Nella mente del Serial Killer: tra psicologia, trauma e psicopatologia

Articolo di Arianna Leone

Una delle determinanti fondamentali per la spiegazione del comportamento del serial killer è certamente l’ambiente familiare di appartenenza. I principali modelli relativi all’omicidio seriale fanno riferimento più o meno direttamente all’ambiente familiare.[1][2][3][4] Tra questi, il modello più diffuso in Italia per la spiegazione del comportamento dell’assassino seriale è certamente il modello SIR di De Luca, ideato nel 2001 ed ampliato su di un campione di 2230 assassini seriali nel 2005. Tale modello si propone di individuare i fattori determinanti del comportamento del serial killer. Secondo il modello SIR ci sono tre grandi gruppi di determinanti di tale comportamento, vedremo che tra questi, la famiglia ed i genitori assume un ruolo determinante. È oggi impossibile sostenere teorie che facciano unicamente riferimento a fattori interni, psicologici, genetici e biologici nella spiegazione del comportamenti. I fattori sociali, contestuali, esterni giocano un ruolo ugualmente importante. Nel modello SIR di De Luca si annoverano tre tipi di fattori: i fattori socio-ambientali F(S), i fattori individuali F(I) e i fattori relazionali (R). Ognuno di questi ha al suo interno alcune sfaccettature, riassunte qui di seguito:

Fattore socio-ambientale F(S)

  • Ambiente familiare di provenienza
  • Livello d’inserimento nel tessuto sociale
  • Eventi predisponenti, facilitanti e scatenanti
  • Influenze subculturali
  • Ricompense e punizioni mediate dall’ambiente

Fattore individuale F(I)

  • Tratti psicologici e psicopatologici
  • Sessualità
  • Vita immaginativa (Fantasie)
  • Bisogni soggettivi (motivazioni)
  • Capacità di elaborazione dei traumi

 

Fattore relazione F(R)

  • Comunicazione dell’individuo con se stesso
  • Comunicazione dell’individuo con la famiglia di origine
  • Comunicazione dell’individuo con i partner sessuali
  • Comunicazione dell’individuo con la società
  • Modalità di apprendimento della violenza

Come è possibile osservare, la famiglia è una delle determinanti del comportamento del serial killer, essa non può spiegare completamente il fenomeno, in ogni caso, la scarsa qualità delle relazioni familiari è spesso presente nei serial killer. La famiglia, in questa classificazione, compare sia tra i fattori socio-ambientali che tra quelli relazionali. La famiglia come primo nucleo relazionale della persona è una determinante fondamentale del modo di comportarsi di una persona. In modo particolare, essa influenza lo stile di relazione adulta del soggetto. Il contesto familiare influenza nettamente il comportamento e anche le aspettative e modalità relazionali di una persona. Famiglie maltrattanti e abusanti rappresentano certamente fattori di rischio per la persona.

La ricerca di Ruben De Luca (2001, 2005) mostra infatti che i serial killer siano spesso caratterizzati da un ambiente familiare di provenienza avverso. Nella gran porzione dei casi analizzati, la famiglia di origine dell’omicida seriale non consente un adeguato sviluppo dell’empatia e del suo equilibrio. Spesso, le famiglie di appartenenza sono caratterizzate da abbandono, maltrattamenti, affettività nulla, abusi fisici, sessuali e psicologici. Il soggetto è di fatto esposto a numerosi traumi. Tuttavia, l’esposizione a questi traumi e l’esposizione a vissuti propri di famiglie multiproblematiche non spiegano l’intero fenomeno. Persone esposte a traumi o a condizioni avverse non sempre sviluppano esiti psicopatologici. La resilienza agli stressor ha un ruolo ugualmente importante. Infatti, uno scarso livello di resilienza, unito a traumi notevoli del soggetto può – in determinati casi – portare a situazioni estreme come quella dell’omicidio seriale, mentre un alto livello di resilienza, in condizioni di stress o trauma può addirittura rafforzare la personalità e la stabilità emotiva di un soggetto. Nei serial killer, i traumi che non riescono ad essere gestiti positivamente, creano le fondamenta del comportamento criminale. Il modello SIR, annovera tra i fattori tipici del comportamento dell’omicida seriale anche la relazione con la famiglia di origine. Tale relazione è da considerarsi bidirezionale, in quanto all’interno di un sistema come la famiglia tutti i membri si influenzano vicendevolmente. Non è determinante solo il modo in cui l’omicida seriale comunica, ma anche come la famiglia comunica con l’omicida seriale.  Uno degli esempi più comuni è rappresentato dal genitore (madre o padre) costantemente svalutante nei confronti del figlio. Tali tensioni e problemi possono compromettere in modo significativo il comportamento della persona, che può addirittura uccidere intenzionalmente persone “che gli ricordano la madre”. Il processo psicologico sottostante si basa sul fatto che il killer non è in grado di distruggere fisicamente la madre, ma ci riesce simbolicamente tramite la mediazione di un altro oggetto.

La famiglia è anche il luogo dove si costruisce lo stile di attaccamento del soggetto. Lo stile di attaccamento che si instaura tra la persona e una figura di accudimento ha un ruolo determinante per la spiegazione del comportamento nella vita adulta. Tale stile di attaccamento ha un ruolo determinante nella teoria che spiegano il comportamento dell’omicida seriale. Lo stile di attaccamento, infatti, ha una connessione con la relazione che l’offender andrà ad instaurare con la vittima. Una delle classificazioni più scientificamente valide al momento sulla relazione tra serial killer ed offender è certamente quella portata avanti da David Canter nel Regno Unito (1985, 1993, 2005), ripresa e studiata anche da Godwin in territorio statunitense (2001). Tale modello ipotizza che il killer possa considerare la vittima in uno di questi modi:

  • vittima come veicolo
  • vittima come oggetto
  • vittima come persona[5]

Nell’ambito della relazione del serial killer con la vittima, la vittima non viene considerata in nessun caso come una persona. I due stili principali sono pertanto: la vittima come veicolo e la vittima come oggetto.

Lo stile di relazione con la vittima è influenzata dallo stile di attaccamento.[6] La teoria dell’attaccamento descrive un sistema comportamentale che è parte integrante della natura umana. Dal punto di vista di Bowlby, l’obiettivo del sistema di attaccamento è quello di mantenere prossimità con la figura di accudimento principale (solitamente la madre, ma non sempre) al fine di assicurare protezione dai pericoli dei predatori. Lo stile di attaccamento in età adulta sono chiaramente legati agli attaccamenti passati con le figure genitoriali. Facendo riferimento ad un costrutto psicodinamico per la comprensione dell’aggressione, Meloy ha classificato le azioni aggressive degli omicidi seriali basandosi sulle relazioni oggettuali con la vittima. Lui definisce le relazioni oggettuali come le rappresentazioni internalizzate del sé e dell’altro, che comprendono anche i loro rispettivi complessi affettivi. Tale teoria è simile alla teoria della personalizzazione di Sullivan che fa riferimento ad uno schema cognitivo complesso e organizzato (una immagine mentale) di una particolare persona (non necessariamente reale).

Meloy suggerisce che nelle situazioni sociali l’attaccamento osservato può essere normale o patologico e può determinare il modo in cui il killer si approccia alla vittima. Meloy afferma, inoltre, che tali aspetti debbano essere studiati accuratamente per capire come il killer selezioni la vittima. Tali rappresentazioni fanno parte degli apprendimenti precoci che il soggetto riceve proprio in famiglia. Possiamo usare questo modello per fare inferenze sullo stile di ragionamento dell’omicida seriale, sul suo modo di selezionare le vittime specifiche e sul modo in cui esprime i suoi impulsi più primitivi ed aggressivi. L’interazione del serial killer con la vittima può essere studiata per esplorare come egli deumanizzi la vittima stessa. Meloy afferma che il serial killer proietta la sua rappresentazione interna sulla vittima, lasciando determinate tracce sulla scena del crimine. Per questo Meloy suggerisce che lo studio degli schemi di selezione della vittima possano aiutare le forze dell’ordine nel riconoscimento del crimine seriale tramite lo studio della predittività del crimine e la valutazione della pericolosità di un offender.[7]

Secondo la Facet Theory, lo stile di attaccamento è una variabile importante per la comprensione del crimine seriale.

La vittima viene considerata dal serial killer come veicolo quando l’uccisione ha il ruolo di trasmettere un messaggio[8]. Secondo Godwin, in questo caso ha un basso livello di attaccamento alla vittima. Di solito l’offender ha un buon livello di abilità sociali.

 

Secondo Canter il tema centrale delle storie di questi offender riflettono il modo in cui è scattata l’aggressione. Le narrative in questo caso fanno emergere in grande misura i limiti del loro stile di relazione e di attaccamento, in quanto mostrano uno sfruttamento della donna e una mancanza di compassione. Nel caso della vittima come veicolo il livello di attaccamento che c’è nei confronti della vittima è di tipo impersonale. Ad esempio, il voyeurismo è una forma di comportamento che esprime un attaccamento distanziato, impersonale, in quanto non c’è prossimità tra la vittima e l’offender. Secondo Shapiro anche la forma del sadismo feticistico può essere inquadrato in questa modo. È ipotizzabile che i killer seriali che vedono le proprie vittime come veicoli uccidano ripetutamente per vivere nuovamente dei conflitti di attaccamento pauroso in modo impersonale.[9] Lo stile di attaccamento pauroso entra in gioco negli individui che esibiscono uno stile impersonale di relazione. Questo tipo di persona è spesso introversa, chiusa, socialmente evitante.[10] La persona con uno stile di attaccamento pauroso ha uno stile di relazione orientato all’evitamento del conflitto e ha una mancanza di intimità sociale. Per questo tipo di soggetto immaginare una vulnerabilità nelle relazioni intime provoca ansia. Il tipo di attaccamento pauroso teme fortemente di essere rifiutato. Le variabili che caratterizzano l’attaccamento nell’ambito degli omicidi seriali sono la scarsa intimità con la vittima e lo scarso livello di gestione della situazione, in quanto si tratta di crimini che hanno un elevato impatto emozionale sull’offender.

Una seconda concettualizzazione è quella della vittima come oggetto. Canter descrive un secondo stile di offesa che riguarda la reificazione della vittima. Canter suggerisce che lo stile di relazione di questo tipo di offender sia caratterizzato da un livello basso di intimità. La vittima è vista come un oggetto che viene abusato per piacere personale. Nella sua descrizione della vittima come oggetto, Canter suggerisce che questo tipo di offender crei contatto con la vittima in modo opportunistico piuttosto che con altre strategie (ad es. stalking). Le relazioni personali per questo tipo di offender sono difficili. L’offender, si percepisce in modo separato dalla vittima, ma non è consapevole della sua solitudine perché è molto focalizzato su se stesso. La classificazione di Canter della vittima come oggetto, è simile alla rappresentazione di Meloy degli serial killer affettivi, dove le emozioni che si verificano sembrano non avere uno schema specifico.

Godwin (2000) ipotizza, invece, che questo tipo di serial killer abbia un alto attaccamento personale nei confronti della vittima come oggetto, la quale una serie di processi che portano l’offender ad avere un attaccamento evitante (Gifford, O’Connor, 1987).

Lo stile di attaccamento evitante si applica alle persone che esibiscono controllo, si tratta di persone calcolatrici che ostentano sicurezza di sé (Bartholomew, 1990). Gli offender con questo stile di attaccamento sono in grado di isolare le proprie reazioni affettive dalle rappresentazioni cognitive degli eventi precoci e sviluppano una visione di sé caratterizzate dall’imminente evitamento. Si tratta di persone che hanno tenuto in passato uno stile di relazione superficiale con gli altri, ed è questo il motivo principale per cui riescono ad adescare le vittime, utilizzando conversazioni e stratagemmi. La persona evitante ha una visione di sé e degli altri con basso livello di attaccamento nelle relazioni di tutti i giorni. Questa forma di depersonalizzazione viene traslata anche nell’omicidio. La ricerca di Birtchnell[11]mostra che la depersonalizzazione sia un modo per negare l’emozionalità dell’altra persona trattandola come un oggetto. Questo tipo di comportamento è definito da Laing come reificazione, ovvero la considerazione della persona come un oggetto di interesse (1965).

Per esempio Gacono e Meloy (1997) affermano che la maggioranza dei criminali abbiano uno stile distaccato dalle vittime e sembrano avere una scarsa capacità di avere legami affettivi con gli altri. Inoltre, Meloy afferma che tramite l’identificazione sadica può essere mantenuto un atteggiamento freddo e distaccato che trasforma la ricerca di relazioni basate su relazioni di bisogno affettivo caratterizzate da un grado di potere (dominanza e di sottomissione).

In termini invece di comportamenti quotidiani, l’offender che vede la vittima come oggetto è evitante con gli altri ed effettivamente ha un alto grado di attaccamento personale quando affronta le vittime. L’omicida può selezionare le vittime che hanno specifiche caratteristiche (legate all’oggetto fantisticato), in quanto solo tali caratteristiche creano gratificazione sessuale. Meloy afferma che la fantasia più frequente è legata al controllo degli altri e alla denigrazione degli altri.

[1] E.W. Hickey, Serial Murderders and their victims, Wadsworth, Californi, 1991

[2] S. J. Giannangelo, The Psychopathology of serial murder. A Theory of Violence.Wesport, Praeger, 1996

[3] Hilman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997

[4] R. De Luca, Anatomia del serial killer, Giuffrè Editore, Milano, 2001

[5] D. Canter, Investigative, Psychology Offender profiling and the analysis of criminal action, Wiley & Sons, West Sussex, 2005

[6] G. M. Godwin, Hunting Serial Predators: a multivariate classification approach: profiling violent behavior, CRC Press: LCL, 2000

[7] J.R. Meloy, Violent Attachments, Aronson, New Jersey, 1997

[8] D. Canter, Facet Theory: Approaches to Social Research, Springer Verlag, New York, 1985.

[9] R. Gifford & B. O’Connor, The interpersonal circumplex as a behavior map, Journal of Personality and Social Psychology, 1987

[10] K. Bartholomew, Avoidance of intimacy: an attachment perspective, Journal of Social and Personal Relationship, 1990

[11] J. Birtchnell, Attachment-Detachment, directedness-receptiveness: a system for classifying intepersonal attitudes and behavior, British Journal of Medical Psychology, 1987

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