Psicologia del Giocatore d’Azzardo Patologico

Nella letteratura, un giocatore d’azzardo che descrive bene (seppur riferendosi alla sua dipendenza dall’alcool) le caratteristiche della scelta dell’oggetto di dipendenza è Charles Bukowski: “L’alcol mi permette di staccarmi dalla parte reale di me, di non vedermela davanti un giorno dopo l’altro… quella che si pulisce i denti con lo spazzolino, che va in bagno… bere è una forma di suicidio che ti permette di ricominciare tutto il giorno dopo. È come ammazzarsi e rinascere …” (Bukowski, 2005) La caratteristica che accomuna l’esperienza del giocatore patologico a quella di chi abusa di alcolici è come essi vivono il tempo. Il gioco appare come una realtà parallela che rompe con il tempo e lo spazio quotidiani e perciò diventa irraggiungibile dalla razionalità.

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Il giocatore progressivamente investe sempre più tempo nella sua attività di gioco, quindi non si tratta solo dell’incapacità di resistere ad un impulso e giocare somme sempre crescenti di denaro, ma della necessità di “investire” sempre più tempo in questa attività.
Mia moglie Vera mi dice: «Sulle strade francesi ogni cinquanta minuti muore un uomo. Guardali, tutti questi pazzi che corrono accanto a noi. Sono gli stessi che sanno essere così straordinariamente prudenti quando sotto i loro occhi viene scippata una vecchietta. Com’è possibile che quando guidano non abbiano paura?». Che cosa rispondere ? Questo, forse: che l’uomo curvo sulla motocicletta è tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; egli si aggrappa a un frammento di tempo scisso dal passato come dal futuro; si è sottratto alla continuità del tempo; è fuori del tempo – in altre parole, è in uno stato di estasi: in tale stato non sa niente né della sua età, né di sua moglie, né dei suoi figli, né dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere. (Kundera, 1995, pp. 9-10)
Così come l’uomo è concentrato sull’attimo, come dice Kundera, anche il giocatore mentre gioca si trova fuori dal tempo; il gioco gli offre la possibilità di vivere nella sua oasi, nella sua isola che non c’è , che non ha nulla a che fare con la quotidianità, con la sua vita “reale”. Lui così ha creato una realtà parallela.
Siamo nel paradosso; il giocatore si colloca nella dimensione dell’istante durante il gioco : “Non esiste né passato, né futuro, il tempo ridotto alla partita, alla scommessa e alla mossa in corso, è costretto all’immobilità, sospeso nel presente e limitato all’infinito … i parametri spaziali e temporali non superano le frontiere del qui ed ora … per il giocatore le notti si confondono nei giorni e le ore svaniscono nei minuti …” (Russo, Tosoni, 2002)
Attraverso il gioco si riesce a far comparire l’irreale nella realtà, il gioco interrompe lo scandirsi “normale” del tempo, il susseguirsi dei minuti, delle ore, spezzando la continuità e inserendosi come in un’oasi (Fink, 2008), come se si creasse una realtà parallela, a sé caratterizzata dai suoi tempi, scopi e regole che sono vincolati e limitati solo alla durata del gioco stesso.
“Pensiamo che il giocatore è come se aspirasse a elevarsi al di là e al di sopra del tempo: in una metamorfosi profonda della coscienza del tempo. Quando il presente diviene la sola dimensione del tempo (interiore), come si constata nell’addiction, anche il passato si allontana e si scolorisce, si sfibra, si frammenta.” (Pani, Biolcati, pp. 149).
Il giocatore quindi non è nel suo passato, né proiettato nel futuro ma è sempre in una specie di spazio vuoto tra i due, spazio vuoto nel quale è sospeso. Il gioco si presta a rappresentare materialmente “lo spazio vuoto”, uno spazio dove il tempo6 non esiste, dove ci si sente sospesi.
Possiamo vedere il gioco come “luogo simbolico” nel quale è possibile compensare e accettare un’esistenza che non si può o non si vuole cambiare (Lavanco, 2001). Il fenomeno del gioco è caratterizzato dall’ambivalenza. È divertimento e preoccupazione allo stesso tempo; può essere un’esperienza gioiosa, creativa, un’oasi della gioia come la definisce Fink (1957), può divenire un’esperienza magica e per questo creare molta attrattiva ma, può diventare anche qualcosa di spaventoso se il senso di onnipotenza e il pensiero magico diventano le dimensioni preponderanti.
“Il giocare, a differenza del corso della vita e della sua inquieta dinamica, del suo oscuro essere messo in questione e del suo essere incalzato verso il futuro, ha piuttosto il carattere di un “presente” tranquillo e di un senso autonomo – sembra un’oasi di felicità, che ci arriva addosso nel deserto della nostra abituale tensione verso la felicità e della nostra ricerca tantalica” (pp. 17 – 18).

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