social cognition definizione

Social Cognition: un riassunto di psicologia

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COGNIZIONE SOCIALE

Come affermò Aristotele noi siamo per natura animali sociali. Abbiamo bisogno degli altri per il nostro benessere materiale e anche emotivo. Inoltre non solo sentiamo la motivazione a stare in compagnia degli altri, ma anche ad averne l’approvazione e ciò ha un’influenza enorme sul modo di pensare e agire.

La psicologia sociale è quella branca della psicologia che ha come specifico oggetto d’indagine l’influenza esercitata dalle altre persone su pensiero e sul comportamento del singolo individuo. Un punto messo in luce dalla psicologia sociale è che i nostri pensieri e le nostre percezioni riguardo gli altri, noi stessi e la società nel suo complesso non necessariamente riflettono la realtà con esattezza ma ci aiutano a crearla. Le nostre azioni che producono effetti reali sul mondo, sono guidate dalle convinzioni che ci siamo formati in merito agli altri e a noi stessi, veritiere o meno che siano. In quest’ottica uno dei contributi più rilevanti che la psicologia può dare al benessere dell’ umanità è individuare i processi e le distorsioni sistematiche sottostanti alle convinzioni sociali. Lo studio specifico di questi processi e di queste distorsioni prende il nome di COGNIZIONE SOCIALE.

SOLOMON ASCH

50 anni fa propose una teoria della percezione che si rifaceva ai principi individuati dalla Gestalt per la percezione degli oggetti. L’autore sostenne che ci serviamo di qualsiasi informazione, anche minima, per costruirci un’immagine mentale della persona nella sua interezza. Nella moderna psicologia cognitivista si parla di schema della persona, il quale può essere solo un abbozzo tratteggiato a grandi linee oppure una rappresentazione dettagliata. I processi coinvolti nella percezione delle persone sono gli stessi di quelli per la percezione di oggetti. Processi dal basso verso l’alto e processi dall’alto verso il basso. Nella percezione delle persone, come in quella degli oggetti, i processi dall’alto verso il basso possono dare vita a illusioni percettive. Infatti le prime informazioni che riceviamo su una persona tendono a pesare sulla nostra valutazione più di quelli che accumuliamo in seguito. Tale fenomeno viene definito effetto di priorità. L’esistenza di tale fenomeno suggerisce che la costruzione dello schema mentale relativo a una certa persona sia immediata, a partire dalle prime informazioni disponibili, dopo di che lo schema viene utilizzato per interpretare ogni successiva informazione. Alcune caratteristiche di una persona sono immediatamente evidenti, ancor prima che abbia detto o fatto qualcosa. Ci riferiamo a tratti somatici del viso e al modo di vestire. Queste caratteristiche esteriori di una persona possono influenzare lo schema iniziale che un altro si forma a suo riguardo, e in base al quale interpreta poi ogni successiva informazione di cui viene a conoscenza.  Ovviamente i giudizi che formuliamo sulle altre persone si basano anche su ciò che esse fanno. Nel campo della cognizione sociale, l’Attribuzione è il processo con cui si ascrive il comportamento di una persona a una causa specifica, e al tempo stesso è la causa cui viene ascritto un determinato comportamento.

FRITZ HEIDER

È stato il primo a compiere ricerche sull’attribuzione. Secondo l’autore le persone possono essere considerate alla stregua di psicologi ingenui che fin troppo spesso tendono a spiegare il comportamento delle persone attribuendolo a qualche costante caratteristica interna e non esterna. Tale tendenza viene definita “errore fondamentale di attribuzione”. Tale errore è molto meno frequente quando le persone fanno attribuzioni sui propri comportamenti anziché su quelli altrui, una differenza che viene definita “discrepanza attore/osservatore”.

HAROLD KELLY

Ha sviluppato una teoria sul procedimento logico attraverso il quale si giunge a un’attribuzione. Secondo l’autore la nostra decisione di attribuire un comportamento osservato a cause interne o esterne, dipende dalla risposta che diamo a 3 domande:

-questa persona si comporta così ogni volta che si trova in questa situazione?(costanza)

-anche gli altri si comporterebbero così nella stessa situazione?(consenso)

-questa persona si comporta così anche in altre situazioni?(generalizzazione).

Secondo Gilbert questo errore dipende da un processo mentale automatico, un processo rapido e inconscio non soggetto al controllo volontario. Egli distingue due classi di processi mentali: automatici e controllati. I primi sono rapidi, inconsci e non soggetti a controllo volontario; i secondi sono invece lenti, consci e deliberati. L’ipotesi di G., che potremmo definire teoria dell’automaticità, è che l’attribuzione alle caratteristiche intrinseche di una persona sia un processo automatico, mentre le attribuzioni alle situazioni esterne siano, al confronto, più controllate.
Secondo la teoria della norma culturale, invece, il verificarsi o meno dell’errore di attribuzione dipende dal contesto socio culturale nel quale è cresciuta la persona che deve sviluppare un processo di attribuzione.

PREGIUDIZIO

Nella sua accezione più vasta il termine pregiudizio si riferisce a qualsiasi influenza che i nostri preconcetti possono avere sulla valutazione di persone oggetti o eventi specifici. Tuttavia nel suo uso più comune e restrittivo la parola indica tutte le opinioni negative che numerose persone nutrono sugli appartenenti a certi gruppi sociali. Il pregiudizio così inteso, costituisce un enorme problema sociale in tutti i paesi del mondo.

Spesso l’atteggiamento di pregiudizio è particolarmente evidente rispetto a persone che appartengono a una particolare classe sociale, gruppo, categoria ed è caratterizzato da tre fattori: cognitivo, affettivo, comportamentale. Le ricerche sostengono che la nascita del pregiudizio possa datarsi già all’età infantile, a opera principalmente dei modelli genitoriali. Alcuni studi, condotti dalla scuola di Francoforte e in particolare dal filosofo Theodor Adorno, identificano tuttavia l’esistenza di un tipo di personalità predisposta al pregiudizio: la personalità autoritaria. Tale personalità si caratterizza per una certa rigidità mentale. Secondo alcuni sociologi nordamericani, la causa di ogni forma di pregiudizio è da ritrovarsi in fattori sociali quali il diffuso senso di disagio e l’isolamento in cui l’uomo contemporaneo si trova spesso a vivere. Secondo questi autori il disagio sociale, insopportabile per il singolo, innesca un meccanismo proiettivo per cui le minoranze funzionano da capo espiatorio dell’insoddisfazione e del senso di colpa.

Il pregiudizio può manifestarsi in qualunque momento della vita e cambiare in continuazione a seconda delle circostanze in cui si trova l’individuo. Esso si mantiene nel tempo se ci sono meccanismi che lo sostengono. I fattori che alimentano la tendenza al pregiudizio sono la presenza di valori comuni, l’appartenenza a un gruppo e gli stereotipi. I fattori che invece scoraggiano atteggiamenti pregiudiziali sono riassumibili in quella che è stata denominata l’ipotesi del contatto.

Tra le posizioni teoriche relative alla determinazione delle cause del pregiudizio, la prospettiva di studi di stampo cognitivista vede in esso una semplificazione delle visioni del mondo che finisce per ridurle a un dualismo fra ciò che è consueto e ciò che è diverso. Questa prospettiva di tipo cognitivo si trova in contrapposizione con quella di tipo psicodinamico. La teoria psicodinamico individua proprio nella paura e nel desiderio di stima i fattori determinanti la formazione del pregiudizio. In questo caso si potrebbe parlare del pregiudizio come sintomo, manifestazione di una particolare personalità, a sua volta prodotto da una determinata storia familiare. Lo psicologo statunitense Dollard ritiene che, più la frustrazione colpisce l’individuo nel tentativo di soddisfare i propri bisogni fondamentali, tanto più forte è la risposta aggressiva e, quindi, l’intensità del pregiudizio. A sostegno di questa teoria l’autore fa notare che aggressività e pregiudizio sono quasi sempre più violenti e diffusi nei periodi di depressione economica, quando le frustrazioni aumentano. Oggi tale teoria è ormai superata.

RIDUZIONE DEL PREGIUDIZIO

Nell’ambito della psicologia sociale molti ricercatori  si sono concentrati nello specifico allo studio del pregiudizio e della sua riduzione. Il pregiudizio è un fenomeno essenzialmente intergruppo. Nella sua accezione classica viene definito come un atteggiamento negativo ingiustificato verso qualcuno, che si fonda unicamente sull’appartenenza del medesimo individuo a un particolare gruppo. I fenomeni psichici ad esso associati sono dunque di natura differente, cognitiva ed emotiva e richiamano in causa l’identificazione e l’appartenenza ai gruppi sociali.

La ricerca sulla riduzione del pregiudizio si è sviluppata a partire dall’idea che il contatto tra membri di gruppi differenti sia alla base di ogni serio tentativo di migliorare le relazioni intergruppo. A questo scopo è essenziale la formulazione dell’ipotesi di contatto di ALLPORT. L’autore dichiarò che la riduzione del pregiudizio avviene quando i membri di gruppi diversi si incontrano a determinate condizioni. Tali condizioni permettono lo sviluppo di relazioni personali con i membri dell’autgroup. Numerose ricerche hanno dimostrato la validità di questa ipotesi in campioni di diversa età e cultura.

Negli anni 90 del 900 la ricerca sul pregiudizio si è concentrata sull’identificazione dei fattori in presenza dei quali l’influenza positiva del concetto sul pregiudizio risulta massimizzata. In altri termini la ricerca si è focalizzata sui fattori che moderano questa relazione. Nello specifico sono stati proposti 3 modelli di contatto:

BREW e MILLER modello della decategorizzazione

La situazione di contatto dovrebbe essere strutturata in modo da ridurre la salienza delle categorie sociali disponibili e aumentare la probabilità di un modo più interpersonale di pensare e agire

GAERTNER e COLL modello della ricategorizzazione

Le situazioni di contatto sono proficue quando gli attuali ingroup e autgroup possono essere facilmente ricategorizzati in una più grande entità sovraordinata.

HEWSTONE e BROWN modello della saliera

Gli autori sostengono che ci possono essere dei vantaggi per superare il pregiudizio mantenendo una chiara distinzione tra i gruppi. Una condizione necessaria affinché il contatto abbia degli effetti sulla riduzione del pregiudizio, è che i membri del gruppo mantengono un’importanza psicologica verso il proprio gruppo di appartenenza.

STEREOTIPO

Tutti noi abbiamo nella nostra mente anche schemi riguardanti particolari gruppi di persone. Gli schemi di questo genere vengono definiti stereotipi.

WALTER LIPPMANN

Fu il primo ad utilizzare il termine stereotipo con tale accezione. Infatti l’autore definì lo stereotipo come la raffigurazione mentale che un individuo ha di un particolare gruppo o di una categoria di persone. Lippmann mise in rilievo che gli stereotipi hanno il potere di distorcere la nostra percezione delle singole persone e in questo modo possono contribuire all’insorgenza di pregiudizi. Le idee di Lippmann hanno ricevuto numerose conferme attraverso prove raccolte sia con esperimenti di laboratorio sia con osservazioni sul campo. Al fondo di stereotipi e pregiudizi sta la tendenza a sviluppare schemi mentali relativi a interi gruppi di persone. Inoltre lo schema relativo al gruppo interno si sviluppa su criteri sistematicamente differenti dallo schema per un gruppo esterno. Risultati di ricerche indicano che gli stereotipi si trasmettono fin dalle prime forme di socializzazione, e soprattutto attraverso il linguaggio. Una volta appreso lo stereotipo è protetto da una serie di processi cognitivi, comportamentali e linguistici che rendono resistente al cambiamento, sebbene elementi nuovi possono disconfermarlo. Alcuni dei processi che possono perseverare gli stereotipi sono:

-selezione delle informazioni

-attribuzione causale

-profezia che si autoavvera

Sebbene molti stereotipi siano radicati nel senso comune, non sarebbe corretto pensare che siano immutabili. Il contatto diretto tra due gruppi, infatti, specie se avviene in situazioni di uguale status, può facilitare la conoscenza reciproca e la percezione di interessi comuni.

PERCEZIONE E PRESENTAZIONE DI SE

Da lungo tempo i filosofi e gli psicologi sostengono che la coscienza di sé sia un segno distintivo della nostra specie. Una delle linee di prova più certe, per dimostrare questa differenza tra le specie, emerge dalle ricerche condotte con l’uso di specchi. Molti psicologi e sociologi hanno arguito che il concetto di sé sia sempre un prodotto della vita sociale. Per acquisire la consapevolezza di noi stessi quali singole persone, è necessario che prima diventiamo consapevoli dell’esistenza degli altri.

CHARLS COOLEY

Coniò il termine Sé Riflesso per significare che apprendiamo a conoscerci osservando gli altri intorno a noi. . il mondo sociale è lo specchio in cui vediamo riflessi noi stessi. Lo specchio ci rimanda la nostra immagine, attraverso le reazioni degli altri a tutto ciò che facciamo, mentre noi usiamo la percezione delle caratteristiche e delle abilità altrui come metro per misurare le nostre. In certa misura noi siamo ciò che gli altri si aspettano o presumono che siamo. Tali convinzioni condizionano il comportamento che gli altri tengono nei nostri confronti, il che a sua volta, condiziona il nostro comportamento e il concetto che noi abbiamo di noi stessi.

WILLIAM JANES

Molti anni fa l’autore sostenne che ogni persona non ha un sé soltanto ma molti sé, uno per ognuna delle relazioni che la legano a persone o a gruppi di persone differenti. Da varie ricerche emerge che le persone forniscono una diversa descrizione di sé quando uno dei loro ruoli sociali è mentalmente attivato e un altro nò. Questi risultati hanno indotto a concepire modelli a rete del concetto di sé, in cui alcuni dei tratti che la persona percepisce come suoi sono specificatamente legati a certi ruoli (i nodi della rete) mentre altri sono associati a molti ruoli, o a tutti e fungono da connessione tra nodi diversi.

Benché il concetto che noi abbiamo di noi stressi venga delineato per noi, in certa misura, dalle aspettative altrui e dai valori generali della cultura a cui apparteniamo, non siamo spettatori passivi di questa costruzione. Anzi prendiamo parte attiva al processo: usiamo come modelli gli abbozzi che l’ambiente sociale ci prefigura, ma operiamo tra questi una scelta e li modifichiamo per adattarli ai bisogni e alle conoscenze squisitamente nostri..

Per conoscere noi stessi, per individuare le caratteristiche che ci contraddistinguono e misurare le nostre abilità, ci confrontiamo continuamente con gli altri, un processo chiamato Comparazione Sociale. Una conseguenza diretta della comparazione sociale è che il concetto di sé varia a seconda del gruppo di riferimento con cui si opera il confronto. Ci confrontiamo con gli altri non solo per poterci identificare o descrivere, ma anche per valutarci.

Siamo consci del fatto che le altre persone si formano impressioni su di noi, esattamente come noi le formiamo su di loro e ci preoccupiamo della qualità di tali impressioni. Perciò controlliamo il nostro comportamento in modo da influenzare in senso positivo ciò che le persone pensano di noi. Gli psicologi sociali usano il termine Gestione Delle Impressioni Altrui proprio per indicare l’insieme delle modalità con cui le persone cercano di influenzare le impressioni che gli altri si formano su di loro.

ERVING GOFFMAN

È stato uno dei primi sociologi ad indagare su questo fenomeno. Ha rappresentato gli esseri umani come attori che recitano in momenti diversi, su palcoscenici diversi, davanti a un pubblico sempre diverso, una parte ogni volta sempre differente e cercano di convincere gli spettatori di essere il personaggio che stanno interpretando. Sebbene utile l’analogia con il teatro è fuorviante. Infatti il modificarsi del nostro comportamento al variare del contesto non è soltanto una finzione teatrale, ma l’espressione di aspetti particolari del nostro vero sé.

Lo scopo ultimo della gestione delle impressioni altrui è offrire agli altri una buona immagine di noi stessi. Gli psicologi hanno individuato due motivazioni distinte:

-la prima consiste nel desiderio di indurre gli altri a dispensarci favori e ricompense

-la seconda sta nel rafforzamento della nostra autostima.

WILLIAM SWANN

Ha sostenuto che le persone cercano di governare le impressioni altrui non soltanto al fine di proiettare una buona immagine di se stesse, ma anche per trovare conferme all’opinione che nutrono su di sé, buona o cattiva che sia.

ATTEGGIAMENTI

Un atteggiamento è qualsiasi opinione personale che sottintenda un giudizio di valore, ovvero la convinzione che una certe cosa sia buona o cattiva, bella o brutta ecc. Gli atteggiamenti esprimono emozioni positive o negative nei confronti di particolari oggetti, eventi, idee o persone. Tali atteggiamenti sono un punto chiave della cognizione sociale perchè costituiscono l’anello di congiunzione tra l’individuo e la società nel suo complesso. Da un lato sono il frutto delle influenze ambientali, e dall’altro guidano il comportamento in quell’ambiente. Alcuni teorici ritengono che gli atteggiamenti assolvano a 4 tipi di funzioni:

  1. Utilitaria
  2. Difensiva
  3. Di Adattamento Sociale
  4. Di Espressione Dei Valori

Queste diverse funzioni non si escludono a vicenda. I due processi per la costruzione degli atteggiamenti sono gli stessi che la mente segue per l’elaborazione dell’informazione. Il Percorso Centrale e il Percorso Periferico. Nel primo sono coinvolte le associazioni semplici e le risposte condizionate per cui il mero abbinamento di un oggetto o di un’idea o un evento positivo o negativo, porta allo sviluppo di un atteggiamento positivo o negativo verso quell’oggetto o quell’idea. Il percorso periferico invece, oltre alla semplice associazione, può coinvolgere anche regole decisionali dette anche euristiche. Una volta raggiunta la mente un atteggiamento va ad unirsi a tutti gli altri atteggiamenti, credenze e frammenti di conoscenza che formano, nel complesso, la mente di una persona. Cosa succede quando gli elementi sono contraddittori?

LEON FESTINGER

La dissonanza cognitiva. La consapevolezza della contraddittorietà fra due o più contenuti della mente può dare origine ad una sensazione di disagio. Tale fenomeno è noto anche come dissonanza cognitiva, termine coniato da Festinger che, con la sua teoria della dissonanza, sostiene che le persone tendono ad evitare o alleviare questo disagio, comportandosi in maniera tale da ridurre la disarmonia (dissonanza) o da mantenere l’armonia (assonanza) fra i loro diversi atteggiamenti, convinzioni e conoscenze. Un modo per evitare che si crei dissonanza è evitare le situazioni in cui potremmo scoprire fatti o idee che contrastano con le nostre attuali opinioni.La teoria della dissonanza cognitiva spiega:

-Perché le persone si sentono più sicure di una loro scelta subito dopo averla fatta, anziché prima di agire. La maggior parte delle scelte che compiamo si basa su certezze tutt’altro che assolute. Dopo che una determinata nostra scelta è divenuta irrevocabile ogni eventuale dubbio che ancora persistesse sarebbe dissonante con la consapevolezza dell’azione compiuta, per cui, in base alla teoria di F., dovremmo essere motivati a lasciar cadere ogni dubbio. Pertanto, dopo che hanno compiuto una data azione, le persone tendono ad essere molto più sicure di ciò che hanno fatto, sicurezza che è indipendente dall’eventuale acquisizioni di nuove informazioni.

-Perché quando compiono un’azione con un proprio atteggiamento le persone tendono poi a modificarlo. A volte una persona mette in atto un comportamento che contrasta col suo atteggiamento su un determinato oggetto, quindi si trova a dovere risolvere la dissonanza fra due dati di cui è pienamente consapevole. Dal momento che è impossibile cancellare ciò che ormai ha fatto, quella persona può modificare il proprio atteggiamento, così da eliminare la dissonanza.

Analogamente, un atteggiamento può essere modificato in virtù dell’effetto della giustificazione insufficiente, vale a dire la modificazione di un atteggiamento in seguito al fatto che, senza questo cambiamento, il soggetto non sarebbe in grado di giustificare un’azione compiuta. Si ritiene che affinché l’effetto della giustificazione insufficiente si verifichi, è necessario che la persona non abbia alcun incentivo forte per compiere l’azione contraria al proprio atteggiamento, oppure che la persona consideri la propria azione come il frutto di una libera scelta. Altre ricerche hanno dimostrato che l’effetto della giustificazione insufficiente è più forte quando l’azione da giustificare, oltre a contrastare con l’atteggiamento originale della persona, potrebbe rivelarsi dannosa nel caso che l’atteggiamento di partenza fosse stato corretto.
Altri esperimenti sembrano indicare che, in alcuni casi, questo effetto derivi, più dall’intenzione di controllare le impressioni altrui che dalla pulsione a mantenere la propria coerenza cognitiva. Quindi, in alcune situazioni, cambiare atteggiamento può servire a convincere gli altri, e noi stessi, che non c’è alcuna discrepanza fra le nostre convinzioni e il nostro comportamento.
Tutti gli studi sull’effetto della giustificazione insufficiente dimostrano che spesso gli atteggiamenti delle persone sono contraddetti dal loro comportamento.
Gli studiosi delle scienze sociali credevano che conoscendo gli atteggiamenti di una persona si potessero prevedere i comportamenti.

Alla luce della teoria dell’elaborazione delle informazioni, gli atteggiamenti sono elementi cognitivi immagazzinati nel deposito della memoria, e in quanto tali possono influenzare la decisione di mettere in atto un certo comportamento soltanto se, al momento di formulare la decisione, vengono recuperati dalla memoria. Secondo questa concezione, se nel momento in cui una persona deve agire sono presenti indizi tali da richiamarle alla mente i suoi atteggiamenti, ciò dovrebbe far aumentare la correlazione atteggiamento-comportamento. Fazio sostiene che la corrispondenza ottimale tra atteggiamento e comportamento si verifica quando l’atteggiamento si è formato in seguito ad esperienza diretta e ripetuta di un particolare oggetto, in quanto, in questo caso, ha il potere di evocare l’atteggiamento in maniera automatica.Tuttavia, secondo la teoria del comportamento pianificato (Ajzen), l’intenzione conscia di attuare un certo comportamento dipende;

  • Atteggiamento personale: definito come il desiderio dell’individuo di comportarsi o meno in un certo modo
  • La norma soggettiva: ovvero l’opinione che la persona si fa di ciò che altri, importanti per lui in quel frangente, penseranno della sua azione;
  • Autopercezione del controllo: ovvero la sensazione individuale di essere in grado di compiere quella determinata azione.

In base alle diverse situazioni, può predominare ora l’uno ora l’altro dei tre input che concorrono alla decisione comportamentale

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