Tecniche e Terapia di Ipnosi Ericksoniana

Le tecniche ipnotico-suggestive ericksoniane

La vita non è qualcosa cui si possa

dare una risposta oggi.

Bisogna godere del processo dell’attesa,

del processo di divenire ciò che si è.

Non c’è nulla di più delizioso

che seminare dei fiori senza sapere

che specie di fiore crescerà.

 

Milton Erickson

 

 

2.1 Milton Erickson

Milton Erickson, nacque in Nevada nel 1901: dislessico, amusico, affetto da sordità tonale e daltonico. Preferiva vestire di viola, perché era l’unico colore che distingueva (Zeig & Munion, 1999).

I suoi disturbi congeniti, le sue malattie e le sue esperienze di vita incisero profondamente sullo sviluppo del suo metodo terapeutico. La sua diversità gettò le basi della sua ricerca che poggiava sulla profonda convinzione della relatività della percezione umana.

La realtà non è qualcosa di oggettivamente conoscibile, la percezione del mondo è soggettiva (Godino & Toscano, 2007), dipende cioè dallo schema mentale che il soggetto usa per interpretarla in quel determinato momento della sua vita.

Erickson era convinto che nessuna teoria psicologica fosse in grado di spiegare l’enorme diversità esistente tra le persone e i loro problemi, per questo ogni suo intervento era fatto su misura sul paziente (Mammini & Balugani, 2014).

All’età di 17 anni, rimasto completamente paralizzato e con l’uso della parola compromesso a causa una grave poliomielite, scoprì nuove vie per accedere alle smisurate risorse del suo inconscio e, contro ogni predizione medica, non solo sopravvisse ma riprese il completo controllo di gambe e braccia. Un ruolo fondamentale nella sua guarigione l’ebbe ciò che Bernheim aveva chiamato ideodinamismo. Secondo tale principio ogni idea, inconsciamente, tende a esplicitarsi a livello neuronale e a divenire atto, cioè movimento, immagine, emozione o percezione.

Una sera Erickson era seduto al centro di una stanza sulla sua sedia a dondolo incapace anche del più piccolo movimento, quando desiderò ardentemente avvicinarsi alla finestra per avere almeno il piacere di guardare il panorama, e la sedia, di lì a poco, cominciò a dondolare. Fu in quel momento che il ragazzo capì che poteva guarire.

Per mesi guardò le sue mani ricordando l’esperienza sensoriale e motoria passata che gli aveva dato il contatto con gli oggetti, e i movimenti che aveva compiuto prima di ammalarsi. Ciò che l’aiutò a guarire fu, inoltre, l’osservare la sorellina che stava cominciando a camminare (Erickson & Kenney, 2006).

Oggi sappiamo che nell’esecutore di un’azione si attivano gli stessi neuroni – i neuroni specchio – che si attivano anche nell’osservatore della medesima azione. Essi ebbero senz’altro un peso nella sua guarigione.

Fu così che a poco a poco il suo corpo cominciò a muoversi, prima a piccolo scatti, poi con movimenti sempre più ampi.

Erickson allo stesso modo in cui trasformò il suo corpo immobilizzato dalla paralisi, insegnando alla sua mente inconscia a recuperare le potenzialità perdute, così ideò un metodo per modificare gli statici e disadattivi protocolli scritti nelle menti dei suoi pazienti perché essi potessero superare i loro limiti.

Altre esperienze di vita condizionarono il suo futuro metodo terapeutico. Prima che iniziasse il processo di auto-guarigione, mentre il suo corpo era ancora completamente paralizzato ed egli era intrappolato al suo interno, in un periodo in cui non vi erano radio o tv, cominciò a prestare attenzione alle persone. Osservava tutto il giorno i suoi fratelli e le sue sorelle svolgere le loro attività. In questo modo si rese conto che quello che le persone dicono non sempre corrisponde a ciò che di loro dice il loro corpo. Egli capiva dalla velocità dei passi di chi entrava in casa, se era ansioso, stanco, se aveva già cenato oppure no. Vedeva delle cose per cui la maggior parte di noi è cieca e, molti anni più tardi quando già esercitava, affermò che solo chi comprende a fondo il linguaggio del corpo può esercitare la professione di psicoterapeuta, perché quest’ultimo svela molto di più sulle persone delle domande dirette (Erickson & Kenney, 2006).

Un’ulteriore esperienza, che condizionò la sua vita professionale, fu un viaggio in canoa che intraprese da solo d’estate, da giugno a settembre, alla fine del primo anno di college (Zeig & Munion 1999).

Seguendo il consiglio di un medico, decise che quello era l’unico modo per rafforzarsi facendo dell’esercizio fisico all’aperto che non coinvolgesse, però, troppo le gambe. Esse erano ancora molto deboli, al punto di non permettergli di trascinare la canoa a riva da solo. Proprio a causa di questo bisogno costante d’aiuto, ma essendo troppo orgoglioso per chiederlo direttamente, escogitò un modo per far sì che le persone glielo offrissero di loro spontanea volontà. Senza mai chiedere nulla direttamente, imparò a spingere gli altri a fare ciò che voleva, conscio del fatto che la gente preferiva aiutare se poteva offrire direttamente il suo aiuto, piuttosto che se questo veniva esplicitamente richiesto (Erickson & Kenney, 2006).

Questo lo portò più tardi all’utilizzo della suggestione indiretta in ipnosi indotta, appunto, non tramite comandi diretti ma indirettamente.

Erickson era convinto che solo l’induzione indiretta potesse portare ad un reale cambiamento essendo, come sarà chiarito più avanti, la sola capace di ristrutturare i modelli mentali del paziente ormai obsoleti, e di fargli produrre inconsciamente la soluzione al suo problema.

All’Università del Wisconsin partecipò al seminario sull’ipnosi tenuto dall’allora luminare Clark Hull e, convinto di poter superare il suo maestro, utilizzò ciò che aveva imparato nei corsi di Hull per sviluppare il suo metodo unico. La sua fu una rivoluzione paradigmatica nella storia dell’ipnosi, nacque così la “Nuova Ipnosi” (Araoz, 1985) che prevedeva l’adattamento della terapia alla natura individuale di ogni singolo paziente.

Erickson considerava i suoi pazienti persone, non clienti, bensì esseri umani unici e irripetibili, tanto quanto lo erano le loro impronte digitali.

Sapeva che comunicare con essi in modo standardizzato sarebbe stato controproducente, per questo con ognuno di loro costruiva una relazione empatica e unica.

La stessa induzione della trance non poteva essere pensata come raggiungibile attraverso un processo stereotipato e universale. Le tecniche ipnotiche utilizzate da Erickson erano diverse per ogni individuo e secondo le differenti situazioni in cui il terapeuta entrava in contatto con il medesimo paziente. Erickson dichiarò che egli stesso entrava in uno stato di trance quando parlava con i suoi pazienti e che era il suo inconscio a parlare per lui.

L’osservare il paziente era di fondamentale importanza,  un’osservazione più profonda e attenta ai dettagli poteva avvenire solo se l’ipnotista stesso era in trance (Zeig & Munion 1999) ed entrava in simbiosi con il suo paziente in un sistema che li comprendeva entrambi (Madonna 2003).

Erickson pensava che ogni persona sperimentasse stati alterati di coscienza continuamente nel quotidiano. Egli stesso usava un linguaggio simile a quello di una normale conversazione per indurre una trance. Secondo quest’approccio, detto “naturalistico”, il comportamento e la personalità del paziente venivano accettati e utilizzati ingegnosamente come concreto aiuto all’induzione (Loriedo, 2006a). L’approccio naturalistico era fondato infatti sull’utilizzazione, una strategia clinica ideata da Erickson che prevedeva l’uso delle peculiarità del paziente durante la terapia.

Erickson, di fatto, considerava naturali solo le terapie basate sul sinergismo tra terapeuta e risorse del paziente. Egli utilizzava le attitudini, i modi di fare, i sentimenti e i pensieri del paziente come parte essenziale della terapia che proprio da essi prendeva l’avvio. In modo del tutto rivoluzionario il terapeuta si metteva da parte per rendere il paziente protagonista e modellare su di esso una terapia personalizzata (tailoring).

L’elemento chiave dell’intervento naturalistico ericksoniano non è affatto la tecnica, come molti sembrano aver creduto finora, ma l’utilizzazione delle risorse personali in cui risiedono le capacità autocurative dell’individuo e le sue potenzialità di superare le difficoltà che le condizioni avverse attraversate nel corso del ciclo di vita impongono (Loriedo, 2004, p.33).

Erickson colloquiava con i suoi pazienti in modo naturale, narrava storie, racconti che sembrava non avessero nulla a che fare con la terapia; usava metafore e paradossi e altre tecniche che saranno ampiamente descritte più avanti.

Succedeva così che il paziente ascoltando storie di vita e aneddoti durante la seduta, non si rendesse conto di entrare ed uscire a ripetizione dalla trance (Zeig & Munion 1999).

Il terapeuta riusciva ad insinuarsi nel suo inconscio e a ristrutturarne i modelli mentali disadattivi e limitanti. Erickson non pensava che rendere conscio l’inconscio potesse avere un qualche valore terapeutico. La vera arte dell’ipnoterapia, invece, stava nel ristrutturare creativamente ciò che già possedeva l’individuo, le sue risorse, le sue potenzialità inconsce sopite, eliminando i limiti dovuti alla sua visione del mondo.

Erickson osservava il suo paziente, ne carpiva lo stile linguistico e lo utilizzava per entrarci in comunicazione e indurre la trance in modo colloquiale (Perussia, 2013).

Utilizzò, ad esempio, gli schemi linguistici coscienti di uno schizofrenico per entrarvi in contatto.

Sostenne che solo quando una persona è in trance, lungi dall’essere un automa, è propriamente se stessa. Considerava l’Io cosciente, con i suoi pregiudizi e i suoi schemi rigidi, il vero responsabile dei nostri limiti.

La terapia era rivolta a tutti perché non solo guariva ma faceva anche evolvere, crescere, andare oltre se stessi.

A 51 anni ebbe una seconda poliomielite e questa volta la paralisi lo costrinse per sempre in sedia a rotelle; nonostante questo rimase un uomo felice, grato di essere vivo, e non smise mai di esercitare la sua attività. Nell’ultima fase della sua vita, dopo essere stato un ricercatore ed un terapeuta, tenne molti seminari. Le persone giungevano da tutto il mondo per ascoltarlo.

Venuto dall’estrema povertà e non propriamente in salute, fu un uomo che andò sempre oltre se stesso (Erickson & Kenney, 2006).

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