Psicologia del Coraggio

coraggio

Osservando lo sviluppo del concetto di coraggio nel tempo possiamo quindi renderci conto di come questo costrutto sia complesso e articolato. Anche ai giorni nostri, però, non è possibile darne una definizione più chiara senza sembrare troppo semplicistici.

Alberoni ad esempio scrive: “Non confondiamo il coraggio con la temerarietà, con l’amore spericolato per il rischio, con l’impulso superficiale. Il coraggio è una virtù morale e sociale. Muniti di questa virtù esercitiamo le nostre capacità più elevate in situazioni difficili, angosciose per noi e per gli altri, osservando a mente lucida e cuore saldo. Affrontiamo le avversità con forza d’animo e senso di responsabilità”(F.Alberoni, 1998)

Nonostante gli studi e le ricerche focalizzati sul coraggio siano ancora pochi, come affermano anche Woodard e Pury (2007), quasi tutti gli autori sono concordi nel sottolinearne le dimensioni di intenzionalità e intraprendenza e nel diversificare vari tipi di coraggio. “Il costrutto di coraggio si riferisce ad azioni che siano intraprese intenzionalmente e volontariamente” (Goud 2005, Rate & Sternberg 2007). O’Byrne lo definisce invece come il risultato di un processo cognitivo tramite il quale si stabilisce il rischio e si individuano azioni utili a fronteggiarlo malgrado le potenziali conseguenze negative, nel tentativo di ottenere un risultato positivo per sé o per altri (O’Byrne et al. 2003).

“Courage in today’s society is to take life in the direction a person wants, accept the change from the risks he or she takes, and turn any change into success.” (M.Wilson)

Gli esperti sono incerti sui fenomeni in grado di elicitare coraggio, ma molti sostengono che esso sia strettamente connesso alla tendenza ad essere disponibili e accettare la realtà (C. Almeida 2001); molti altri, come Pasini, sostengono la forte componente coraggiosa insita nel cambiamento, ma per lui quest’ultimo è influenzato sia dalle personali propensioni al cambiamento sia dall’ambiente culturale

Anna Bosetti, nella sua tesi di laurea dal titolo “Il coraggio e l’umiltà”, enfatizza la dimensione sociale del coraggio sottolineando come, su questo terreno, esso sia in relazione con l’umiltà: “il senso del coraggio come ricerca di sé, volontà di proporsi sulla scena del mondo con le proprie azioni, conduce al sentimento della propria parzialità, finitezza, possibilità di errore. Se ci si dà, se ci si espone al mondo con coraggio, si assume il rischio di sbagliare e allora l’umiltà emerge non solo come consapevolezza di parzialità, ma anche come capacità di riconoscere e di ammettere questa possibilità. Coraggio e umiltà, così, appaiono specchiarsi in rimandi continui. Ogni conquista di soggettività, ogni progressione nel percorso di individuazione è, al tempo stesso, una rinuncia, anche se temporanea, che comporta l’accettazione dei propri limiti: è necessaria quindi l’umiltà a completare i significati e l’esercizio del coraggio”(A.Bosetti 2005). Il coraggio è il nostro essere e apparire nel mondo, poiché comporta l’unicità e la ricerca di sé che emergono nell’incontro e dal rapporto con gli altri. La relazione con l’altro appare dunque necessaria al proprio definirsi. Questa ricerca in realtà non è mai finita e non è un concetto solo moderno: in comune con quanto accadeva agli eroi Omerici, essa è possibile solo grazie al coraggio e vede necessaria l’alterità, come riconoscimento di differenza o similitudine e come accettazione di sé. Per riconoscersi unico o unica, una singolare manifestazione di soggettività, è necessaria sia la capacità di identificarsi sia quella di differenziarsi, ma in ogni caso è necessario accettare la propria parzialità: “irripetibile io, tra altri irripetibili” (A.Bosetti, 2005).

Anche secondo Alberoni il coraggio ha due volti: quello che spinge ad avanzare e quello, più strettamente connesso alla consapevolezza di fallibilità, che suggerisce il ritiro. C’è il momento, che i greci chiamano “kairos, in cui si può osare, incominciare qualcosa, buttarsi avanti. Questo momento va riconosciuto: per farlo occorre lucida intelligenza, capacità di cogliere i segnali della realtà ma anche esercitare un forte controllo su sé stessi. Poiché la tendenza è di pensare che le cose continueranno nello stesso modo, la conseguenza è l’adagiarsi nell’abitudine, con conseguente paura di rischiare. Se ci vogliono intuizione e coraggio per buttarsi avanti quando le circostanze sono favorevoli, ci vogliono altrettanta intuizione e coraggio, se non di più, per capire quando è giunto il momento di ritirarsi.

L’utilità di ripercorrere in questa tesi la storia della concezione di coraggio dai più famosi pensatori dell’antica Grecia diventa ora chiara, in quanto due psicologi contemporanei, Peterson e Seligman, ripescano il concetto aristotelico e platonico di “virtù” come categoria del coraggio, assegnando poi alla virtù del coraggio quattro corrispondenti forze comportamentali: autenticità -forza emotiva che porta a raggiungere le mete nonostante le opposizioni interne ed esterne-, coraggio -inteso come coraggio di dire la verità, essere sinceri-, persistenza -non tirarsi indietro di fronte alle minacce, ai cambiamenti, alle difficoltà e alle sofferenze- e slancio -finire quello che si è cominciato- (M.E.P. Seligman, C. Peterson, 2014). Interessante anche notare che molte di queste forze temperamentali sono le stesse che da sempre le varie religioni del mondo cercano di promuovere (L.Salmaso, 2008). Si può notare che essi, differentemente da Alberoni, assegnano più importanza alle dimensioni di slancio e iniziativa.

La frase di Nancy Schwartz: “Courage in knowledge of what is to be dreaded and dared”, sintetizza il concetto che le persone operano, senza saperlo, un riduzionismo concettuale e, quindi, finiscono per percepire solo il suo aspetto del “comportarsi bene”( N. Schwartz, 2004).

L’obiettivo dell’atto coraggioso può essere etico, morale o sociale. Per Rate e Sternberg la dimensione etica del coraggio lo differenzia dall’audacia, dalla ricerca del brivido (C. Rate & R. J. Sternber, 2007). Un esempio di obiettivo del coraggio etico è la lotta alla criminalità, un esempio di coraggio morale è invece il denunciare un’ingiustizia sociale, mentre un segno di coraggio sociale è quello di impegnarsi in attività di volontariato o cittadinanza attiva. Altri autori distinguono il coraggio in altri tipi, come Putman che, ad esempio, ha distinto tra coraggio fisico, morale e psicologico (D.Putman, 1997).  Pury, Kowalski, e Spearman hanno distinto, a seconda della posizione dell’azione nel contesto sociale, azioni coraggiose in senso generale, considerate in modo unanime coraggiose e azioni coraggiose in senso personale, cioè coraggiose per la persona che le agisce (C. Pury, R. Kowalski & J. Spearman, 2007).

Le diverse categorizzazioni non sono fra loro incompatibili, piuttosto integrabili, soprattutto data la scarsità di ricerche al riguardo in letteratura, che lascia molti spazi vuoti e molte domande aperte.

 di Erica Boiano

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