trauma psicologico

Tecniche di ipnosi per rimuovere il trauma

L’allievo di Charcot, Joseph Babinski, divenne suo successore alla direzione della Sâlpetrière. Nutrendo dei seri dubbi sull’autenticità dei sintomi delle pazienti isteriche che risultavano plateali, artefatti e teatralmente esagerati, si dedicò allo studio della simulazione e della suggestionabilità (Babinski, 1901, 1909), occupandosi anche del trattamento della simulazione (Babinski & Froment, 1918).

Un altro allievo di Charcot, Pierre Janet (1889), continuò i suoi studi sull’isteria e sul trauma, aggiungendo un contributo personale che si rivelò importante nella spiegazione di alcuni disturbi post-traumatici.

Si trattò della teoria delle “idee fisse inconsce” costituite da pensieri ed emozioni relativi ad esperienze spesso traumatiche che il paziente non ricordava, ma che continuavano ad operare sotto la soglia della coscienza interferendo con le sue attività quotidiane. Tali idee non per forza coincidevano con la realtà biografica dei fatti.

Charcot per primo aveva parlato di, choc nerveux, uno shock ricondotto dal neurologo francese ad un trauma che poneva il paziente in una condizione mentale definita “ipnoide”, in quanto simile a quella indotta dall’ipnosi.

I sintomi dei pazienti che avevano subìto un trauma erano spesso simili a quelli lamentati dai pazienti con isteria, per questo nell’ambiente clinico iniziarono ad essere formulate ipotesi sull’origine traumatica dell’isteria.

Anche secondo Janet, le idee fisse subconscie che derivavano da traumi passati provocavano l’isteria e le crisi isteriche non erano altro che “recitazioni mascherate dell’idea fissa subconscia” (Godino & Toscano, 2007, p.52).

Quindi, se Charcot aveva già individuato nel trauma l’origine di “idee fisse inconsce” nucleo di alcune nevrosi, Janet (1889) documentò le relazioni tra trauma e sintomi isterici, desumendo come un’esperienza emotiva intensa potesse destabilizzare la persona.

Quando un avvenimento non può rientrare nelle categorie di pensiero possedute dalla persona, risulta difficile da elaborare e integrare con gli altri avvenimenti della vita, e quando è eccessivamente sconvolgente e intenso, può provocare una regressione a modalità di funzionamento primitive, antecedenti a quelle adulte.

Ancor oggi questi sono i presupposti teorici e clinici dei disturbi post-traumatici (American Psychiatric Association, 2013). Essi sono reazioni ad un’esperienza estrema che accade all’improvviso e sorprende la persona sprovvista degli strumenti per inquadrarla, per assegnarvi un significato e per integrarla con le esperienze precedenti.

Il ricordo dell’evento traumatico, non potendo essere opportunamente compreso, elaborato e organizzato in memoria, può innestarsi nel corpo, generando sintomi fisici, cognitivi, emotivi e comportamentali, come appiattimento affettivo e depressione, iperattivazione dell’organismo causato dall’ansia e dal timore che l’evento possa ripetersi, paralisi, dolori psicosomatici e difficoltà a concentrarsi.

In sintesi, i sintomi post-traumatici possono risultare così pervasivi da compromettere il funzionamento globale della persona (Van der Kolk, McFarlane, & Weisaeth, 1996).

Janet documentò 591 casi d’isteria, caratterizzati da questo tipo di sintomi che impedivano al paziente di funzionare adeguatamente, poiché costantemente sorpreso da angosce, emozioni violente e distrazioni improvvise sulle quali egli non aveva possibilità di previsione e controllo.

Effettuando un’accurata anamnesi di questi pazienti e interrogandoli sotto ipnosi per rievocare esperienze del passato e dell’infanzia, Janet era risalito ad un’esperienza traumatica in 257 di questi casi clinici. Esisteva dunque realmente una correlazione tra trauma e sintomi isterici, i quali tendevano a presentarsi in persone che avevano subito un trauma e poi l’avevano rimosso dalla coscienza.

Janet ipotizzò quindi che il paziente traumatizzato non riuscisse a integrare esperienze traumatiche nelle percezioni attuali, perché non catalogabili in base agli schemi di significato consolidati, né a trasformarle in ricordi. Esse, quindi, rimanevano vincolate nel subconscio, “dissociate” dallo stato cosciente e dal controllo volontario.

Le tracce mnemoniche si delineavano come “idee fisse inconsce”, che rimanevano sotto la soglia della consapevolezza e continuavano a interferire sotto forma di percezioni e preoccupazioni ossessive (Janet, 1889).

I pazienti risultavano iper-reattivi a qualsiasi elemento che potesse ricordare il trauma, che suscitava una reazione disfunzionale, eccessiva rispetto alle effettive caratteristiche dello stimolo, e questa reazione  d’angoscia prendeva il sopravvento (Janet, 1889).

Gli sforzi compiuti dal paziente per mantenere i ricordi traumatici separati dalla coscienza esaurivano l’energia psichica impedendo d’investirla in altre attività. I pazienti traumatizzati erano così frequentemente e intensamente occupati a gestire i sintomi post-traumatici che non avevano energie residue da dedicare ad altro. In altre parole, avvenimenti traumatici emotivamente forti venivano dissociati dalla coscienza e, seppur inconsci, continuavano a danneggiare  l’individuo (Perussia, 2013).

Sotto ipnosi, le idee fisse subconsce, riuscivano a riemergere. Quando il paziente usciva dallo stato ipnotico provava sollievo, anche se non ricordava cosa fosse accaduto mentre era ipnotizzato.

L’ipnosi consisteva nella formazione di una coscienza secondaria, dissociata, con una sua propria memoria provata dall’esistenza di amnesia post-ipnotica e una sua propria attività: un automatismo psicologico.

L’atto automatico o subcosciente si riscontrava nella catalessia e nel sonnambulismo sotto forma di “automatismo totale”, ma anche nella semplice distrazione o in immagini mentali che irrompono improvvisamente e inaspettatamente nel pensiero, come “automatismo parziale”. Esempio classico di questa seconda forma di automatismo è la suggestione post-ipnotica. L’automatismo psicologico era inconscio, o meglio subcosciente. Esso rappresentava, secondo Janet, la forma più elementare della psiche di ogni individuo, coesistente e in opposizione alla forma più evoluta della psiche, quella cosciente e critica (Godino & Toscano, 2007).

Janet sosteneva che la potenzialità terapeutica nel trattamento dei sintomi dissociativi post-traumatici, scaturiva dall’applicazione di tecniche suggestive e dalla relazione di fiducia che si stabiliva tra paziente e terapeuta. Ciò consentiva al paziente di abbandonarsi al sonno e di rispondere alle domande che gli venivano poste recuperando contenuti profondi.

La relazione tra il paziente e il terapeuta era quindi fondamentale.

Janet sottolineò l’importanza di ricorrere all’ipnosi solo dopo aver impostato un rapporto di empatia con il paziente. Egli riteneva che i primi incontri dovessero essere dedicati a costruire un’alleanza e quelli immediatamente successivi a mantenerla, sempre preservando la differenza dei ruoli, evitando l’eccessivo coinvolgimento affettivo del paziente e la sua invadenza nella vita privata del terapeuta.

Seguivano sedute vere e proprie d’ipnosi che potevano essere gradualmente diradate per prevenire la dipendenza del paziente, sollecitare la sua autonomia e dotarlo di strumenti di autogestione delle difficoltà che gli avrebbero consentito di concludere la terapia.

I risultati a cui pervenne Janet sono tuttora riconosciuti dalla comunità scientifica e confluiscono nel filone degli studi dedicati al trauma e ai disturbi post-traumatici (Van der Kolk et al., 1996).

Le conclusioni di Janet furono una delle basi da cui Freud elaborò la sua teoria (Godino & Toscano, 2007).

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