Neurobiologia e genetica della violenza

Neurobiologia e genetica della violenza.

 Articolo di Giuseppina Seppini

“Non credo che ci sia qualcuno di voi che dubiti che [Jeffrey Landrigan] stesse solo compiendo il suo destino…Io credo che, da quando è stato concepito, sia diventato come ero io. L’ultima volta che l’ho visto ea un bambino, dormiva nel suo letto. Sotto il suo lettino, io ci tenevo due calibro 38 e dell’eroina sintetica. Ecco su cosa dormiva[1]”.

Darrel Hill[2]

 

“L’esattezza non è la verità”

Henri Matisse

 

  • Genetica della violenza

 

Influenza genetica e ambiente. Quale la loro influenza nello sviluppo del comportamento violento o aggressivo antisociale?

Nel 1961 emerse all’attenzione degli studiosi la condizione “XYY” (figura n. 1), la cosiddetta “teoria dell’eccesso dei cromosomi maschili”, che si manifesta quando a causa di “errori” nella trasmissione cromosomica, al cromosoma “X” non si accoppia solo una “Y”, bensì due, associando questa anomalia soprannumeraria al comportamento violento.

Nel 1965 venne pubblicato su Nature uno studio condotto su di una popolazione di prigionieri scozzesi, detenuti all’interno di una struttura per malati mentali: il 4% degli stesi detenuti risultava possedere un corredo cromosomico con una “Y” in più.

Ma fu il caso Speck[3] a portare agli onori della cronaca la correlazione esistente tra alterazione cromosomica “XYY” e seme della violenza, anche se Eric Engel nel 1970 dimostrò che lo stesso Speck fosse in realtà un comune maschio “XY”. La correlazione esistente tra cromosomi “XYY” e violenza venne sfatata in studi condotti successivamente, non essendo la stessa correlazione, supportata da forti evidenze scientifiche, anche se studi recenti (Ross et al, 2012), hanno dimostrato che soggetti dotati di cromosoma “XYY” risultano essere percentualmente più aggressivi e più inclini alla delinquenza di altri uomini, anche se esistono altre condizioni genetiche che potrebbero influenzare l’adozione di comportamenti violenti.

 

Figura n.1 Anomalia Cromosomica XYY[4].

 

Secondo uno studio condotto da Adrian Raine nel 2002, su 1210 gemelli[5] di anni 9, reclutati nello Stato della California, il comportamento antisociale può essere correlato a fattori genetici.

Il tasso di ereditabilità del comportamento antisociale, ovvero le variabili ascritte allo stesso comportamento, erano tra il 40% e il 50%, riconducibili appunto a fattori genetici, dimostrando che fattori ambientali potevano incidere del circa il 4% su possibili variazioni in termini percentuali. Successivamente Raine[6] e collaboratori avevano proceduto inoltre, a misurare il livello di aggressività sia proattiva, sia reattiva, dimostrando che il comportamento violento di tipo reattivo ha un’ereditabilità del 38%, mentre quello proattivo del 50%. Anche studi su gemelli effettuati in periodi successivi, hanno confermato quanto scoperto da Raine: una meta-analisi condotta su 103 studi realizzati, ha confrontato l’ereditabilità del comportamento aggressivo, con l’infrazione delle regole e del comportamento non aggressivo, dimostrando che quest’ultimo è ereditabile per il 48% (con un’influenza del contesto condiviso del 18%)  e quello aggressivo del 56% (con un influenza ambientale invece del  18%).

Bouchard e McGue studiosi di genetica comportamentale della University of Minnesota, attraverso uno studio condotto nel 2003, hanno ipotizzato che nel soggetto adulto le influenze agite dal contesto condiviso risulterebbero essere pari a zero.

Giù in uno studio condotto nel 1984, su una popolazione di bambini adottati e figli di genitori che avevano riportato almeno una condanna, Mednick, Gabrielli e Hutchings avevano dimostrato che sarebbe stato il patrimonio genetico a influenzare la commissione di reati.

Brunner in uno studio pubblicato nel 1993 sulla rivista “Science”, ipotizzò che una mutazione del gene[7] MAO-A[8], che in condizioni di normalità produce l’enzima mono-aminossidasi A, interferiva con le funzioni di altri neuro-trasmettitori, determinando l’insorgenza di comportamenti a rischio, deficit dell’attenzione, iperattività, alcolismo, abuso di droghe, impulsività e abbassamento del QI[9], spesso ritenuto fattore di rischio per l’insorgenza del crimine e della violenza. I differenti livelli di MAO-A sono da ricondurre ad un polimorfismo genetico; bassi livelli di MAO-A sono associati secondo Caspi McClay e Moffit (2002) allo sviluppo di comportamenti antisociali e violenti, soprattutto in presenza di importanti abusi pregressi, collegando gli stessi bassi livelli di MAO-A al disturbo di personalità antisociale (Beach et al, 2010), anche a prescindere dalla differenza di genere (Eisenberger et al, 2007). Altri studi enfatizzano la relazione tra bassi livelli di MAO-A e comportamento violento a prescindere dagli abusi subiti (Alia-Klein et al, 2009).

Anche altri geni 5HTT[10] (figura n.2), (Cadoret et al, 2003), DRD2[11] (Beaver, et al 2010). DAT1[12] (Lee F.S.L. et al, 2007) (Lee S.S. et al, 207), DRD4[13] (Gadow, DeVincent, Olvet, 2010), sembrano essere riconducibili a comportamenti antisociali e criminali, attraverso la funzione di regolazione di due importanti neurotrasmettitori cerebrali, dopamina e serotonina.

Figura n.2 Modulazione serotoninergica dell’aggressività impulsiva.

Risulta però indispensabile sottolineare, che gli apporti forniti dalle attuali tecniche medico-scientifiche, neuroimaging[14] (figura n.3) e genetica molecolare, non devono far protendere per

l’adozione tout court di un paradigma determinista di lombrosiana memoria[15],  poiché l’assunzione di un’impostazione riduzionista, negherebbe la responsabilità connessa all’esercizio del libero arbitrio.

Si pensi inoltre, a quali potrebbero essere le ripercussioni in ambito giuridico e penale, se si sposasse esclusivamente la tesi, di un modus operandi criminoso, biologicamente determinato e a quali conseguenze ciò avrebbe nell’attribuzione e riconoscimento della responsabilità penale, dell’imputabilità, nonché delle possibili pene da comminare.

Studi recenti hanno altresì dimostrato, che la genetica e l’ambiente, influenzano l’adozione di comportamenti aggressivi in situazioni di frustrazione e che la funzione del sistema limbico, per quanto concerne la manifestazione di questi comportamenti risulta essere sostanziale (Fabbri, Cimino, Serretti, 2013), (Pellegrini, Pietrini, 2010).

[1]             Tratto da 60 Minutes: Murder Gene, CBS Television, 27 febbraio 2001. In L’Anatomia della Violenza. Le radici biologiche del crimine. A. Reine, Mondadori, 2016.

[2]             Darrel Hill era il padre biologico di Jeffrey Landrigan, omicida come il padre, ma cresciuto all’interno di una famiglia adottiva, che già dall’età di due anni aveva cominciato a manifestare il suo carattere aggressivo, nonostante l’inserimento in tenera età (otto mesi), in una famiglia rispettabile ed istruita.

[3]             Richard Speck nel 1966 stuprò e strangolò otto infermiere all’interno di un dormitorio di Chicago. Venne successivamente catturato e condannato, grazie al riconoscimento effettuato da una delle infermiere che era riuscita a sfuggirgli nascondendosi sotto un letto del dormitorio.

[4]             Fonte: http://biogenetica-imaroca.blogspot.it/

[5]             Studi sui gemelli monozigoti e dizigoti, vennero condotti a partire dal 1876 con Galton e successivamente nel 1928 Johannes, per dimostrare la correlazione esistente tra la componente genetica e la commissione di atti criminosi.

[6]             Baker, L., Raine, A. Liu,  J., Jacobsen, K., C., Genetic and environmental influences on reactive and proactive aggression in children, in Journal of Abnormal Child Psichology, 36, 2008, pp 1265-78.

[7]          Il gene è l’unità ereditaria localizzata nei cromosomi. Il gene mediante un processo d’interazione con l’ambiente sia interno sia esterno, provvede al controllo dello sviluppo di uno specifico carattere, ovvero del fenotipo. Il fenotipo costituisce l’insieme delle caratteristiche, presenti in un organismo vivente. Il genotipo invece, rappresenta la costituzione genetica di un essere umano o di un organismo vivente.

[8]             Si tratta di un enzima che provvede al metabolismo di molti neurotrasmettitori (dopamina, norepinefrina, serotonina), coinvolti nella funzione di controllo degli impulsi, del livello di attenzione, delle funzioni cognitive

[9]             Quoziente intellettivo.

[10]            Gene  regolatore della serotonina, un neurotrasmettitore.

[11]            Gene recettore della dopamina D2.

[12]            Gene trasportatore della dopamina.

[13]            Gene che serve a controllare la dopamina, un neurotrasmettitore prodotto dal cervello che ha una funzione importante nei meccanismi dell’apprendimento e della ricompensa.

[14]            Attualmente le tecniche di neuroimaging consentono di identificare le aree neuronali direttamente coinvolte nell’esecuzione di un dato compito. Le più utilizzate sono la P.E.T. (tomografia ad emissione di protoni) e la fMRI (risonanza magnetica funzionale, per il monitoraggio del flusso ematico cerebrale), la S.P.E.C.T. (tomografia computerizzata ad emissione di fotoni singoli, mediante l’impiego di radiazioni ionizzanti).

[15]            Il riferimento è a Cesare Lombroso, medico psichiatra, ritenuto il padre della criminologia. Sostenitore della fisiognomica e delle correlazioni esistenti tra tratti fisici e comportamenti criminali, sostenitore della teoria dell’atavismo.

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