Psicologia e Psicopatologia del Gioco d’Azzardo

Articolo di Laura Koelliker

Il giocare d’azzardo riguarda un aspetto che è affascinante tanto per il giocatore, tanto per chi è coinvolto nella lettura della narrazione che lo riguarda. L’aspetto di cui sto parlando è: il caso.
L’incertezza è il comune denominatore che caratterizza l’esistenza di ogni essere umano. Per cercare di gestire l’incertezza, che per antonomasia rimanda all’ignoto, la nostra mente tende ad anticipare gli eventi per indirizzare le nostre azioni verso dei risultati attesi e “controlla” i possibili effetti delle stesse attraverso le abilità cognitive ed emotive. Questo processo è un continuo tentativo di costruzione di sé e del mondo che ci circonda, attraverso il quale possiamo esplorare gli scenari possibili e provare a trarne un senso. In fin dei conti però non si può far altro che vivere l’incertezza; perché controllare o gestire ciò che è aleatorio è di fatto impossibile.
Il processo appena descritto, nel gioco viene ritualizzato e ben delimitato da una cornice spazio – temporale.
Il giocatore scommettendo, puntando cerca di “controllare l’incontrollabile” attraverso un pensiero magico cerca di gestire la fortuna e vincere significa, il più delle volte, essere vivi.
L’azione umana è sempre dotata di intenzionalità e significato, anche se con livelli di consapevolezza sempre diversi. In questo senso l’azione e quindi l’esistenza diventano comunicazione in primis con sé stessi e poi con gli altri in un continuo processo interattivo.
L’azzardo, in un certo qual modo, riguarda ognuno di noi. La storia di R., brillante imprenditore di successo, ne è la testimonianza più calzante. R. ha sempre azzardato nella vita, ha sempre “giocato a dadi con la sua esistenza”, come direbbe Dostoevskij ne “Il giocatore”, spingendo al massimo le sue capacità. Aveva sempre rischiato e vinto nella vita. Educato dal padre a primeggiare sempre, R. nella sua vita, a soli 27 anni era già un brillante imprenditore avendo vinto tutte le scommesse lavorative che si era posto. R. nella sua vita non aveva mai perso e la pressione degli insegnamenti del padre rappresentava una sfida quotidiana e una spinta continua a vincere. Quando R. fallisce per la prima volta nella sua vita, il peso di questo fallimento è insostenibile. Attraverso il gioco cerca la rivalsa, è un tentativo continuo di “riparare alla sconfitta e alla vergogna con nuove vittorie sulla sorte” (Mazzocchi, 2005, pp. 61)

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“L’incontro con il gioco è un punto di svolta narrativo di una storia già iniziata in cui si possono inaugurare sviluppi maledetti, o meno, a seconda dei repertori narrativi che la persona ha a disposizione, dei significati profondi che riesce ad esprimere, del “potere negoziale” che ha o può prendersi (con sé stesso e gli altri), nel generare i suoi stessi contesti simbolici”. (Ratti, 2007)
Giocare, quindi, più che una mera azione, più che un’attività rappresenta un’area di esperienza attraverso la quale è possibile allontanarsi, prendere distanza dalla vita quotidiana. (Bondioli, 2002 pp. 13)

quando vai dentro a questo Bingo, entri ti senti… no una regina proprio ti rilassa, perdi proprio i sensi, ti dimentichi tutti i problemi (C.)

Come si evince dalle narrazioni trattate in questo lavoro, il più delle volte, la motivazione che spinge a giocare è il bisogno di accedere alle proprie emozioni, di avere la possibilità di poterle controllare o poter “semplicemente” provare ad affievolire emozioni troppo penose e di conseguenza non tollerabili. Questo si verifica nel così detto gioco per fuga.
La fuga è un tema ricorrente all’interno delle narrazioni incontrate nel corso di questo lavoro, il gioco, la sala bingo sono stati definiti “oasi”, “rifugi” posti nei quali non ci si sente giudicati, dove ci si sente “in famiglia”. Procedendo con questa chiave di lettura, quindi potremmo dire che il gioco offre la possibilità di creare ordine, fare da contenitore a delle emozioni altrimenti inesprimibili; crea l’illusione, attraverso la ripetizione della stessa azione, dello stesso gioco, di poter controllare l’incertezza di cui parlavo in precedenza. Tutto diventa prevedibile, tutto può essere gestito. Attraverso un pensiero magico ci si convince che prima o poi si riuscirà anche a gestire la Sorte, la Fortuna. Prima o poi si diventerà dei vincenti. Vincere significa essere vivi.

Il titolo del libro di S. Mazzocchi, a questo proposito, risulta calzante: “Mi gioco la vita”. Raccogliere ed ascoltare tante storie diverse, toccanti, complesse ha reso possibile il guardare oltre la patologia legata al gioco d’azzardo, arrivando a poter scorgere il quadro complessivo di tante vite umane.
Rolando De Luca nell’introduzione a questo testo scrive: “In qualche modo, queste e tante altre esperienze […] toccano anche noi, che viviamo nell’illusoria convinzione di esserne immuni. Si pensa che nel gioco d’azzardo ciò che si perde, in fondo, sia solo il denaro […] ma la vera sfida, quella che inconsciamente tutti i giocatori tentano, non è quella che si affronta dentro alle sale da gioco, bensì piuttosto il confronto estremo con la morte, che ovviamente può assumere connotazioni variamente simboliche. Il giocatore affronta questa somma partita con la convinzione di poterla vincere, e l’illusione che ciò avvenga gli induce un appagante sensazione vicina all’onnipotenza.” L’autore continua “In molte storie di giocatori d’azzardo emerge questa scommessa suprema: superare la prova significa rimanere vivi10, perché è la vita, e non soltanto il denaro, a essere messa in gioco. Non è dunque tanto il gioco, quanto l’azzardo ciò che crea la dipendenza.”

[…]Bisogna imparare a essere sé stessi, a saper perdere. Che non c’è bisogno di sconfiggere la morte fin dalla nascita. Che solo con questa consapevolezza si riesce a vivere. E ad amare” (Storia di R. in Mazzocchi, 2005 pp. 62)

L’analisi tematica ha portato all’individuazione di alcuni temi salienti e ricorrenti nelle narrazioni incontrate, tali tematiche si intrecciano continuamente e rappresentano alcuni ambiti dell’esistenza che inevitabilmente si sovrappongono, intrecciano e mescolano in un mix di emozioni che è difficile scomporre.
Le storie ruotano intorno a vissuti abbandonici, di profonda solitudine, di appartenenza ma, ciò che colpisce è la continua contraddittorietà, avvicinarsi al fenomeno del gioco d’azzardo significa avere a che fare con le contraddizioni, significa entrare nel paradosso. Come nella vita, il lavoro percorso fino a qui ci ha portati di fronte a dicotomie continue:

  • Attivo – passivo
  • Dentro – fuori
  • Amore – odio
  • Vita – morte
  • Controllo – impotenza

La dicotomia attivo-passivo diviene evidente quando i giocatori parlano di sentirsi, appunto, attivi nel giocare. Attraverso l’azione del giocare si vanno a riempire degli spazi della vita altrimenti “vuoti”.

“[…]Quando non hai diversivi, quando la tua vita è piatta. Ad esempio mio marito dorme tutta la giornata perché lavora, ma ti giuro nun chiacchiarj, nun fai, nun dic, tua mamm se ne va o Bing te ne vuò j pur tu o Bing perché comunque è una cosa che ti piace” (L.) “ […]Giocare è per me una scarica di adrenalina […]” (S.)

Il gioco del Bingo in questo senso permette di trascorrere, occupare, riempire11, come ho già detto, del tempo “facendo qualcosa”. L’attività tanto agognata, però, nella realtà si traduce in una costante passività. Ecco la prima grande contraddizione del gioco del Bingo.
Il gioco in questione non necessità dell’uso di astuzia, ingegno o strategia; è solo l’attesa passiva di numeri che verranno estratti e sui quali non si ha nessun potere.
Questo porta alla seconda dicotomia da me individuata che è: controllo – impotenza. Nel corso di questo lavoro è stato più volte detto che il giocatore attraverso l’azione del giocare cerca di controllare gli eventi, attraverso un pensiero magico crede di poter controllare la sorte e la fortuna riuscendo, finalmente, a cambiare la propria situazione. Durante il gioco però queste due sensazioni si alternano continuamente, attanagliando il giocatore nella sua rincorsa alla vincita. L’impotenza deriva dalla consapevolezza che il giocatore raggiunge, se pur momentaneamente, appena fuori dalla sala, quando ha finito di giocare. La consapevolezza del non essere onnipotente, di non avere il potere di influenzare la sorte e gli eventi, che “non si vince mai, perché noi siamo perdenti”(L.)
Il dentro – fuori è una questione di fondamentale importanza in questa indagine. È ritornata alla mia attenzione più e più volte, anche da punti di vista differenti. Il dentro inteso in senso metaforico, come oasi, rifugio, come fuga. Dentro la sala fuori dalla vita, fuori dalla vita quotidiana che è fatta di problemi, impegni, responsabilità. In un certo senso fuori dalla realtà, realtà che il più delle volte è caratterizzata da eventi che non si riescono ad affrontare e da emozioni penose che risultano troppo pesanti da poter sopportare. Si è fuori dal tempo, come detto nel corso di questo lavoro, inteso come tempo cronologico e si è dentro un tempo altro, un tempo sospeso, un non-tempo che permette di allontanarsi dai problemi restando in un limbo irraggiungibile dalla razionalità e quotidianità vissute come insoddisfacenti. La sala da gioco funge da contenitore di emozioni, è qui che le persone si sentono a casa, in famiglia.

“ […] La tua casa è là giù al Bingo […]” (C.)
“ È come stare in famiglia” (L.)

Al Bingo ci si sente liberi di raccontarsi, in un ambiente “protetto”. Dentro la sala si è tutti uguali, non esistono discriminazioni, si è tutti accomunati dal gioco.
Queste persone che si raccontano e “affidano” all’altro, che considerano gli altri giocatori della sala alla stregua di familiari o amiche di vecchia data, sono le stesse persone che fuori dalla sala, nella vita “reale” a stento si accennano un saluto. Ecco che torna il dentro-fuori; dentro si appartiene ad una categoria: la categoria giocatori, che non è vissuta con sensi di colpa. In sala non ci si sente giudicati, perché in fondo si è lì tutti per lo stesso motivo: giocare. Dentro la sala ci si racconta e si da sfogo ad emozioni che, fuori, non si racconterebbero neanche ad un’amica. La paura del giudizio è molto presente in tutte le narrazioni incontrate. La sala è vissuta dai giocatori come spazio contenitivo, un contenitore delle proprie emozioni che possono essere espresse solo lì, lì dove si è sicuri che non si sarà giudicati. Fuori dalla sala si instilla nel giocatore una fantasmatica di paura rispetto allo stigma, salutare un altro giocatore potrebbe far associare a chi li vede il fatto che si conoscano perché entrambi giocatori. Il fuori – dentro reale, quindi legato alla limitazione spazio-temporale del gioco è un altro aspetto molto importante. Appartenere a quella categoria risulta “normale” e piacevole limitatamente allo spazio atto a giocare, la sala. Al di fuori il giocare è vissuto come un atto di cui vergognarsi e per questo da tenere nascosto.
L’autrice Sabina Ricca dice: “Tra una partita e l’altra si procede alla vendita delle cartelle ed è in questo margine di tempo che ognuno trova sfogo negli altri raccontandosi. Strano, vien da pensare, raccontarsi a degli estranei? Confidare i propri problemi a gente che non conosci o che conosci appena?
Forse proprio per questo ascoltano, non ti offendono o non ti colpevolizzano. Non giudicano il tuo modo di vivere la tua vita, ti consigliano con più razionalità forse perché riescono a vedere le cose in maniera diversa, proprio perché non coinvolte” (Ricca, 2012, pp. 17-18)
L’amore – odio, quindi l’ambivalenza sperimentata nei confronti del gioco si ricollega alle categorie precedenti. Si evidenzia nelle narrazioni un vissuto dicotomico rispetto al vissuto relativo al gioco d’azzardo.

“Il bingo è bello! Bello La! Bello over’ …” (L.)
“No, si giocare è bello perché a chi piace è bello.” (S.)

Chi narra della sala bingo parla di oasi, quasi di un paradiso dove è possibile dimenticarsi per un po’ chi si è e quello che ci attanaglia nella vita quotidiana. Un luogo nel quale si instaurano relazioni ed è possibile socializzare.

“È bello, puoi parlare, ti sfoghi” (C.)

Allo stesso tempo però, ecco il paradosso che ritorna sempre, tutti i giocatori lamentano la perdita di dialogo e relazioni significative, che vengono abbandonate a favore di più tempo da passare al bingo.
“ Poi non c’hai più dialogo con nessuno, in famiglia, non parli proprio più con nessuno la tua casa è là giù al Bingo” (C.)
Siamo nel paradosso. Il bingo è il luogo in cui è possibile raccontarsi, avere un dialogo ma è lo stesso, che allo stesso tempo, te ne priva.
A mio parere, i giocatori restano incastrati nel “dentro” del luogo mentale, di cui abbiamo precedentemente parlato, a scapito delle relazioni reali. In sala bingo i giocatori non si mettono in gioco con relazioni intime, ma con legami che sono circoscritti alla situazione.
Trascorrendo una serata ad un tavolo del bingo è facile accorgersi di come tutti abbiano un’ urgenza narrativa che trova sfogo nei pochi minuti tra una partita e l’altra, uno sfogo che non ha il tempo di essere elaborato, accolto ma solo “buttato” sull’ altro come a togliersi un peso. L’AAMS definisce il Bingo “un gioco ad alto potere socializzante”, in realtà immergendosi nel fenomeno ci si rende conto di come i giocatori siano immersi in una collettiva solitudine e di come quel chiacchierare, quello sfogarsi che i giocatori definiscono tanto piacevole e di aiuto sia solo limitato al momento del gioco. Appena fuori il vissuto di solitudine si fa più intenso e l’impotenza rispetto a questo ancora più insopportabile.

“Quando non hai diversivi, quando la tua vita è piatta. Ad esempio mio marito dorme tutta la giornata perché lavora, ma ti giuro nun chiacchiarj, nun fai, nun dic, tua mamm se ne va o Bing t ne vuò j pur tu o Bing perché comunque è una cosa che ti piace […]noi andavamo la mattina e te n ijv a nott. Nervosa, stressat, ncazzat, senz n’eur ind a sacc e fumat minim minim duej pacchett e sigarett e vai avanti e indietro per la casa che ti giuro sembri non una dannata ma di più, esorcizzat propr perché hai perso, lascia stare il fumo perché il fumo non è che lo senti che tu hai fumato tanto, però comunque senti quella, quella tensione e quello stress che hai accumulato durante la giornata perché ecco ca tu vuliv fa e nun e fatt, e pers” (L.)

L’ambivalenza è un vissuto che si ripresenta continuamente trattando il fenomeno del gioco d’azzardo. Il gioco permette di passare delle ore piacevoli ma, allo stesso tempo, fa dannare per il “prezzo” che c’è da pagare. Il giocare comporta un costo, non solo in termini economici ma in termini emotivi. Il sollievo sperimentato durante il gioco è temporaneo e le relazioni che si creano sono relazioni superficiali e di facciata, circoscritte solo alla sala da gioco. L’azzardo più che con la vincita, con il denaro ha a che fare con la vita. Si azzarda nel cercare di vincere la sorte in una sfida continua, si vive l’illusione che “riempiendo” le cartelle si riempia anche quel vuoto esistenziale, quel piattume che nelle narrazioni è stato tante volte nominato. Ci si illude che quella chiacchierata circostanziale, che quello sfogo momentaneo sia il supporto, sostegno che nella vita fuori dalla sala non si ha e dal quale, paradossalmente, ci si allontana.
Capita spesso di sentire persone che asseriscono che raccontarsi ad un estraneo risulti più facile che con una persona più intima. Le relazioni significative, l’intimità però si costruiscono e comportano uno sforzo emotivo di gran lunga superiore a quello necessario ad uno sfogo con un estraneo.

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