Cos’è (veramente) la soddisfazione lavorativa

La soddisfazione lavorativa è un costrutto psicologico multidimensionale che si riferisce alle risposte di una persona al proprio lavoro, risposte che presentano componenti cognitive, affettive e comportamentali. La soddisfazione lavorativa dunque si riferisce agli stati cognitivi e affettivi che sono all’interno dell’individuo e che sono esprimibili attraverso i comportamenti e le emozioni.

La definizione su cui si registra un sostanziale accordo in letteratura (Price & Mueller, 1986, McCloskey 1990, Stamps, 1997) è quella di Locke (1967), il quale afferma che “la soddisfazione lavorativa è un sentimento di piacevolezza derivante dalla percezione che l’attività professionale svolta consente di soddisfare importanti valori personali connessi al lavoro”.

L’interesse per gli studi sul tema della soddisfazione lavorativa deriva da un lato dal movimento delle Human Relations di Elton Mayo (1933) che ha ipotizzato che i lavoratori più soddisfatti sono anche quelli che sono più motivati e che quindi saranno maggiormente disposti a fornire delle prestazioni quantitativamente e qualitativamente migliori; d’altra parte scaturisce dal movimento di misurazione degli atteggiamenti di Thurstone (1928), che si è preoccupato di operazionalizzare e di rendere quantificabili le variabili psicologiche, tra le quali anche la soddisfazione.

Il modello del Total Quality management considera la soddisfazione lavorativa una tra le variabili da presidiare con lo scopo di migliorare la qualità del prodotto e la soddisfazione del cliente finale. Se è presente la soddisfazione, infatti, è meno probabile che il lavoratore abbandoni l’organizzazione provocando dei costi per l’azienda; il lavoratore porrà maggiore attenzione al proprio cliente; il lavoratore realizzerà buone prestazioni e sarà propenso a proporre dei suggerimenti per il miglioramento dell’organizzazione.

person-110305_640

In letteratura viene attuata una distinzione tra i concetti di morale e di soddisfazione lavorativa. In particolare Locke (1976) sostiene che i motivi per cui la Job satisfaction differisce dal morale dei lavoratori siano due: per prima cosa la job satisfaction si riferisce ad un singolo individuo e al suo lavoro, mentre il morale si focalizza maggiormente su come un lavoratore fa riferimento ad un senso di scopo comune o di gruppo all’interno dell’organizzazione; in secondo luogo soddisfazione lavorativa è indirizzata prevalentemente alle situazioni passate e presenti, mentre il morale si riferisce ai sentimenti espressi in merito al futuro.

Una delle più conosciute teorie sulla job satisfaction è la teoria dei due fattori (intesi non in senso statistico) di Herzberg, Mausner e Snyderman, (1959) secondo cui i lavoratori hanno principalmente due tipi di bisogni: il bisogno di igiene e quello di motivazione. Il primo bisogno viene soddisfatto da determinate situazioni chiamate fattori di igiene, (come la supervisione, le relazioni interpersonali, le condizioni di lavoro fisiche, il salario, la sicurezza ecc.) che si riferisce al contesto nel quale il lavoro viene eseguito. A questo proposito la teoria suggerisce che l’insoddisfazione si manifesta in quei casi in cui i fattori di igiene non sono presenti nell’ambiente lavorativo (ad esempio quando i lavoratori percepiscono come non equo il proprio stipendio). La soddisfazione dei bisogni di igiene, tuttavia, non coincide con la job satisfaction ma solo con la riduzione o l’eliminazione dell’insoddisfazione. I bisogni di motivazione sono soddisfatti dai fattori motivazionali (come i fattori di successo, responsabilità, promozione ecc.) che sono legati alla natura e alle conseguenze del lavoro. Quando questi fattori sono assenti dal lavoro non ci sarà insoddisfazione ma lo stesso “stato neutrale” che è associato alla presenza dei fattori di igiene. La teoria, inoltre sostiene che, se i fattori motivazionali sono presenti e quelli di igiene assenti, il lavoratore sarà insoddisfatto. In quegli anni la teoria portò ad un enorme entusiasmo per i programmi di job enrichment che avrebbero permesso ai lavoratori di aspirare al raggiungimento di riconoscimenti, successo personale, sfide e la crescita individuale (attraverso la job rotation ad esempio). A partire dagli anni ’70 gli studi sono stati molto critici nei confronti della teoria di Herzberg, infatti è stato mostrato che entrambi i tipi di fattori potevano influenzare sia la soddisfazione che l’insoddisfazione (Wernimont, 1966). Tuttavia, ci furono alcuni ricercatori che si proposero di supportare e ampliare la teoria dei due fattori. Uno di questi è Knoop (1994) che ha individuato cinque fattori: 1) i valori intrinseci legati al lavoro (come l’esercizio della responsabilità); 2) i valori intrinseci legati ad esiti lavorativi (come il riconoscimento per il lavoro svolto bene); 3) i valori estrinseci legati al lavoro (come buone condizioni di lavoro); 4) i valori estrinseci legati alla persona (come la soddisfazione nei confronti del proprio superiore e dei propri colleghi). Relativamente all’ampliamento della teoria di Herzberg, i due fattori intrinseci si riferivano alle variabili di motivazione, mentre i tre fattori estrinseci riguardavano le variabili di igiene.

Prendendo come riferimento teorico Herzberg, Hackman e Oldaham (1980) hanno proposto il Job Characteristic Model, ovvero il modello delle caratteristiche del lavoro fondato sulla convinzione che il job design possa consentire all’organizzazione di raggiungere risultati efficaci e aumentare la motivazione e la soddisfazione dei lavoratori. Secondo questo modello le caratteristiche del lavoro (come l’autonomia, la varietà del compito, la significatività del compito, l’identità e il feedback) rappresentano delle importanti determinanti della motivazione al lavoro che sono riconducibili a tre importanti stati psicologici: 1) la significatività, ovvero la percezione da parte dell’individuo dell’importanza e del valore del suo lavoro; 2) la responsabilità dei risultati che la persona ha ottenuto nel proprio lavoro; 3) la consapevolezza dei risultati ottenuti nello svolgimento del lavoro; Secondo gli autori di questa teoria la presenza di tutti e tre gli stati psicologici stimola nell’individuo una forza motivazionale che lo spinge ad impegnarsi nella propria attività con maggiore consapevolezza e soddisfazione. Lo sviluppo degli stati psicologici è, dunque, favorito dalla presenza all’interno del lavoro di cinque caratteristiche principali, che possono avere delle implicazioni sul benessere e sulla soddisfazione dei lavoratori, influenzando molto probabilmente il grado di motivazione e il comportamento organizzativo.

Tre delle cinque caratteristiche del lavoro contribuiscono più specificatamente alle esperienze di significatività psicologica di un lavoro. Queste tre caratteristiche sono:

  • La varietà del compito, cioè il grado in cui un determinato lavoro richiede di svolgere più attività, che richiedono l’utilizzo di diverse abilità e capacità della persona. Questa nozione rientra in quella parte del job design definita job enlargement, secondo cui i lavori che richiedono lo svolgimento di diverse attività sono molto probabilmente più interessanti e più piacevoli da svolgere;
  • L’identità del compito, che si riferisce al grado in cui il lavoro richiede di completare un’intera parte di esso, cioè di svolgere un compito dall’inizio alla fine, che può risultare più stimolante e interessante rispetto ad una lavoro che richiede di svolgere soltanto alcune parti di un compito;
  • La significatività del compito, relativa al grado in cui una determinata mansione influenza il lavoro o la vita delle altre persone che si trovano all’interno dell’organizzazione stessa o all’interno dell’ambiente esterno;

La caratteristica del lavoro che promuove le esperienze di responsabilità dei risultati di un’attività è l’autonomia della persona, che riflette il grado in cui il lavoro fornisce una concreta libertà e indipendenza individuale nella programmazione del lavoro, nella definizione delle procedure da adottare e dei metodi per svolgerlo. Quando un lavoro è fortemente autonomo, è probabile che il lavoratore percepisca che i risultati dipendono dai propri sforzi e che quindi si senta responsabile del successo o del fallimento del proprio lavoro.

Il feedback proveniente dal lavoro rappresenta l’ultima caratteristica che permette la conoscenza dei risultati lavorativi e che quindi riflette il grado in cui un lavoro fornisce alla persona delle chiare informazioni sull’efficacia della prestazione lavorativa.

Lawler (1973) ha proposto la teoria del Facet Satisfaction Model, il cui nome deriva dal fatto che è intesa per descrivere i processi attraverso i quali la soddisfazione verso qualche componente individuale del lavoro, o aspetto, è determinata. Questo modello prevede un confronto tra le percezioni che il lavoratore crede di ricevere in merito agli esiti lavorativi come la paga, riconoscimenti e promozioni, e la percezione degli esiti che effettivamente riceve. Le percezioni di quello che dovrebbe ricevere dipendono dalle percezioni delle entrate che il lavoratore apporta al lavoro (come capacità, esperienza), dalle percezioni delle caratteristiche del lavoro (come responsabilità e difficoltà) e infine dalle percezioni degli entrate e degli esiti degli altri. Le percezioni degli esiti effettivi dipendono certamente dagli esiti stessi, allo stesso modo delle percezioni degli esiti degli altri o comunque di persone che svolgono lavori simili e con cui il lavoratore confronta se stesso. Il facet model è un modello fortemente cognitivo che riflette il modo di reagire delle persone alle percezioni della realtà piuttosto che alla realtà stessa. Secondo questa teoria l’unica condizione desiderabile o soddisfacente è quella in cui il processo di confronto input-output indica uguaglianza, ovvero quando le percezioni di quello che si dovrebbe ricevere bilanciano ciò che effettivamente si riceve. Se il lavoratore percepisce di ricevere meno di quello che gli è dovuto ne risulta una certa insoddisfazione nei confronti del lavoro. Se invece il lavoratore percepisce di ricevere più di quello che si merita, è possibile che possa provare de sentimenti spiacevoli di iniquità e un sentimento di colpevolezza. Il fatto di percepire di essere pagati più del dovuto è uno degli aspetti più controversi della teoria della soddisfazione di Lawler. Tuttavia un modo per ridurre il senso di colpevolezza potrebbe essere quello di lavorare più duramente in modo tale da aumentare le entrate.

L’Affective Events Theory di Weiss e Cropanzano (1996) è un modello che si serve dell’utilizzo di metodi di indagine qualitativa per evidenziare l’influenza che le emozioni legate agli eventi quotidiani hanno sul senso di soddisfazione e di insoddisfazione. In particolare questa teoria sottolinea come gli eventi negativi abbiano un effetto sulle emozioni notevolmente superiore rispetto agli eventi positivi producendo uno stato di insoddisfazione che è all’origine dei comportamenti controproducenti con i quali un dipendente danneggia l’organizzazione (sabotaggi, furti, aggressività verso i colleghi ecc.).

Un’altra teoria sulla soddisfazione lavorativa molto conosciuta è la teoria disposizionale secondo la quale le persone hanno delle disposizioni innate che permettono loro di avere un certo grado di soddisfazione in generale, senza riferirsi specificatamente alla soddisfazione lavorativa. In un secondo momento questo approccio divenne famoso per aver messo in evidenza che la soddisfazione lavorativa (Staw & Ross, 1985) tende ad essere stabile nel tempo indipendentemente dal cambiamento della mansione lavorativa svolta e del contesto lavorativo. Un modello che si avvicina all’ambito della teoria disposizionale è il Core Self Evaluation Model proposto da Judge, Locke e Durham (1997), secondo cui ci sono quattro principali valutazioni di sé che determinano la disposizione di una persona nei confronti della soddisfazione lavorativa: l’autostima, l’autoefficacia personale, il locus of control e il nevroticismo. Questo modello afferma che alti livelli di autostima (il valore che una persona ripone in sé stessa) e di autoefficacia generale (la credenza nella propria competenza) portano ad alti livelli di job satisfaction. Inoltre avere un locus of control interno (cioè la credenza di avere il controllo sulla propria vita, piuttosto che credere che siano forze esterne ad avere il controllo su di essa) porta ad un’elevata soddisfazione verso il lavoro. Infine bassi livelli di nevroticismo portano ad un alto grado di job satisfaction.

Avallone (1997) afferma che le principali componenti della soddisfazione lavorativa sono riconducibili a tre dimensioni: 1) i valori personali connessi al lavoro; 2) l’importanza attribuita al lavoro; 3) la percezione del lavoro.

Le cause dell’insoddisfazione lavorativa possono essere diverse. Una prima fonte di insoddisfazione può essere legata al contenuto del lavoro, alla natura del compito, alle sue concrete modalità di svolgimento e all’ambiente fisico in cui esso si svolge. Un secondo motivo di insoddisfazione può essere riferito all’ambiente sociale all’interno del quale il lavoratore opera e alla dinamica dei ruoli organizzativi. Infine, una terza categoria di fonti di insoddisfazione è legata a variabili riconducibili alle differenze individuali (Avallone 1997).

La figura professionale che si occupa di soddisfazione lavorativa è lo psicologo del lavoro

Igor Vitale 3295997585 – igor@igorvitale.org

Scrivi a Igor Vitale