scimpanzé, ad esempio, all’avvicinarsi di uno sconosciuto possono rapidamente riempirsi la bocca di acqua dal rubinetto della loro gabbia e poi, perfettamente impassibili, restare in attesa che l’intruso arrivi alla loro portata […] Al momento giusto, quando ode la vittima dietro di sé, si volta di scatto e gli schizza l’acqua che ha in bocca»84. Nel corso dell’evoluzione l’uomo ha affinato la sua capacità menzognere. Nell’ambiente originario della specie umana menzogne gravi erano probabilmente rare, in quanto il conseguente rischio di essere scoperti a mentire, in una piccola società chiusa e collaborativa, minacciava la reputazione individuale.

 

di Federica Selvaggio

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