Cosa accade nel cervello di chi mente

Articolo di Cecilia Marchese

L’utilizzo delle neurotecnologie sugli individui presenta problematicità sia al livello dell’attendibilità della ricerca, che dell’interpretazione dei risultati della ricerca.

Come affermato da uno dei primi studiosi del brain imaging, Marcus Raichle, «quelle immagini così seducenti sono al contempo buone e cattive» (citato in Lorenzo d’Avack, 2013, 14). Molti riconoscono che tali esperimenti, seppure interessanti, esigono un’ulteriore maturazione scientifica prima di poter essere ritenuti decisivi per un ‘cambiamento di paradigma’ nell’accertare verità e menzogna.

Piuttosto per ora possiamo solo esser aiutati a comprendere gradualmente le caratteristiche organiche, chimiche e psicologiche del cervello e non a ricevere le chiavi per aprire i segreti del comportamento umano o le sue motivazioni. Il fatto che una determinata area del cervello evidenziata da neuroimaging si attivi durante la formulazione di un pensiero o l’esecuzione di un compito specifico, non
consentirebbe di desumere con certezza che tale regione localizzata sia l’unica coinvolta o l’unica responsabile: la correlazione non è causazione (Lorenzo d’Avack, 2013).

neuroscienze mentire

Al di là che l’uso di “macchine della verità” sia non sia accolto da gran parte degli ordinamenti europei (tra cui quello italiano) è necessario chiedersi quali sia il limite al di là del quale l’uso di alcune tecnologie rappresenta una violazione della dignità soggettiva ed altresì quale sia il nuovo bilanciamento fra la ricerca della verità e garanzia della dignità che tali tecnologie impongono di stabilire.

Il processo infatti è un mezzo affinché si possa fare giustizia rispettando la dignità del reo, «la ricerca della verità non può mai prescindere dalla garanzia della persona imputata» (Macioce, 2013, 91). L’imputato non è oggetto di prova né l’oggetto dell’azione processuale ma è il protagonista del processo e della ricerca argomentata della verità, perciò ogni tecnica che permettesse di trovare la verità, anche estorcendola al soggetto, o che consentisse di fare a meno della collaborazione dell’imputato, rendendo costui un oggetto passivo di indagine, sarebbe in contrasto con la struttura del processo e le garanzie del procedimento (Macioce, 2013).

Già molti decenni addietro i giuristi discutevano se fosse legittimo estorcere la confessione con la manipolazione della psiche, con l’ipnosi e l’uso di stupefacenti che agissero sulla coscienza; fra gli studiosi prevalse l’idea che tali pratiche non dovessero ammettersi nei processi, per la loro incerta capacità di garantire l’effettiva scoperta della verità e per il riconoscimento dell’inviolabilità della coscienza del reo.

Con l’uso delle neuroimmagini riduzionisticamente la coscienza è identificata con il dato neurologico che, pertanto, può essere dimostrato e la verità e la menzogna sono del tutto dipendenti dalla dimensione comunicativa. Come spiega Fabio Macioce (2013), ricercatore di Filosofia del Diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma Tor Vergata, mentire, nella prospettiva delle neuroscienze è semplicemente un’operazione interna al cervello umano, legata ad un’attività circolatoria o elettrica particolare la quale, pertanto, può essere visualizzata tramite le neuroimmagini.

Mentire a se stessi o agli altri, dal punto di vista neuroscientifico, è quindi la stessa cosa poiché l’attività registrata nel cervello è uguale. Tuttavia «non solo la menzogna non è questo, ma più di tutto non è questo la verità» (Macioce, 2013, 95).

La verità e la menzogna, come detto, hanno la peculiare dimensione comunicativa e da essa traggono il loro valore. Dire la verità implica dirla a qualcuno così come mentire. Se si prescinde da questo valore metafisico la verità e la menzogna diventano attività speculari e prive di senso. Ritenere perciò che il cervello dell’imputato possa essere scannerizzato alla ricerca di tracce di verità o di menzogna, al di là di quanto ciò sia plausibile, significa negare all’imputato la sua libertà morale, e la sua dignità. «Entrambe infatti si fondano sulla capacità di
partecipare come soggetto attivo alla comunicazione processuale e dunque sulla sua capacità di dare senso al reale qualificandolo come vero o falso» (Macioce, 2013, 95).

Sul piano delle tecnologie di memory-detection, invece, i problemi connessi alla loro utilizzabilità processuale sono ancora più complessi. Le tecnologie anche qui sono varie:

  • il Guilty Knowledge Test, nel quale al soggetto vengono mostrate immagini dal contenuto indifferente per verificare se rispetto ad alcune di esse, il soggetto manifesti una certa familiarità, resa evidente dall’andamento di un’onda elettrica cerebrale.
  • il Brain Fingerprint (già ammesso da alcune corti americane) ed il Brain Eletrical Oscillations Signature Test che, mediante tecniche di mappatura del cervello e degli impulsi elettrici, potrebbero consentire l’individuazione di ricordi che rappresentano indizi forti di colpevolezza.
  • Ancora lo Autobiographical-IAT, una tecnica che consente di misurare la solidità e la forza associati di alcuni concetti, sulla base della struttura del nostro sistema nervoso e del fatto che i tempi di reazione sono più e meno rapidi proprio in ragione della forza di tali associazioni; con tale tecnica è possibile valutare la presenza di una certa memoria autobiografica e distinguere fra amnesie reali ed amnesie intenzionali.

In tal caso i problemi sono ben maggiori perché ancor più forte è il rischio di degradare l’imputato a mero oggetto dell’azione processuale.
Un problema ulteriore è l’uso delle neuroimmagini per la valutazione della giuria. Il senso dell’uso della giuria sta nell’idea che tale giudizio sia tanto alla portata di tutti quanto più sia veridico e nell’idea che la percezione della verità e della giustizia non possa che essere alla portata di tutti, che la capacità di fondarsi sul senso comune, anzichè su specifiche competenze tecniche, sia la migliore garanzia della bontà del verdetto (Macioce, 2013).

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