Psicologia del Lutto: Teoria Psicoanalitica, Biologica, Crisi e Post-Traumatica

lutto
In psicologia diverse scuole di pensiero hanno cercato di descrivere e comprendere il complesso fenomeno del lutto. E’ possibile, pertanto, individuare alcune principali teorie psicologiche di riferimento: la teoria psicoanalitica, la teoria biologica o interpersonale, la teoria post-traumatica o della crisi e la teoria esistenziale. In esse troviamo alcune differenze ma anche alcuni punti in comune che ci fanno evitare una visione rigida ed unilaterale del fenomeno di lutto.

Queste teorie, oltre a descrivere il fenomeno da un punto di vista psicologico, rappresentano anche il bagaglio culturale, costituito dalle reazioni, dagli atteggiamenti, dai significati che si danno alla morte, che noi tutti utilizziamo quando ci troviamo di fronte ad una grave perdita (Campione, F., 1990; Cazzaniga, E., 2002; Lombardo, L., Lai, C., Luciani, et all., 2014).

Nella prospettiva psicoanalitica, il lutto è il tempo in cui l’individuo trasforma la presenza esterna dell’oggetto perduto in presenza interna liberando energia libidica necessaria per la costruzione psichica di nuovi legami (Freud, S., 1915). Freud (1915) afferma che il lutto induce l’Io a rinunciare all’oggetto dichiarandolo morto e offrendo all’Io in cambio di questa rinuncia il premio di restare in vita.

Il lutto è portato a compimento allora, quando in modo realistico accettiamo la morte del nostro caro e diveniamo disponibili verso altri rapporti. Il dolore per la perdita subita comporta un sovrainvestimento dell’oggetto d’amore perduto (in quanto ciò che non si ha più acquisisce più valore) e un rifiuto profondo della perdita. Il lavoro del lutto, dunque, consiste in un processo dove l’energia psichica precedentemente investita sull’oggetto viene ritirata e diretta verso l’Io in una temporanea regressione narcisistica, per essere successivamente reinvestita verso nuovi oggetti (Campione, F., 1990).

Questo intero processo implica diverse fasi: la prima è caratterizzata da una ricerca tormentosa dell’oggetto perduto, che si manifesta di solito col ritornare in certi luoghi, rivedere immagini o rievocare la sua presenza attraverso l’uso dei sensi. Nella prospettiva psicoanalitica questa ricerca avrebbe un significato difensivo di negazione della perdita, una difesa dalla consapevolezza della morte. Non si ricerca, dunque, il defunto perché si vuole ritrovarlo in quanto si sa che egli non è più presente, ma ci si difende da questa amara certezza.

La rabbia, la colpa e la depressione, tipiche della fase successiva, rappresenterebbero difese meno primitive e meno rigide rispetto alla negazione, che rendono possibile l’attivazione di un graduale disinvestimento libidico dall’oggetto perduto che si completa, in un’ulteriore fase, col raggiungimento della riparazione e della risoluzione dei sentimenti luttuosi di perdita (Segal, H., 1964; Cazzaniga, E., 2002; Lombardo, L., Lai, C., Luciani, et all., 2014). Quando la riparazione ha luogo, l’individuo può far rivivere dentro di sé l’oggetto d’amore perduto nella realtà esterna attraverso, citando l’espressione di Melanie Klein (1953), un’identificazione proiettiva col defunto che ne rende possibile l’introiezione. In questo modo la libido trasformata e liberata dal precedente legame è disponibile per nuovi legami (Cazzaniga, E., 2002).

Colin Murray Parkes (1971) definisce la situazione di lutto come  una transizione psicosociale, un evento dell’esistenza che può esporre l’individuo a cambiamenti permanenti col probabile rischio di insorgenza di patologie mentali. L’adattamento a questa condizione di transizione richiede una profonda ristrutturazione del mondo interno dell’individuo e, non a caso, il processo fisiologico dell’elaborazione del lutto si conclude con una riorganizzazione, un’accettazione della nuova realtà (Cazzaniga, E., 2002).

Mentre la prospettiva psicoanalitica descrive il fenomeno del lutto coinvolgendo il mondo intrapsichico dell’individuo, l’approccio biologico, chiamato anche da Chochinov, Holland e Katz (1998) interpersonale, sottolinea l’importanza dell’adattamento all’ambiente che ha come scopo l’autoconservazione della specie. I principali esponenti della teoria biologica, Colin Murray Parkes (1972) e John Bowlby (1982) adottano un approccio etologico al lutto in base al quale per comprendere a pieno il significato della perdita di una persona cara è necessario far riferimento all’importanza del concetto di attaccamento nell’esistenza umana (Worden, W.J., 1991; Cazzaniga, E., 2002). L’importanza di quest’ultimo nel percorso di crescita dell’individuo è stata individuata da John Bowlby (1982), il quale sostiene che l’attaccamento deriva da un bisogno di sicurezza insito nella natura umana e che, fin dall’inizio, indirizza l’individuo a stabilire un legame verso pochi individui significativi. Il bisogno sottostante allo sviluppo dell’attaccamento, quindi, è un bisogno di sicurezza e protezione e ciò rende ancor più comprensibili alcune reazioni causate dalla perdita di persone care.

La morte rompe il legame di attaccamento mettendo così in pericolo la sopravvivenza del soggetto (Pezzotta, P., 2002). Questa rottura provoca delle conseguenze che si manifestano nel comportamento della persona in lutto che, in modo simile all’animale, metterebbe in atto un comportamento di ricerca dello scomparso per tentare ogni possibile recupero di esso; così i sentimenti che emergeranno in seguito di rabbia, colpa e depressione saranno manifestazioni inevitabili in chi si sente minacciato nella sua sopravvivenza. Infine l’individuo allenta il legame con chi non è più disponibile nel suo ambiente e crea una condizione nuova per la creazione di nuovi legami. Il lutto, in questa ottica, si declina in un processo che tende a risolvere il problema di una sopravvivenza che si sente esposta al pericolo: la morte pone l’organismo in uno stato di squilibrio biologico determinato dall’ improvviso cambiamento ambientale (Bowlby, J., 1983). Il lutto determina, così, uno squilibrio nell’ambiente sociale dell’individuo e non uno squilibrio nella relazione tra la persona in lutto e l’oggetto perduto (Campione, F., 1990). Il tipo di sofferenza che ne deriva ha caratteristiche uniche ed individuali in quanto l’intensità della crisi, data dalla mancanza di quelle persone che hanno sempre rappresentato le precedenti basi di sicurezza, è correlata ad una costruzione interna della realtà che è unica in ogni individuo (Pezzotta, P., 2002).

Caplan (1961) definisce la crisi come un ostacolo verso importanti obiettivi della vita e che rappresenta, per un certo periodo, un ostacolo insormontabile e difficile da superare attraverso l’utilizzo dei metodi di soluzione dei problemi che si era soliti utilizzare in precedenza. L’individuo si ritrova ad attraversare un periodo di confusione e tensione contro il quale deve utilizzare strategie cognitive e comportamentali nuove e diverse da quelle che aveva adoperato fino a quel momento: se queste risultano efficaci allora il momento di crisi può trovare presto una risoluzione; altrimenti, la tensione cresce con la possibile comparsa di sentimenti di angoscia, paura, senso di colpa, vergogna ed impotenza (Caplan, G., 1961).

La teoria della crisi o teoria post-traumatica (Horowitz M.J., 1986) descrive il lutto come una delle situazioni di vita più stressanti per il soggetto che ha conseguenze a livello psichico e somatico, e che pone l’individuo in una situazione di crisi. Le esperienze di crisi, come sostiene Pavan (2003), sono quasi sempre collegate a episodi che comportano il pericolo, il rischio e la minaccia per la propria vita, e a episodi che evocano sentimenti di perdita, separazione e lutto (Pavan, L., 2003). Infine, l’approccio esistenziale può essere ben rappresentato dalle riflessioni di Francesco Campione (1990) sul pensiero dell’antropologo De Martino (1975).

Il processo del lutto ha lo scopo di aiutarci a dimenticare i nostri morti, e non quello di prepararci a nuovi attaccamenti (come spiega l’ approccio biologico), o di reintrodurre all’interno di noi stessi ciò che si trova in una realtà esterna passata (come spiega l’approccio psicoanalitico), in quanto il lutto rappresenta un momento di crisi della presenza, una crisi della vita stessa dell’uomo, da non considerare esclusivamente in termini biologici o soggettivi ma come vita dotata di un  senso che noi stessi abbiamo costruito e che continuiamo a costruire nella nostra cultura e nel nostro tempo.

Con la morte del proprio caro entra in crisi il senso della vita; l’uomo deve allora recuperare il senso perduto e trovare una spiegazione alla morte della persona cara e darle un senso. L’uomo deve riuscire a “dimenticare” i propri morti per poterli ricordare e collocare in un tempo passato senza farli rivivere illusionisticamente nel presente. Il pianto rituale e le celebrazioni collettive del lutto avevano, nel passato, proprio questa funzione, quella di lasciare morire i nostri morti superando la crisi del senso della storia che essi lasciavano (De Martino, E., 1975; Campione, F., 1990). Di queste principali teorie che ho appena descritto, soltanto la teoria biologica e quella psicoanalitica fanno parte del bagaglio culturale della nostra epoca, mentre la teoria esistenziale spiega un modello del lutto valido per quei tempi in cui ancora si sapeva dimenticare i propri morti. L’uomo descritto dalla teoria biologica del lutto è un uomo che non può dimenticare (Campione, F.,1990) in quanto non fa altro che sostituire un attaccamento biologico con un altro attaccamento biologico, come se vivesse, in modo simile ad un animale, in un infinito presente senza una storia. D’altro canto, l’uomo psicoanalitico è un uomo che non può ricordare (Campione, F., 1990) perché non supera il passato ma cerca solo di farlo rivivere: l’oggetto d’amore interiorizzato, infatti, non rappresenta un ricordo ma una presenza. In questo caso, far rivivere significa rendere il passato presente, non collocare nel passato ciò che è passato. Con l’espressione riuscire a dimenticare non s’intende affermare che gli uomini devono dimenticare i loro morti per sempre, ma significa riuscire a fissare lo sguardo speranzoso sull’orizzonte del futuro (Campione, F., 1990), il quale si rivela un compito storico e culturale non facile per l’uomo di oggi.

di Giulia Detti

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