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Cyberbullismo: Esempi, Definizione, Psicologia

Una delle prove più significative riguardanti l’assoluta realtà dei mondi virtuali è la mutazione del bullismo nella versione on-line, il termine bullismo è ormai entrato a far parte del vocabolario collettivo ed è spesso citato nei fatti di cronaca.  Kedersten, nella conferenza “ Joint effort aganst victimization” del 8-10 giugno 2007, dichiara che “ circa 2000 bambini e giovani nel mondo sono abusati dai loro compagni.

Tutti i bambini e i giovani hanno il diritto al rispetto ed a un’ esistenza in condizioni di sicurezza. Il bullismo è una violazione di questo fondamentale diritto.”  I primi studi sul bullismo risalgono agli anni 70, quando Dan Olweus, avviò una serie di indagini in seguito al suicidio di due ragazzi norvegesi, avvenuti in seguito a soprusi in classe da parte dei compagni, fatto che scosse tutta l’opinione pubblica. Nella lingua inglese il verbo to bully significa opprimere e tiranneggiare; con il termine bullismo si definisce quindi un’aggressione intenzionale ripetuta nel tempo, da parte di un gruppo o un individuo contro vittime che non sono in grado di difendersi facilmente. (Olweus, 1993).

Le caratteristiche distintive del bullismo sono:

  • Intenzionalità: il bullo agisce con l’intento consapevole di dominare la vittima, offendendola e creandole disagio.
  • Sistematicità: gli episodi si perpetuano nel tempo e si verificano in maniera frequente.
  • L’asimmetria nella relazione: c’è una disparità di forza e di potere nella relazione dove l’uno prevarica sulla vittima che non è in grado di sottrarsi agli abusi, trovandosi in situazione di minoranza fisica o psicologica, rispetto all’ aggressore che perpetua atti di bullismo. (Whitney, Smith, 1993; Buccoliero, Maggi, 2005).

In base a queste definizioni è chiaro che, il bullismo comprende un ampio spettro di comportamenti, Sharp e Smith riportano la seguente classificazione:

  1. Bullismo diretto e fisico: picchiare, prendere a calci e pugni, graffiare, mordere tirare i capelli, appropriarsi degli oggetti altrui.
  2. Bullismo diretto verbale: ingiurie, ricatti, intimidazioni e vessazioni.
  3. Bullismo di tipo indiretto: tra i quali possono rientrare i pettegolezzi fastidiosi e offensivi, l’esclusione sistematica di una persona dal gruppo, il cosiddetto bullismo relazionale.

(Sharp, Smith, 1995)

A queste forme classiche si deve aggiungere il cyberbullismo, che consiste nell’utilizzo intenzionale, sistematico, pianificato e competente degli aspetti tecnici e/o delle dimensioni sociali della rete, per procurare un danno a soggetti che non attuano efficaci strategie di contrasto. (Fedeli, 2011) Il cyberbullying (in italiano bullismo elettronico o digitale) è stato introdotto in ambito internazionale solo all’inizio del 2000. Il termine è stato coniato dall’educatore canadese Bill Belsey  che nel 2002 lo definisce: “atto aggressivo e intenzionale compiuto da un’ individuo o da un gruppo di individui, usando mezzi di comunicazione elettronici, in modo ripetitivo e duraturo nel tempo, contro una vittima che non può facilmente difendersi.” (Smith et al., 2006).

Analizzando il fenomeno, i punti di incontro con il bullismo classico sono l’intenzionalità, la ripetitività dell’ atto e lo squilibrio di potere tra il bullo e la vittima. In aggiunta ci sono due criteri che caratterizzano in modo specifico il fenomeno cyber: anonimato e diffusione pubblica dei dati. Alla luce delle caratteristiche della comunicazione virtuale, alcuni autori  e in particolare Slonje e Smith, ritengono che la ripetizione sia un cluster non necessario nel bullismo elettronico in quanto, attraverso i mezzi mediatici una sola azione può essere contemporaneamente divulgata a moltissime persone, così’ come la dimensione temporale si dilata all’infinito poiché i contenuti rimangono disponibili online; tutto ciò rende l’attacco cyber così potente da avere effetti negativi anche trattandosi di una sola azione compiuta (Slonje, Smith, 2008).

Shaheen Shariff e Dianne Hoff in un articolo dell’ International Journal of Cyber Criminology, fanno un brillante confronto che chiarisce in maniera lampante le insidie del bullismo on-line. I preadolescenti nel mondo virtuale vengono paragonati ai protagonisti del celebre romanzo di Wiliam Golding del 1952, Lord of the files  dove un gruppo di ragazzi si ritrovano soli in un’isola deserta. All’euforia iniziale dell’ autogestione in assenza di grandi e di regole, ben presto segue un disordine anarchico e un’escalation di soprusi e omicidi, i ragazzi nel web sono come in un’ isola deserta.

Il bullismo, che nelle scuole può essere rilevato e bloccato, continua nel mondo virtuale dove l’adulto non può entrare. L’analogia prosegue in modo sorprendente mostrando un altro aspetto che forse è la natura dei cyberbullismo più preoccupante di tutti: l’anonimato. I ragazzi del romanzo, scoprono che per incarnare il male con più facilità basta assumere sembianze diverse e così si dipingono i volti e attaccano nascondendosi nelle loro maschere. I cyberbulli mettono in atto la stessa strategia, nascosti dietro a pseudonimi e IP camuffati, celano la loro identità. (Shariff,  Hoff, 2007)

L’anonimato pone la vittima in una condizione di incertezza sull’aggressore, sperimentando sensazioni di paura estesa a tutti i conoscenti che diventano potenziali nemici. La mancanza di conoscenza dell’identità del bullo risulta dannosa sul piano emozionale, creando vulnerabilità psicologica, che consiste in un generalizzato e irrisolvibile stato di ansia. L’anonimato ha un effetto deleterio anche sull’aggressore aumentando la tendenza a mettere in atto atteggiamenti aggressivi attraverso tre fondamentali meccanismi (Bauman, 2007): riduce le inibizioni sociali tipiche dei rapporti a presenza, abbassa la responsabilità sociale rendendo il bullo immune dalla condanna collettiva, annulla la paura di essere scoperti e puniti per le proprie azioni. Va evidenziato che l’assenza di feed-back della sofferenza dell’altro riduce in maniera drastica il senso di responsabilità; il distanziamento dalla vittima porta al processo di de-responsabilizzazione dei propri atti e di de-umanizzazione della vittima stessa rendendo così possibili meccanismi di disimpegno morale. La comunicazione in rete ha infatti accanto alle illimitate potenzialità di sperimentazione del proprio sé e di contatto sociale, delle insidie che possono innescare rischi di meccanismi patologici sia per la vittima che per l’aggressore, indebolendo il controllo del proprio agire morale. (Genta, Brighi, Guarini, 2014).

Gli individui gestiscono le proprie condotte morali attraverso un processo di  autoregolazione e meccanismi di autocontrollo basandosi sull’effetto delle proprie azioni; la lontananza dell’altro, tipica nelle relazioni agite mediante internet, di fatto indebolisce il controllo morale. Disinibizione, anonimato e lontananza fisica possono quindi dare una spiegazione concreta dell’accentuata violenza perpetrata on-line.

Willard (2005) sostiene che la relazione fra cyber bullo e cyber vittima si basa sull’asserzione: “Tu non puoi vedermi, Io non posso vederti”,  è proprio l’invisibilità a rendere questo rapporto altamente rischioso. Venendo meno gli indizi che nelle relazioni a presenza avrebbero permesso di cogliere la sofferenza e il dolore dell’altro, si affievolisce la possibilità di provare empatia, la “distanza sociale” è un’elemento che rafforza l’aggressività come già dimostrato negli esperimenti condotti da Milgram[1] negli anni settanta, dove è emerso che i livelli massimi di crudeltà hanno una correlazione positiva con la lontananza dalla vittima. (Genta, Brighi, Guarini, 2014). È noto che uno dei meccanismi che porta a minimizzare la responsabilità delle proprie azioni è il non vedere  gli effetti provocati nè le loro conseguenze, ciò rende più semplice disattivare i controlli interni, “tanto più sono lontani gli individui dai risultati finali, quanto è più debole il potere frenante dell’ aggressione distruttiva” (Brandura, 1996).

[1] Milgram (1975) condusse ricerche volte ad indagare fino a che punto le persone obbediscono agli ordini di una figura autorevole anche se questi vanno contro alla loro morale personale. Le persone che partecipavano all’esperimento erano volontari che credevano di assumere il ruolo di insegnanti in una ricerca di apprendimento. Veniva loro richiesto di somministrare scosse elettriche dolorose di intensità crescente ad ogni sbaglio dell’allievo complice. Le varie varianti degli esperimenti, oltre a dar prova di un’obbedienza totale ai comandi anche con sofferenza visibile della maggioranza dei partecipanti, ha anche dimostrato che la lontananza visiva e uditiva dalla vittima portava ai livelli massimi di punizione.

Articolo di Alice Maggini

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