3 Storie di Abusi Sessuali Minorili Falsi

Articolo di Alessia Chirico

Il caso di Saverio De Sario[1]

«Quello che io e mio fratello avevamo detto su mio padre erano invenzioni dettate da mia madre che lo voleva allontanare»: questa la ritrattazione che Michele e Gabriele, figli di un 46enne sardo, condannato in via definitiva a nove anni e due mesi di carcere per abusi sessuali proprio sui due figli, hanno dichiarato dopo anni di silenzio. Si tratta di una vicenda avvenuta a Brescia, dove la famiglia De Sario ha abitato per anni e dove sono state depositate le prime denunce nei confronti del genitore in seguito ad una separazione coniugale tutt’altro che serena. Infatti, c’era conflittualità tra i genitori, soprattutto per quanto riguardava l’affidamento dei figli. Michele e Gabriele all’epoca dei fatti avevano 9 e 12 anni. Secondo i tre periti nominati dal tribunale di Brescia e Oristano, le indagini mediche non potevano dare certezza sull’abuso. «Agli atti ci sono solo le dichiarazioni di due bambini e nessun’altra prova contro mio padre.

Nessuno ci ha mai chiesto di raccontare la nostra verità» racconta il figlio più grande, Gabriele, che, come il fratello, ha alle spalle diversi anni passati in alcune comunità del bresciano. Proprio uscendo da una comunità nel 2009 lasciò agli educatori un memoriale della sua vita dove spiegò che le accuse mosse nei confronti del padre erano state invenzioni. «Per togliere di mezzo papà, mia madre ha cominciato ad imbottirci di menzogne, cose che non erano reali, cose che mio padre non ha mai fatto e non farebbe mai» è uno dei passaggi delle 42 pagine di memoriale. In quell’anno era in corso il processo in Appello del genitore, ma nessun educatore portò all’attenzione il diario di Gabriele che ora è stato invece allegato alla richiesta di revisione del processo presentata alla corte d’Appello di Roma dal legale del padre condannato, l’avvocato Massimiliano Battagliola. « La clamorosa ritrattazione a distanza di anni equivale ad una nuova prova e anche il memoriale che abbiamo ritrovato è un elemento assolutamente nuovo».

 

Il caso di Carolina Tana[2]

Il 29 ottobre del 1992 Carolina Tana, allora adolescente, accusò il padre, Alberto Tana, ex presidente della Borsa Valori, di molestie sessuali. Quando Carolina compie otto anni i genitori si dividono. Aurora, la madre, vorrebbe ottenere l’affidamento esclusivo di Carolina, con ogni mezzo disponibile per colpire il marito che, per evitare continue discussioni, l’aveva lasciata. Per arrivare all’affidamento esclusivo della figlia, Aurora Pereira sottopone la bambina ad lavaggio del cervello tanto da farle raccontare di presunte molestie che il padre le avrebbe fatto, pur non avendone memoria. Nel 1994 la sentenza definitiva sanciva l’affidamento esclusivo di Carolina alla madre, ma nel luglio del 1996 Enzo Alberto Tana viene scagionato dall’accusa di pedofilia nei confronti della figlia perché mancanza di prove. Carolina è una giovane donna che sta cercando di recuperare ciò che le è stato tolto: «Spero tanto che il mio amato papà, quello che tenevo per mano da bimba, il mio eroe che, mio malgrado, ho quasi ucciso dal dolore, possa un giorno perdonarmi e leggere la mia verità».

 

Il caso di L. M. [3] (Mazzoni, 2003)

L’autrice, in questo libro, illustra la procedura utilizzata nel caso di  una madre che ha denunciato e fatto condannare il padre di sua figlia L.M., una bambina di 6 anni, per abuso, al fine di ottenere la separazione. Ella ne parla con le amiche, mostra i lividi che avrebbe ipoteticamente riportato durante gli incontri con il marito, e racconta che egli definisce la loro figlia “sexy” sin da quando era molto piccola. Una delle amiche la spinge a raccontare i fatti a medici e assistenti sociali specializzati in casi di abuso, e il medico ritiene che gli i rapporti sessuali, di fatto, fossero avvenuti. Intanto, la bambina comincia a manifestare forte disagio nei confronti del padre, supportati dal comportamento violento esibito dallo stesso, e ciò viene preso come prova degli abusi, creando un allarmismo generale che va a rafforzare le convinzioni delle amiche, gli operatori del centro e della madre, che sporge denuncia. Così, la bambina viene ascoltata da diversi specialisti, ma il processo si basa sostanzialmente sulla testimonianza della madre e delle amiche, che riportano episodi incriminanti. Tuttavia, l’analisi dei racconti rivela la possibilità che l’accusa non abbia basi reali su cui fondarsi se non il reciproco convincimento consolidato dai mutui rinforzi tra le parti. Nonostante ciò, il padre viene comunque condannato, mentre la bambina è ancora in cura psichiatrica.

Vi sono alcuni aspetti relativi al caso che vale la pena sottolineare. Il primo è che la condanna non si basa su un’evidenza fisica, né qualsivoglia elemento esterno oltre le dichiarazioni della madre e delle amiche. Il secondo aspetto da sottolineare è il modo in cui è stata costruita poco a poco la certezza che abuso ci sia stato, grazie alla posizione granitica assunta da un’amica in particolare, che crede fermamente all’effettiva presenza di abusi in base all’aver assistito una volta ad una scena in cui era presente la bambina col padre in bagno, senza però che li abbia visti né nudi, né nell’atto di compiere azioni oscene. Il terzo aspetto riguarda il comportamento dei professionisti e dei centri preposti all’esame di casi di questo tipo, che non hanno mai preso in esame ipotesi alternative che avrebbero permesso di offrire una spiegazione diversa dei fatti. Anche in questo caso la certezza su ciò che potrebbe essere accaduto è in fondo basata su pregiudizi e su convinzioni personali e sociali relative a sé e al proprio ruolo. Il tutto avviene senza che venga preso in esame il danno possibile nel caso in l’amica, la madre e loro stessi avessero torto. Infine, si è dunque in presenza della condanna di un uomo che, in base ai fatti, avrebbe potuto anche essere realmente innocente, ed è sconcertante il fatto che gli operatori e i giudici abbiano accettato come totalmente plausibile storie bizzarre e impossibili, senza alcuna minima prova, a dimostrazione che il convincimento del giudice è sempre del parere che abuso vi sia stato e non ha alcuna importanza l’assenza di prove o logicità nell’analisi del relato.

[1] LaStampa.it, 18/09/2015

[2]  Il Fatto quotidiano, 19/02/2015

[3] Mazzoni, Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria, 2003

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