Psicologia Criminale: Usura e Riciclaggio

Articolo di Simona Di Lucia

Le speculazioni e i raggiri commessi dalle organizzazioni criminali nazionali ed internazionali attecchiscono sui territori, allorquando trovano un “terreno fertile” per il proprio sviluppo e la propria crescita, talvolta rafforzando il proprio “status quo” ed implementandosi nei periodi di crisi economica e di povertà. Tra i reati più difficili da contrastare ad opera delle intelligence e delle polizie nazionali e mondiali, rientrano, senza ombra di dubbio, il riciclaggio e l’usura. Questi due crimini non agiscono in superficie, ragion per cui si annidano negli interstizi più reconditi della finanza e dell’economia; inoltre, tali reati trovano molto spesso delle “sponde favorevoli” alla propria diffusione, anche, e soprattutto, nei settori politici, economici e finanziari, in apparenza ‹‹puliti››. In tal modo possono estendersi e ramificarsi nelle società contemporanee in maniera molto più sottile e letale. I white collar crime sono più pericolosi dei “crimini di strada”, perché la criminalità delle classi dirigenti crea un numero di vittime elevato (es. il crack della Parmalat).

Quando si parla di riciclaggio, si fa riferimento ad una catena di iniziative a carattere illecito, atte a creare dei canali di occultamento e mascheramento su fondi, beni o utilità di provenienza illegale, che aggirino i controlli economici e giudiziari da parte delle pubbliche autorità.

Il “denaro sporco” e qualsivoglia attività di “riciclaggio di moneta” costituiscono la conseguenza di operazioni economiche e finanziarie e di commerci illegali, come la droga, la prostituzione e le frodi, i cui proventi devono risultare “immacolati” attraverso procedimenti tanto ingegnosi quanto ingannevoli, che devono servire a cancellare le “tracce” di ogni origine delittuosa. Il reato di frode costituisce una delle fonti più cospicue in tema di riciclaggio. Per contrastare le frodi, l’Unione Europea ha cercato di dotarsi all’occorrenza di opportuni strumenti. Il programma europeo “Hercule III 2014-2020“ risulta uno dei mezzi più efficaci nella prospettiva antifrode.  Obiettivo del programma è la prevenzione ed il contrasto ai reati di frode, corruzione e ogni altra attività illecita lesiva degli interessi finanziari dell’Unione. I paesi partecipanti sono gli Stati membri, gli Stati in via di adesione, i paesi candidati o potenziali candidati, i paesi partner della politica di vicinato e i paesi dell’EFTA che sono parte dell’accordo SEE.[1]

Nel novero dei reati combattuti dal programma europeo “Hercule III 2014-2020” rientra naturalmente l’usura che risulta strettamente connessa al reato di riciclaggio. Il reato di usura è l’interesse eccessivo che viene a costituirsi sul denaro prestato e che si spinge oltre la soglia legale o corrente. La relazione tra usura e riciclaggio può sorgere dai vantaggi derivanti da economie esterne che l’usura fornisce all’organizzazione criminale nell’ambito del controllo e della gestione del territorio. L’usura derivante da attività di riciclaggio rappresenta, come ogni tecnica criminale atta a ripulire “denaro sporco”, una grande fonte di approvvigionamento finanziario per le associazioni di tipo malavitoso. Bisogna rilevare che l’Italia, parallelamente all’Unione Europea, si è mossa bene e per tempo in tema di riciclaggio. Anzi, le normative dell’Unione in tale settore, non sono scevre da influssi provenienti dal sistema legislativo italiano nell’ambito dell’antiriciclaggio.

La normativa Antiriciclaggio (Legge nr. 197/91 e successive modificazioni) esistente ed applicata da oltre un decennio nel nostro Paese, con la puntuale collaborazione del sistema creditizio, è stata definita da più parti, a giusto titolo, una delle discipline più efficaci per il contrasto alla Criminalità Organizzata ed al Riciclaggio di denaro sporco, avendo recepito nel miglior modo possibile le rinnovate “Raccomandazioni” del Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale (G.A.F.I.) del 1989.

A seguito della Legge nr. 108/1996 “Disposizioni contro l’usura”, si è provveduto ad introdurre il c.d. “tasso soglia” oltre il quale si producono le condizioni di reato, per fornire una risposta all’urgenza richiesta da più parti (Associazioni di consumatori e commercianti, Forze dell’Ordine e dalla stessa Magistratura) e che è volta ad assumere una traiettoria finalizzata a superare la “prova regina” di aver approfittato di un reale stato di necessità della vittima.

Tempo fa si sosteneva che la legge italiana (Art. 644 e 644 bis del Codice Penale), era risultata l’ultima, in Europa, a fornire un collegamento tra l’usura e lo stato di bisogno, senza fornire una definizione esaustiva del tasso usurario. In Svizzera, per esempio, risultava perseguibile il soggetto che praticava un interesse superiore al 17%, in Francia chi praticava interessi di un terzo superiore a quello praticato dal mondo finanziario, etc.

Se la ricchezza, come nel caso dell’usura, proviene da un reato, la circolazione del flusso illecito di denaro abbisogna di: a) riciclaggio (money laundering o blanchiment) ; b) reimpiego del denaro o di beni di provenienza illecita. Questo è quanto stabilisce l’articolo 648 ter.

Le soluzioni preferite da chi deve mettere in essere un agevole riciclaggio di denaro sono costituite dal suo “spostamento” in «paradisi fiscali» o dal suo impiego presso banche e aziende offshore. I paradisi fiscali sono, nella maggior parte, rappresentati da Paesi i cui regimi fiscali permettono di importare denaro e di depositarlo in Istituti di Credito senza ostacoli legati alla tracciabilità delle sue origini; in più, vi è il vantaggio di godere anche di tassazioni molto più basse di quelle praticate nel Paese d’origine. Le Isole Cayman rappresentano un esempio chiaro ed esaustivo in tal senso, perché nello Stato in oggetto, anche definito “paese salvagente”, imprenditori, uomini d’affari, politici, faccendieri e altri notabili utilizzano le banche di questa nazione al fine di depositare, talvolta anche tramite propri fiduciari, “denaro sporco”, servendosi di alcuni escamotage di carattere finanziario, per aggirare norme e regole stringenti presenti invece nei propri paesi d’origine.

Inoltre, le società offshore si inseriscono in questo quadro, rappresentando delle realtà che, pur nascendo nella piena legalità, permettono ai soggetti che vogliono occuparsi di riciclaggio di denaro di farne perdere le tracce: secondo la logica delle “scatole cinesi” risulta facile spostare rapidamente i propri soldi dai conti di più società, in modo da confondere le idee di chiunque si proponga di seguire tutti i movimenti. Le Banche offshore, infine, rappresentano degli Istituti specializzati come ogni altra banca nella gestione di crediti, ma che consentono di mettere al sicuro denaro illegale in altri Paesi, grazie a conti di deposito o per mezzo d’investimenti centrati al raggiungimento di determinati obiettivi. I professionisti di tali istituti di credito mettono a disposizione le proprie competenze per impiegare liquidità di cui non si conosce la provenienza o che, in base al principio della segretezza bancaria, non possono comunque rendere nota. In questo scenario, nel quale l’emergenza riciclaggio tende a svilupparsi in modo esponenziale, i sistemi investigativi risultano nella loro efficacia abbastanza carenti e limitati, in quanto risultano privi di una collaborazione giudiziaria, politica e fiscale di un certo rilievo, con i paesi dove vanno a soggiornare i “capitali dubbi”.

In riferimento all’aspetto riguardante i professionisti che si occupano di tali delicate operazioni, l’art. 9 del decreto 141/2006 sull’obbligo di segnalazione di operazioni sospette, evidenzia una problematica di carattere interpretativo, in quanto la sua formulazione risulta non chiara nei commi 1 e 2. La lettera del comma 1 dell’articolo in esame specifica l’«obbligo di segnalazione» nel momento in cui dall’operazione, che risulta connotata in uno specifico modo, possano derivarne dei delitti di riciclaggio susseguenti al denaro sporco oggetto della transazione economica. Il successivo comma 2, non si distingue per chiarezza, in quanto afferma che prima dell’ultimazione dell’operazione richiesta dal cliente, il professionista ha l’obbligo di segnalare l’operazione stessa, nel momento in cui ci sia il sospetto che il denaro sia proveniente da dinamiche che includano un delitto non colposo e il cliente si proponga di porre in essere un’operazione di riciclaggio.

Il riciclaggio estende i suoi tentacoli nei più svariati ambiti economici e finanziari.

Come avviene in concreto il riciclaggio? In un’operazione di riciclaggio ci sono tre fasi distinte: una prima fase, nella quale si verifica l’immissione di proventi illeciti nel sistema dei pagamenti (ad es. attraverso l’apertura di un conto intestato ad una società “di copertura”). In seguito, si passa ad una seconda fase, che si potrebbe definire di “movimentazione dei proventi”, rivolta a far perdere le tracce degli stessi (es. trasformazione dell’originario denaro in assegni e in una serie di “stratificazioni” (layering) di bonifici e giroconti internazionali, da/verso quei paesi definibili come “paradisi fiscali” o bancari, nei quali è più facile, in merito al “segreto bancario”, intralciare il corso di eventuali indagini: tale modus operandi risulta funzionale a far sì che si perda la traccia illecita del danaro definita tecnicamente paper trail). Vi è poi una terza fase, nella quale i proventi illeciti, ma “ripuliti”, sono introdotti definitivamente nell’economia illegale.

Il termine “riciclaggio” fa riferimento al flusso di “liquidità sporca” che circola e si espande nei mercati internazionali, per metabolizzarsi successivamente in «operazioni economiche standardizzate», che hanno tutti i crismi di transazioni perfettamente lecite e trasparenti (ad esempio acquisti di esercizi commerciali o di immobili).

Questo complesso organigramma attorno a cui si struttura il reato di riciclaggio garantisce al presente “delitto finanziario” un’adeguatezza e un’efficacia contro le quali i vari stati – compresa l’Italia – e la stessa Unione Europea hanno posto in essere diversi interventi legislativi risultati, a seconda dei casi, più o meno efficaci. Esistono una serie di cosiddetti “reati-presupposti” che facilitano ed amplificano il raggio d’azione dello stesso riciclaggio. I procedimenti attraverso cui opera chi fa riciclaggio sono sempre più sottili e particolari: uno dei canali privilegiati che dà sostegno e impulso alle attività di riciclaggio è rappresentato dall’usura. Questo fenomeno di devianza economica, ha assunto negli ultimi anni delle linee di indirizzo frutto di istanze ben precise, di carattere economico o di prevalente contenuto economico. La criminalità organizzata si serve di tali strumenti per aggirare norme e procedimenti stringenti. L’usura, “figlia del riciclaggio”, costituisce uno dei veicoli principali per reimpiegare il denaro illecitamente percepito, portando alla criminalità organizzata enormi profitti derivanti dall’utilizzo di questo strumento per l’attività di “lavaggio” del denaro sporco. Attraverso questa forma di reimpiego, che spesso viene messa in opera costituendo delle finanziarie ad hoc che effettuano legittimamente attività di finanziamento per un determinato range di clienti, il denaro illecito risulta doppiamente fruttuoso, garantendo contemporaneamente alti profitti e rischi minimi. Se ne deduce che l’usura rappresenta uno business criminali più redditizi. Tuttavia esistono altri aspetti molto rilevanti che attengono all’azione del riciclaggio e quelle relative alle attività usurarie, nei cosiddetti periodi di crisi e recessione internazionale. A tal proposito è necessario sottolineare come proprio nelle situazioni economiche più difficili, la criminalità organizzata riesca a condurre in porto i suoi migliori affari. In tali periodi recessivi, caratterizzati da una stagnazione economica, con una conseguente mancanza di liquidità, si viene a creare addirittura una sorta di collante tra le stesse associazioni criminali e gli istituti bancari.

Sul rapporto tra riciclaggio, crisi economica, banche e associazioni criminali, in alcuni frangenti avviene che negli stessi paesi che dovrebbero essere all’avanguardia nella lotta a tali tipi di reati, prospera una moltitudine di attività pseudo-legali che fungono da paravento per la circolazione di capitale riciclato. Molto spesso i proventi del narcotraffico sono ripuliti negli stessi Stati Uniti; con ciò si vuol affermare che “pezzi deviati” della media e grande finanza americana riescono ad aggirare i pur strettissimi controlli presenti negli States. È un dato di fatto che nell’ultimo decennio, le metropoli di New York e di Londra hanno rappresentato delle vere e proprie “lavanderie” per il denaro sporco. Questo fenomeno mette sul tappeto tutta una serie di problematiche: dal riassestamento delle varie intelligence deputate a combattere il crimine organizzato con strumenti più efficaci, ad un maggiore coordinamento, soprattutto negli stati più industrializzati dell’occidente, tra potere politico, economico e giudiziario. In realtà, già a partire dai primissimi anni ’90 del XX secolo, il legislatore italiano ha cercato di apportare delle modifiche sostanziali alla materia del riciclaggio, onde evitare fenomeni che potevano facilitare attività criminose in tale ambito, cercando di superare in modo netto ed efficace la precedente normativa nazionale risalente al decreto-legge del 21 marzo 1978 n. 59, convertito, con modificazioni, in legge 18 maggio 1978, n. 191, “norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati”, che aveva inserito nel Codice Penale l’art. 648-bis, “sostituzione di denaro o valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata o sequestro di persone a scopo di estorsione”. Tale norma, risalente alla fine degli anni ’70 si proponeva di contrastare la circolazione di capitali illeciti che fino ad allora non era un’attività perseguibile. Essendo passati tanti anni dall’approvazione definitiva della norma summenzionata, il legislatore si rese conto che la criminalità organizzata si era dotata di strumenti più moderni e sottili per aggirare l’ordinamento normativo. Con la legge 19 marzo 1990, n. 55 atta a ridefinire il reato di riciclaggio e che modificava l’art. 648-bis (sostituzione di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) del codice penale, si introdusse il fondamentale art. 648-ter (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita). In seguito a tale modifica, fu apportato un notevole ampliamento per quel che concerne la tipologia dei reati presupposti. La norma in oggetto, infatti, introdusse anche, con riferimento alla provenienza del denaro o beni frutto di riciclaggio, i reati relativi alla produzione o al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope. Questa legge dette luogo altre importanti novità, come ad esempio la maggiore ampiezza della stessa formulazione del proprio dettato normativo, allorché la lettera della norma si riferiva a “denaro, beni o utilità”, rispetto alla precedente formulazione (denaro o valori), che segna ha segnato il passaggio da una concezione, più ristretta, del solo money laundering, al più ampio asset laundering.

La ratifica (avvenuta con legge 9 agosto 1993 n. 328) della Convenzione di Strasburgo ha ulteriormente modificato gli articoli 648-bis e 648-ter del codice penale, estendendo a tutti i “delitti non colposi”, i reati presupposti per la segnalazione delle operazioni sospette. Nell’ottica progressiva delle leggi atte a contrastare i fenomeni di riciclaggio e di usura si inseriscono a pieno titolo: il decreto legge emanato dal Governo in data 4 gennaio 1991, n. 2 reiterato, con modificazioni, nel decreto-legge 8 marzo 1991, n. 72 ed ancora nel decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143, poi convertito, con modificazioni, in legge 5 luglio 1991, n. 197. Questo lungo processo legislativo ha avuto il suo pieno compimento in un arco temporale di circa 7 anni: si fa riferimento all’emanazione del decreto legge 3 maggio 1991, n. 143, convertito, con modificazioni, in legge 5 luglio 1991, n.197 poi modificato dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153. Da non dimenticare il decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, riguardante il Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. Tutti questi provvedimenti nazionali, essenziali in materia di riciclaggio, non vanno naturalmente disgiunti dalla fondamentale legge comunitaria per il 1994 (legge n. 52/1996): lo scopo precipuo della normativa in oggetto era quello di un sostanziale riordino della disciplina in tema di antiriciclaggio. A tal proposito è necessario menzionare il Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 520 F che si ricollegano all’importante Decreto legislativo del 24 febbraio 1998, n. 58.

Naturalmente, sia in ambito comunitario che internazionale, è necessario che la prevenzione e il contrasto alle attività di carattere illecito nei settori economici e finanziari, avvenga con un coordinamento sempre più intenso e continuo tra i partner inter ed extraeuropei, nelle sedi e nei consessi opportuni (ONU, G8, Istituzioni comunitarie, ecc.).

Nelle società contemporanee sono presenti nuove frontiere di riciclaggio: metodi e procedure cambiano continuamente. L’introduzione di nuove tecnologie comporta la possibilità di compiere nuovi reati; la globalizzazione dei mercati, con la conseguente integrazione, vieppiù con quei Paesi che s’incentrano su «economie emergenti», ha posto in modo ancora più incessante il problema del rapporto tra riciclaggio e nuove tecnologie. Se da un lato, le nuove tecnologie hanno condotto a nuovi tipi di realizzazione di comportamenti già penalmente sanzionati, dall’altro tutto ciò ha reso necessaria l’introduzione di nuove fattispecie di reato. Non può sottacersi in questa specifica prospettiva, la grande rilevanza del fatto che le più importanti organizzazioni criminali tendono ad intrufolarsi proprio nei cosiddetti “anelli deboli” della catena internazionale approntata per combattere il riciclaggio e gli altri fenomeni di criminalità economico-finanziaria, ovvero in quei punti c.d.  di “minore resistenza” (ad es. i Paesi c.d. offshore), al fine di effettuare investimenti o perlopiù far transitare i capitali di provenienza dubbia proprio in quei Paesi che presentano un tipo di legislazione di contrasto carente, o addirittura che siano privi di una legislazione anti-riciclaggio oppure sprovvisti di moderni sistemi tecnologici atti a contrastare tali tipi di reati. I nuovi canali multimediali offrono inedite opportunità alle associazioni di stampo mafioso e terroristico per riciclare denaro sporco. Lobby economiche, finanziarie e politiche complementari ad organizzazioni criminali tendono sempre di più a fagocitare il tessuto sociale e connettivo dei vari paesi, ostacolando in tal modo una reale crescita e progressività degli stessi.

Le procedure attraverso le quali operano le associazioni mafiose, o a carattere eversivo, si sostanziano in raffinatissime e impalpabili operazioni riciclatorie che hanno luogo prevalentemente nei cosiddetti Paradisi Fiscali, che se un tempo risultavano catalogati in modo stringente e tassativo, oggi, in seguito alla circolare 35/E del 4 agosto 2016 sulla disciplina CFC – Controlled Foreign Companies, emessa dall’Agenzia delle Entrate, appaiono più che mai di difficile individuazione. Se ne deduce che le cosiddette Black List e White List risultano ormai un lontano e sbiadito ricordo. Il riconoscimento delle nazioni a fiscalità privilegiata, a partire dall’anno 2016, avviene prevalentemente in rapporto al livello nominale di tassazione che non deve scendere sotto la soglia del 50% rispetto a quello che può essere applicato in Italia. Il livello nominale di tassazione non risulta l’unico parametro per ottemperare all’espletamento delle procedure in oggetto: bisogna, infatti, prendere in considerazione possibili regimi speciali sussistenti nello stato estero, che diminuiscono de facto la tassazione delle imprese con titolarità italiana. L’identificazione dei Paradisi Fiscali non risulta più, in tal mondo, contenuta in elenchi ufficiali appartenenti a liste di paesi White o Black, ma allo stesso cittadino contribuente, il quale deve verificare in modo specifico la tassazione che viene applicata nel paese dove è situata l’impresa.

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[1] G. Bartolomei – A. Marcozzi, I fondi europei 2014-2020. Guida operativa per conoscere e utilizzare i fondi europei, EPC Editore, Roma, 2015.

 

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