psicologia del male narcisismo maligno

Psicologia Del Male: Psicopatia e Narcisismo Maligno

Lo Specchio Del Male
Psicopatia e narcisismo maligno

NOW WE WORSHIP AT AN ALTAR OF A STAGNANT POOL
AND WHEN HE SEES HIS REFLECTION, HE’S FULFILLED.
OH, MAN IS OPPOSED TO FAIR PLAY,
HE WANTS IT ALL, AND HE WANTS IT HIS WAY.
BOB DYLAN – LICENSE TO KILL

 

L’attore e regista Sean Penn nel 1987 fu arrestato e incarcerato per 33 giorni nelle Twin Towers, le torri poligonali che sono la sede principale delle carceri della Contea di Los Angeles. Insofferente delle pressioni esagerate di un paparazzo, lo aveva preso a pugni. Penn era già famoso e il suo vicino di cella, riconoscendolo, cercò di renderselo amico e di ottenere un autografo. In realtà, il suo vicino di cella, almeno in California, era non meno famoso di lui. Si chiamava Richard Ramirez, ed è passato alla storia come uno dei più paurosi e sanguinari serial killer che siano apparsi nel continente americano. Ovviamente Sean Penn sapeva molto bene chi fosse Ramirez,
e non gli diede la minima confidenza.

richard ramirez

Richard Ramirez

Ramirez, che era stato catturato dopo una rocambolesca caccia all’uomo circa un anno prima, fu processato l’anno successivo a quell’incontro. Durante il processo fece di tutto per mettersi in mostra davanti alla stampa. Voleva continuare a rappresentare quel terrore cieco che per un paio d’anni aveva raggelato il sangue agli abitanti della Contea di Los Angeles. Mise in giro la voce che durante il processo qualcuno gli avrebbe portato una pistola in aula, e con quella avrebbe fatto fuori il procuratore incaricato di dimostrare i capi d’accusa contro di lui. Diceva di essere Satana in persona, e Satana non si può fermare. Salutava il pubblico con la mano alzata, sul palmo vi era
disegnata una stella a cinque punte. Faceva facce orribili, sghignazzava con i denti cariati e dava l’idea di essere lui il burattinaio che muovesse i fili del suo processo, processo già reso spettacolare dalle descrizioni dei brutali assassinii, violenze sessuali e torture di cui si era reso protagonista.

Non gl’importava della sentenza. Ciò che lo interessava era essere al centro dell’attenzione. 

Joaquin Guzman, detto “El Chapo”, é stato forse il più potente commerciante di droga mai esistito. Dopo essere fuggito due volte di prigione ed essere sopravvissuto ad vari tentativi di eliminarlo, era ormai latitante da oltre un anno. Difficilmente avrebbero potuto localizzarlo visto il muro di omertà da cui era protetto. Avrebbe potuto continuare il suo lavoro di organizzatore del narcotraffico delle americhe ancora per lungo tempo. Aveva però un desiderio. Riguardava una bella attrice messicana, Kate Del Castillo, su cui aveva messo gli occhi con il desiderio di possederla. Prese dei contatti con la scusa di voler assoldare qualcuno per fare un film sulla sua vita, un’espediente che poteva allettare l’attrice. Fu così che lei decise di mettersi in comunicazione con Sean Penn a Los Angeles, e fu così che Penn decise di accettare di incontrare il drug lord in Messico. Fu un primo contatto a cui ne doveva seguire un secondo che non fu mai attuato. Seguendo Penn nel suo primo viaggio all’interno delle foreste del Messico, forze speciali furono in grado di organizzare un attacco al covo di Guzman, che venne nuovamente catturato.

E’ assai probabile che Guzman ritenesse che potesse esserci un margine di rischio, ma che fosse di proporzioni risibili, vista la sua potenza.
Nello studio delle personalità criminali una delle caratteristiche che appare più spesso é il narcisismo. Ma il narcisismo non é sinonimo di criminalità, nemmeno quando diventa un disturbo della personalità. Tratti di narcisismo appartengono a tutti e senza connotazioni negative.

Cosa cambia in quell’espressione estrema del narcisismo presente in certi soggetti? 

Il sentirsi “più furbi degli altri”, in controllo della situazione e virtualmente intoccabili però porta spesso con sé una trappola, spesso sottovalutata: la necessità di un pubblico. Il narcisista ha bisogno di una platea. Che sia la stampa che parla del feroce assassino, la banda di sicofanti che lo osannano e lo lodano, il narcisista non può fare a meno di un pubblico che riconosca la sua eccezionalità.

Lo stesso giorno in cui El Chapo Guzman veniva catturato in Messico, in Italia finiva in manette un pericoloso fuggitivo nostrano, Fabio Perrone. Condannato all’ergastolo per aver sparato all’impazzata dentro un bar e aver ucciso un uomo e ferito gravemente suo figlio per una presunta offesa, Perrone era sfuggito al controllo della polizia in un ospedale, aveva disarmato e ferito uno dei poliziotti, minacciato una donna in un parcheggio con la pistola, rubato l’auto e sparito grazie a una rete di personaggi locali che erano diventati il pubblico ammirato delle sue gesta. Scovato a forza di investigazioni serrate, lo arrestano nella sua stessa casa. Al drappello di poliziotti che lo trascinavano via ammanettato, grida sarcastico: “Volendo potevo scappare pure adesso”. Ecco il senso di onnipotenza, il bisogno di sentirsi sempre in controllo della situazione, il credere di poter giocare, se non schiacciare, gli altri.

Il 30 maggio 1943 un medico tedesco trentaduenne, appartenente a un reggimento di Waffen-SS, terminata la convalescenza dopo essere stato ferito sul fronte russo, e dopo aver preso la decisione di farsi assegnare ad altri servizi nelle retrovie, arrivava al campo di Auschwitz, nell’area di Polonia che durante il dominio nazista andava sotto il nome di Governatorato Generale.

Il dottor Josef Mengele, più che dottore si sentiva uno scienziato. Non aveva la più pallida idea di quello che fosse Auschwitz, né di quello che sarebbe diventato da quel 30 maggio del 43 al 27 gennaio del 45, giorno della liberazione del campo da parte dell’Armata Sovietica. Probabilmente non gli ci volle molto per comprendere che quel luogo, per un medico con conoscenze di genetica e antropologia come possedeva lui, e con velleità di ricercatore e scienziato, potesse essere un’occasione unica nella storia dell’umanità.

12607200_10208582302424746_2050901261_n (1)

Mengele non fu mai il capo dei servizi sanitari del campo, il medico capo, ma fu l’anima atroce del campo. Per questo il criminologo americano Eric Hickey dedica a lui il primo dei profili del capitolo sulla storia dell’uccisione di massa e dell’uccisione seriale, in Serial Murderers And Their Victims (2010). Egli rimase costantemente in contatto con un suo insegnante, il professor Otmar von Verschuer, che aveva tenuto una cattedra presso l’Istituto di Biologia Ereditaria e di Igiene Razziale all’Università di Francoforte e aveva in
seguito fondato a Berlino il Kaiser Wilhem Institut di Antropologia, Eredità Umana ed Eugenetica. A Verschuer, Mengele mandava continuamente rapporti, tabelle, statistiche, e reperti anatomici.

Oggi sappiamo che aveva in testa il desiderio di una brillante carriera accademica, cioè gloria e onori nella capitale tedesca, probabilmente il sogno di una platea di studenti che pendevano dalle sue labbra e di colleghi pieni di ammirazione e reverenza per le sue improbabili scoperte. Tuttavia, il suo desiderio di potere e controllo assoluto su centinaia e centinaia di migliaia di persone, come aveva ad Auschwitz, non sarebbe mai più stato possibile. A Berlino sarebbe forse diventato un eminente cattedratico, ma non sarebbe mai più stato “Dio”. Nella logica aberrante della sua pseudoscienza, le cui ricerche ed esperimenti riempivano le sue giornate, e che dava tanta importanza al suo ego e una ragione “logica” per il suo lavoro quotidiano, infilava questo potere assoluto, per cui con un colpo di frustino spartiva gli umani, come Mosè divideva le acque del Mar Rosso. Fila di destra o fila di sinistra. Voi morite subito. Voi morirete più tardi. Come rappresentante della “herrenrasse” della razza padrona, si presentava sempre con l’uniforme perfetta sotto il camice, gli stivali lucidati a specchio. E questo contrastava con le condizioni dei deportati che scendevano, dopo viaggi bestiali su vagoni bestiame, e le loro condizioni di sporcizia
obbligata, di disperazione e sottomissione.

Nel campo era dovunque e osservava questo e quello come si osservano gli animali da laboratorio. I suoi collaboratori però non erano medici nazisti, ma medici e antropologi internati. Ebrei. Costringeva degli ebrei a partecipare ai suoi esperimenti, li rendeva partecipi delle autopsie e della selezione dei preparati umani da spedire a Berlino.

Discuteva con loro dei casi che studiava come se fossero stati dei colleghi normali, salvo che un suo cenno li avrebbe condannati alla camera a gas. Era un interessante e piacevole conversatore. Dissertava di filosofia, antropologia, genetica, anatomia, fisiologia. Ma anche di letteratura e musica. Passava da un blocco all’altro fischiettando Strauss e Wagner. Alcuni di quei dottori erano caduti nella trappola. Anche dopo la guerra in qualche modo ritennero che alla base del suo darsi così tanto da fare esistesse comunque una scienza e un metodo di ricerca formale. Gli concessero un tale credito probabilmente per giustificare loro stessi, per giustificare l’essere sopravvissuti collaborando per una razione di cibo leggermente più abbondante e un letto meno sudicio. D’altro canto lo stesso Primo Levi ha posto per primo l’accento sulla politica dei nazisti di coinvolgere gli ebrei nel piano della loro stessa autodistruzione. La forma di manipolazione escogitata affinché le vittime morissero dentro prima di morire biologicamente, sentendosi complici attivi del loro sterminio, era iniziato con la manipolazione dei membri dei Judenrat, i comitati ammistrativi ebraici dei ghetti, e raggiungeva il suo apice nei Sonderkommando, gli ebrei incaricati di ripulire le camere a gas e caricare i corpi nei forni crematori. Menghele non era un medico e non era uno scienziato.
Misurava tutto con furiosa puntigliosità e senza pietà (e men che meno empatia) per nulla e nessuno, senza un ordine di ricerca chiaro, salvo i suoi pregiudizi sulle razze umane.

Molti bambini, gruppi di gemelli lo amavano. Rideva, scherzava e giocava con loro. Le mamme ridotte a scheletri speravano per i loro bambini. “Al dottore piacciono i gemelli”. Morirono tutti, tra atroci tormenti. Lasciava che nel campo si spargessero voci di speranza sulla sopravvivenza di certi tipi di soggetti. Poi lasciava che circolasse la voce opposta. Confusione mentale e paura, improvvisa speranza e poi eliminazione della stessa. Poi di nuovo nuovi ordini. Da Berlino. Direttamente dal Reichsführer Himmler. E poi i contrordini. Speranza, disperazione, nuova speranza. Confusione mentale come forma di controllo, e quindi di potere. Molti furono i medici nazisti che si resero partecipi di atrocità. La maggior parte di loro erano persone normali, trasformate da un ambiente in cui ormai si scambiavano ideologie aberranti per cultura e scienza.

Lo psicologo sociale Philip Zimbardo, nel suo trattato “L’Effetto Lucifero” sui meccanismi di trasformazione di persone normali
in persone che agiscono nel male, cita il caso dei medici nazisti, reiterando le teorie dello psichiatra e storico Robert Jay Lifton. Zimbardo sottolinea come molti medici, seppur indottrinati dal nazismo fin dalle scuole medie, all’arrivo nei lager venivano presi dall’orrore e dallo sgomento.

Incominciarono anche loro a disconnettere gli affetti e l’empatia dalle facoltà superiori, quelle cognitive. Ma l’empatia la possedevano eccome, come il senso della decenza e della compassione. Nel momento in cui non trovavano la forza morale di ribellarsi, si costruivano scuse politico ideologiche (naziste) per la decisione di rimanere, e infine si costruivano due personalità: oltre a quella normale, vi costruivano a fianco quella del lager.

Personalità anestetizzata, per cui piano piano l’immagine quotidiana dello sterminio sfumava nella routine. Menghele no, non ebbe mai bisogno di fare questa scelta “schizofrenica”. Si può ipotizzare che come medico, anche in tempo di pace, la sua personalità patologica avrebbe trovato il modo di farsi avanti e creare, attraverso situazioni differenti, molte vittime.

Quando finalmente arrestarono in Florida Ted Bundy, nel 1979, questi aveva appena terminato di fare una strage in un dormitorio femminile. Aveva ucciso due ragazze a colpi di bastone, le aveva stuprate da morte e mutilate a morsi. Nello stesso dormitorio aveva massacrato di botte altre due studentesse, poi era scappato, intrufolandosi in un’altra abitazione non lontano dal dormitorio
universitario, aveva assaltato e picchiato un’altra donna senza riuscire ad ucciderla o violentarla. Una settimana dopo, in un’altra contea della Florida, aveva rapito e ucciso un’altra ragazzina tredicenne. Aveva iniziato quasi un decennio prima, nello stato del Washington, esattamente dall’altro capo del continente, continuando ad uccidere in Oregon, California, Idaho, Utah, Colorado. Venti aggressioni da lui riconosciute (ma non ammesse in confessione, non ammise mai nulla), cinque donne sopravvissute, 15 assassinate. Altri dieci assassinii gli sono stati attribuiti dopo la sua morte, nell’89, sulla sedia elettrica. Quando la vita non andava nel modo giusto, quando diveniva grigia e pesante, Bundy doveva ammazzare qualche donna per tranquillizzarsi. Intelligente, di bell’aspetto e con una discreta preparazione accademica alle spalle, non aveva altro modo di riportarsi alla normalità quando sentiva di essere sul punto di perdere il controllo di sé e
della sua esistenza. Non gli riusciva di mantenere un profilo basso. Non era vita. Così fu catturato mentre correva su un’auto rubata, braccato da tutte le polizie, probabilmente in cerca di altre vittime.

bundy

Ted Bundy

Avendo fatto un paio di anni di scuola di legge dopo una laurea di base, decise di rinunciare al solito incompetente avvocato d’ufficio e di prendere su di sé il fardello della sua stessa difesa. Per molti giorni di dibattimento si comportò effettivamente in maniera brillante. Finché non venne il giorno in cui insistette per controinterrogare una delle ragazze sopravvissute all’attacco nel dormitorio, che era avvenuto nel buio della notte. Nell’incalzare la ragazza di domande su quell’esperienza, apparve qualcosa ai giurati che a lui sfuggì. Apparve l’altra faccia di quell’uomo così sempre tranquillo e sicuro di sé. Il susseguirsi delle domande e le risposte della ragazza lo avevano trasformato. Il suo viso e il suo corpo non nascondevano un’eccitazione crescente. Più aumentavano i dettagli di quella scena brutale e più la sua eccitazione aumentava in maniera evidente. I giurati rimasero letteralmente pietrificati davanti a tale scena. Poi arrivarono le perizie dentali, con il calco dei suoi denti e delle impronte dei morsi sui corpi delle vittime. Non ebbe più nessuna speranza di vincere.
Bundy era già stato arrestato due volte e due volte era fuggito. Elegante, colto e gioviale, arrogante talora ma di un’arroganza bonaria e non volgare, sicuro del suo destino e gentile con le persone intorno a lui, per lungo tempo non fu ritenuto realmente colpevole, né realmente
pericoloso. Anche in Florida, durante il processo, faceva una notevole impressione. Fu il primo grande processo in cui vennero ammesse le telecamere delle televisioni, oltre a giornalisti e ai fotografi. E lui non si lasciò sfuggire di rimanere al centro dell’attenzione, gigioneggiando davanti al pubblico, ai media, ai giurati, al giudice, ai testimoni, all’accusa. Dopo la sentenza, passarono quasi dieci anni prima dell’esecuzione, per via dei vari ricorsi. Scoprirono nella sua cella arnesi per la fuga più di una volta, e più di una volta ripeté agli inquirenti – come Fabio Perrone – che avrebbe potuto tranquillamente scappare diverse volte e che avrebbe tentato ancora. Lo cambiarono di cella spesso, i ricorsi furono respinti e morì sulla sedia elettrica nell’89.

Se dalla città di Merced, nella valle centrale di San Joaquin, in California, si prende la Interstate 140 verso la Sierra Nevada, si raggiunge una località chiamata El Portal, una delle principali entrate al Parco Nazionale di Yosemite. A El Portal vi sono vari Bed & Breakfast, tra cui il Sierra Lodge. Nel 1997 fu assunto come factotum Cary Styner. Tra l’inverno e la tarda primavera del 1999 Styner uccise quattro donne. Una turista con la figlia e una compagna della figlia, e una scienziata naturalista che lavorava presso l’Istituto Yosemite. Le prime due vittime, la donna e l’amica della figlia furono ritrovate dopo lunghe ricerche bruciate nel baule dell’auto affittata per la gita. Dopo qualche giorno la polizia ricevette una piantina disegnata a mano affinché potessero localizzare il terzo corpo, quello della figlia quindicenne. Sotto la mappa era scritta una nota: “Con questa ci siamo proprio divertiti”. La ragazza era stata sgozzata. Le tre donne avevano affittato delle stanze al Sierra Lodge, e tutto il personale fu interrogato, compreso Styner. Non molto dopo, il corpo senza testa della quarta vittima – la naturalista – fu ritrovato nella zona. Quando Styner fu arrestato in un campo nudisti vicino a Sacramento, venne era circondato da poliziotti e dalle
telecamere di alcuni canali televisivi. Senza essere per nulla impaurito, chiese se poteva fare una domanda, che gli venne concessa. “Pensate che adesso faranno un film sulla mia vita?” fu la domanda di Styner.

Gary Styner

In questa sede sembra quasi doveroso menzionare il caso di Dennis Rader, forse uno dei casi più significativi di questa patologia. Entrava nelle case, picchiava, torturava, soffocava (sacchetti di plastica), strangolava o impiccava le sue vittime. Talora le pugnalava. E poi mandava messaggi a polizia e televisioni, spesso con foto delle scene di morte che lui aveva creato. Aveva anche suggerito il suo “nom de guerre” alla stampa: Bind, Torture, Kill. Lega, Tortura, Uccidi. BTK killer.

Dennis Rader

Poi smise per anni di uccidere. Si occupò dei figli. Si iscrisse all’università e prese una laurea in scienze forensi, continuando a lavorare, presso il comune della sua città, come capo scout, e come capo laico di una congregazione religiosa luterana. Una volta che i figli si resero indipendenti la vita gli apparve troppo piatta. Così riprese a comunicare con polizia e media. Il BTK killer non era morto, ma libero e, volendo, libero di ricominciare ad uccidere, alla faccia loro. La città di Wichita, in Kansas, fu nuovamente avvolta in quel sottile freddo che la paura e l’insicurezza spandono senza risparmiare nessuno. La polizia arrestò una persona pensando che fosse il serial killer. Rader si offese e fece subito sapere agli inquirenti che avevano preso l’uomo sbagliato. Si offrì di aiutarli spedendo loro un floppy disk con alcuni files con altre scene orribili e prove della sua “buona fede”. Chiese alla polizia se ci fosse rischio di poter risalire a lui tramite il floppy disk.

Per un curioso motivo si fidò della risposta: no, non é possibile. Forse pensò che si trattasse di un gioco, meglio, un videogioco dove i partecipanti hanno gli stessi diritti e seguono le stesse regole.

La polizia riuscì a trovare file che erano stati cancellati, ma non definitivamente. Ne apparve uno appartenente alla congregazione luterana locale, con la firma “Dennis”. Quando venne condannato a più ergastoli dalla corte del Kansas, fece un lungo discorso a giudici e giurati. Più che un discorso di pentimento o di scuse, lo paragonarono al discorso di accettazione che i divi del cinema declamano quando ricevono l’Oscar.

Jeffrey Skilling aveva un libro che considerava la sua “Bibbia”. Era “Il Gene Egoista” del biologo e genetista inglese Richard Dawkins. Come gli uomini del nazismo, Josef Mendele compreso, riaggiutò le teorie darwiniste in modo che potessero adattarsi alla sua personalità e alle sue idee. Diede la scalata al potere economico. Divenne amministratore delegato della Enron Corporation, rendendola grande, trasformandola in un grande market online in cui si potevano vendere e comprare fonti di energia come fossero pacchetti di azioni. I pacchetti però spesso non contenevano niente. Costrinsero lo stato della California alle corde in un deficit energetico che portò ad una serie di blackout da Los Angeles a San Francisco. Per mancanza di energia, i costi della benzina e altri carburanti salirono a picchi altissimi.

In quell’anno particolarmente afoso e secco in California, i pompieri si trovavano spesso a non avere i mezzi per combattere i giganteschi incendi che divampavano ovunque. Skilling ironizzava: “Sapete che differenza c’é tra il Titanic e la California? Che almeno sul Titanic, mentre affondava, le luci erano accese”. Tra i vari proventi degli investimenti vi erano i pacchetti pensione di decine di migliaia di persone. Skilling d’improvviso diede le dimissioni nell’agosto del 2001, rinunciando allo stipendio di 132 milioni di dollari all’anno, ma assicurandosi una adeguata buonuscita. Un mese prima aveva venduto 60 milioni di azioni Enron da lui possedute. Nel dicembre dello stesso anno la Enron dichiarò bancarotta. Ventimila persone persero il lavoro dalla sera alla mattina, molte di più persero il fondo pensione e in generale le perdite degli investitori ammontarono ad alcuni miliardi di dollari. Skilling, insieme al capo dell’ufficio finanze, Andrew Fastow, furono processati e condannati a 24 anni di prigione il primo e a 13 il secondo. A Skilling è stata garantito uno sconto di pena e potrebbe essere rilasciato nel 2018.

Skilling era noto per arroganza e prepotenza, e riuscì anche ad infuriarsi contro il pubblico ministero quando fu chiamato alla sbarra dei testimoni durante il suo processo. Mente più ambiziosa che brillante, fin dai suoi studi ad Harvard era noto per disprezzare chiunque non si dimostrasse all’altezza delle sue capacità e seguace della sua filosofia. La gente, usava ripetere, la si domina con la paura e con i soldi. Paura di non essere all’altezza – inventò un sistema di qualificazione mensile per tutti gl’impiegati della Enron, una scala da 1 a 5, con l’uno essendo il punto più alto, il cinque il più basso. I 5 potevano perdere il posto immediatamente. Dovevano essere efficienti per mantenere la parvenza di una gigantesca truffa, di un nulla. Durante il processo negò di avere responsabilità della più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti. Molti dicevano che fosse comunque un genio della finanza. Era innanzitutto un genio della manipolazione, al servizio del suo ego narcisistico.

Si può perdere il controllo con gli inquirenti come se si fosse ancora al comando, sopra tutti gli altri, oppure, trattarli paternamente, addirittura lodarli per essere riusciti ad essere così intelligenti e scaltri da aver vinto. Molti serial killer si sono congratulati con i poliziotti che hanno messo loro le manette, ma anche molti boss mafiosi, come il boss dei boss Bernardo Provenzano, catturato dopo decenni di latitanza. Anche questo è un modo di dimostrare narcisismo e di omaggiare il proprio ego.

Il Forte Bravetta sorge pressapoco a metà della via omonima, e fa parte della catena di quindici fortilizi che furono costruiti alla fine dell’800 per difendere Roma. Il 5 giugno 1945, subito dopo pranzo, un autocarro si fermò nel piazzale del forte, che brulicava di poliziotti. Ne scese un giovane uomo, alto, elegante in un completo chiaro. Appena sceso si rimise a posto il ciuffo ribelle. I poliziotti lo circondarono e lo scortarono al fondo del piazzale, dove era stata posta una sedia di paglia. Vi erano anche varie autorità e anche un cineoperatore e un regista. Il giovane fu invitato a sedersi sulla seggiola, a cavalcioni con la pancia rivolta verso lo schienale. Fu legato alla seggiola, ma prima di lasciarsi legare, il giovane si prese la briga di aggiustarsi la piega dei pantaloni. Un prete gli si avvicinò e alcune parole vennero scambiate. Poi il prete si allontanò. I poliziotti si erano sistemati su due linee, a circa trenta metri, i fucili puntati su di lui. Nell’istante in cui il capo plotone ordinò il fuoco, il giovane girò leggermente il suo viso dai lineamenti delicati. La scarica di fucileria gli staccò di netto quel lato del volto. Così morì Pietro Koch, nello stesso piazzale dove negli ultimi anni il suo amico colonnello Herbert Kappler aveva fatto fucilare 77 partigiani, probabilmente segnalati o arrestati da Koch stesso. Lo stesso piazzale dove molti mesi prima era stato fucilato un altro suo amico, il questore di Roma Pietro Caruso.

Non è solo il fatto che Pietro Koch, dopo la firma dell’Armistizio dell’Italia con gli Alleati, l’otto settembre 1943, invece di tornare a casa come tutti i soldati dell’esercito, avesse deciso di crearsi di punto in bianco una carriera come poliziotto, usando truffe e tradimenti, nonché torture di ogni genere per ottenere informazioni e gloriandosi di aver riunito un’unità speciale di polizia (oggi sarebbero definiti “independent contractors”) i cui membri erano persone con ben definite tendenze sadiche e anelito di prevaricazione. Non gli bastò guadagnarsi fama di ottimo poliziotto – o di assassino del regime – capace di stanare membri della resistenza ed ebrei ovunque si nascondessero. Decise invece, quando da Roma si trasferì a Milano per compiti di Polizia presso la Repubblica Sociale Italiana (RSI) di avere abbastanza potere e protezione da poter ordinare ai suoi uomini di sorvegliare alcuni tra i più alti membri del Regime di Salò. Il risultato fu che finì agli arresti lui stesso, arrestato dai reparti della Brigata Ettore Muti. Fu liberato dai militi della RSI prima della liberazione. Scappò a Firenze, si tinse i capelli di biondo e si tagliò i baffetti. Non é chiaro come pensasse di sfuggire alla giustizia, visto che era uno degli uomini più ricercati d’Italia ma il giorno in cui scoprì che la sua fidanzata era stata arrestata e perfino sua madre era stata portata in questura, si costituì presso un posto di polizia. Forse riteneva che avrebbero usato i suoi stessi metodi di interrogatorio sulle uniche persone che potevano rimanergli vicino. Forse si sentì toccato nel suo orgoglio. Venne comunque passato come l’unico gesto umano in una vita spogliata da pietà ed empatia. Aveva ventisette anni quando si aggiustò la piega dei pantaloni, seduto sulla seggiola di paglia di Forte Bravetta.

Fu uno dei fondatori della psicoanalisi umanistica e della psicologia sociale, Eric Fromm, a menzionare per primo l’esistenza di una forma di narcisismo estrema chiamato Malignant Narcisissism. Le teorie di Fromm furono riprese da alcuni studiosi tedeschi, in particolare Otto Kernberg, il quale vide nel “Narcisismo Maligno” una forma di narcisismo in cui le caratteristiche principali erano la tendenza all’aggressione, al sadismo, oltre ad un pompato e grandioso senso di sé e delle proprie capacità.

Secondo i criminologi americani George Palermo e Richard Kocsis, Kernberg riscontrava al centro della sovrapposizione delle caratteristiche di tre disturbi della personalità (Borderline, Antisociale, Narcisistico) il narcisismo maligno che é parte del gruppo di disturbi che secondo il criminologo canadese Robert Hare definisce come Sindrome (cioè un raggruppamento, o “cluster”, di patologie del comportamento) Psicopatica.

Come la psicopatia (o sindrome psicopatica stessa), non é solo appannaggio di criminali particolarmente feroci, così non lo é il narcisismo maligno. Possono esserci varianti di espressione di queste pulsioni, atte a placare l’ansia dovuta alla mancanza imposizione del proprio ego su persone e situazioni, o quando tale imposizione viene posta sotto sfida.

Lo psicopatologo inglese Simon Baron-Cohen, presenta pressapoco la stessa immagine di Kernberg, aggiungendovi la sua teoria sul grado zero dell’empatia. Mentre le forme più lievi si avvicinano al segno positivo, il grado zero negativo, che si trova all’intersezione dei tre disturbi della personalità citati da Kernberg, corrisponde al Narcisismo Maligno di Kernberg.

Sovrapponendo i due schemi triadici, vediamo che la forma più grave di psicopatologia si trova all’interazione delle tre sfere, anche se Baron-Cohen preferisce parlare direttamente di psicopatia (Grado Zero dell’Empatia di Tipo P) invece che di Disturbo Antisociale della Personalità.

Baron-Kohen insiste su livelli sempre più bassi di empatia fino allo zero, addirittura uno zero negativo. L’assoluta mancanza di empatia, cioè la capacità di immedesimarsi nei dolori e nelle pene di un’altra persona, oltre che di provare simpatia e compassione, parrebbe scoperchiare un “vaso di pandora” di comportamenti patologici che rimangono ancorati al proprio sé, producendo una visione sproporzionata dell’importanza di se stessi, e di una incapacità di concepire gli altri se non come mezzi per per consolidare tale narcisismo attraverso un controllo sulle situazioni, un controllo diretto degli altri, che siano vittime o che siano il pubblico che dimostra segni di ammirazione.

disturbo borderline

Spesso però, ciò di cui queste persone sentono il bisogno, non può essere ottenuto con mezzi normali. Talora queste urgenze crescono con l’affinamento di quei mezzi che la persona narcisista e senza empatia usa per irrobustire e ingigantire il proprio ego: manipolazioni di situazioni e persone per il proprio tornaconto, azioni rischiose per la necessità di una “maggior gloria”, azioni aggressive e prevaricatore a tutti i livelli (verbale, situazionale, fisico). Ma queste persone soffrono di un’ansia insostenibile se le loro necessità non vengono appagate. Le urgenze menzionate precedentemente sono le forme della loro ansia. E di quell’ansia non hanno controllo.

Se poi accade che certe contingenze storiche arrivino addirittura a richiedere e ricompensare le loro attitudini comportamentali (Menghele, Koch, Skilling), teoricamente non vi é più limite ai danni che costoro possono produrre.

Solo teoricamente, però. Spesso la loro mancanza di controllo sul proprio narcisismo, sul desiderio di potere sugli altri porta al suo interno un meccanismo di autodistruzione. Skilling non controlla più, alla fine, né azienda ne capitali. Koch, pensando di potersi permettere di mettere sotto controllo gerarchi fascisti potenti come Farinacci – fu addirittura sospettato che avesse messo sotto controllo Mussolini stesso – lo porterà all’galera e allo scioglimento della sua banda da parte delle autorità di cui faceva parte. Dennis Rader continuerà a sentire la necessità di un pubblico – che lui considerava sue marionette – che riuscirà ad incastrarlo per sempre. La necessità di continuare a uccidere e torturare, a lasciare una traccia infinita di morti e aggressioni porterà in galera (braccio della morte) Styner e Ramirez. Le manie di grandezza da principe del foro di Ted Bundy, insieme con la sua incapacità di trattare le testimoni della sua mattanza come testimoni ma ancora come prede da dominare per il suo piacere, lo faranno terminare sulla sedia elettrica.

Le leggerezze sul film autobiografico e gli incontri con la bella attrice messicana porteranno El Chapo Guzman nuovamente in galera, nonostante il suo esercito di sgherri. E in quanto a Menghele, dovette continuare la sua esistenza in Sud-America perennemente braccato e impaurito di finire impiccato in Israele o condannato a morte in vari altri paesi. Perrone invece di orchestrare una fuga lontano dai suoi luoghi – dove aveva tanti ammiratori – decise semplicemente di tornare a casa sua, con scherno e spregio delle forze di polizia che gli sembrò di poter gabbare a suo piacimento.

Non si vuole fare il paragone tra il fato, spesso relativamente benigno di questi soggetti rispetto a quello tremendo delle loro vittime. L’esame riguarda il fatto che costoro quasi sempre portano dentro di loro un destino di auto-cancellazione. Il “Malignant Narcissism”, il grado zero di empatia diventando ingovernabili li annichila. Solo coloro che si muovono altrove, in culture societarie in cui la loro pericolosità non viene riconosciuta o addirittura scambiata per audacia, intelligenza superiore, ambizione, tendenza creativa a non seguire le regole o sacro fuoco di una qualche fede.
Ma questo, é un altro discorso.narcisismo maligno

guidovalobra

di Guido Valobra De Giovanni

Scrivi a Igor Vitale