antropologia violenza genere

Antropologia della violenza di genere

1 Il serpente (נָּחָשׁ) era il più astuto (עָרוּם) di tutti gli animali selvatici che il Signore Dio aveva fatto e disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?”. 2 Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3 ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete””. 4 Ma il serpente ( נָּחָשׁ) disse alla donna: “Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. 6 Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò.

Genesi 3:2-5

 

 

2.1 Antropologia della violenza di genere.

 

Per meglio comprendere in termini di significazione il concetto di violenza, diviene fondamentale, delineare quanto riconducibile alla nozione di genere.

Il termine genere tradotto dalla lingua inglese gender, contiene molto di più che la semplice ancestrale dicotomia uomo-donna, poiché portatore inoltre, di una forte connotazione sessista discriminatoria. Il termine racchiude in sé non soltanto l’intrinseca differenza biologica/sessuale, bensì si determina e si definisce, all’interno di una derivazione culturale, storico-economica-sociale di questa differenza (Leonelli, 2001). È la rappresentazione di una dimensione all’interno della quale la condizione femminile, risulta culturalmente definita, plasmata, costruita e sottoposta a un continuo processo trasformativo, di mutazione, temporalmente interpretata e vissuta, con ostacoli al riconoscimento dell’eguaglianza di genere e allo sviluppo della personalità e del capitale umano femminile (Merli, 2015).

La violenza di genere può essere definita, come l’esercizio di una violenza fisica, sessuale, psicologica, economica, che assume rilevanza sia nella sfera privata, sia nella sfera pubblica, avente come oggetto il genere femminile nella sua fattispecie, eterodiretta verso la donna in quanto soggetto passivo; violenza inoltre, che si connota nelle relazioni gerarchiche che la definiscono[1].

Al fine di giungere a un’epistemica della violenza, appare lapalissiano procedere ad effettuare un’analisi della stessa, secondo una prospettiva antropologica, psicologica, sociologica, sino al raggiungimento dell’habitus culturale, che caratterizza l’esistenza dell’essere umano, andando anche ad indagare gli stereotipi che hanno contribuito a sacralizzare pregiudizi sociali nei confronti dell’essere donna. La violenza d’altronde fa parte della condizione umana (Beneduce, 2008).

Già nella descrizione della commissione del Peccato Originale, Eva viene scelta dal diavolo tentatore, come elemento debole della coppia, che viene indotta alla trasgressione dell’obbligo divino, destinando così l’essere umano al patimento, al dolore (soprattutto del parto) e alla morte finale, destino che ricadrà sull’essere umano in generale, attribuendo però la totalità della colpa del peccato originale esclusivamente ad Eva (figura n. 2), esonerando di conseguenza il partner dalla responsabilità dell’atto, autorizzandolo in quanto colpevole involontario, a riversare sulla vittima sacrificale femminile, tutto il peso dell’azione commissiva. Ma l’azione di Eva invece, può invece essere interpretata come il primo atto di rivolta femminile, che rivendica il riconoscimento dell’accesso a un sapere altrimenti precluso.

 

Figura n. 2 Peccato Originale e cacciata da paradiso terrestre[2].

 

Già Platone (Repubblica, VII, 514-517), riconduceva l’accesso al sapere, alla verità e al bene, di pertinenza maschile, riconoscendo una superiorità gerarchica alla conoscenza, di esclusivo appannaggio dell’uomo, ergo il filosofo. Anche Aristotele nella Politica, ascrive alla donna un ruolo da subalterna, ove l’autorità esercitata dal marito sulla moglie il cui ornamento è il silenzio, veniva paragonata all’autorità esercitata sulla città. La donna greca viveva in una condizione di marginalità, tanto da determinare una formulazione di pensieri, orientata alla definizione di una vera e propria “razza delle donne” (Gallo, 1984).

La pluralità costitutiva che da sempre caratterizza la specie umana, ha profondamente permeato il comportamento dell’essere umano, pur nella comune differenza di ogni essere singolare plurale. Esiste un’elisione della dualità originaria dell’essere uomo e dell’essere donna, che come sostenuto da Luce Irigaray (1975), “non conosce una declinazione plurale se non al maschile[3]”.

Anche John Locke definisce la relazione coniugale, in quanto situazione rappresentativa di una forma di contratto apparentemente tra esseri uguali, ma esclusivamente da un punto di vista giuridico, poiché “essi hanno però un diverso intelletto[4]ed è naturale che la supremazia deliberativa “tocchi all’uomo che è il più capace e il più forte” (Vaccaro, 2015).

Indipendentemente dai contesti storici di riferimento, la violenza di genere, si diffonde all’interno di un tessuto sociale permeato dal senso del possesso e della disponibilità illimitata, ove a parità di costrutti, differenti appaiono gli effetti e le manifestazioni nei vari periodi, nonché di eventuali forme di rigetto più o meno socialmente condiviso, a volte accompagnate da forme di giustificazionismo paternalista, embricato in termini di assolutezza, ad una forma di radicamento ontologico[5]

La violenza di genere rappresenta oggi una delle maggiori piaghe che caratterizza la condizione sociale contemporanea (Tola, Crivelli, 2014). All’interno dei vari habitus culturali, la violenza viene agita, raccontata e vissuta con modalità differenti e non sempre la sfera privata è stata ricondotta a luogo di perpetrazione e perpetuazione del comportamento violento, seppur caratterizzata quotidianamente da annichilimento per quanto concerne la vittima e da obnubilamento dell’alterità (Facchin, 2015), in chi con azione commissiva, la circoscrive, spesso apparentemente, al dominio privato. La violenza di genere assume quindi, carattere di endemicità e transculturalità, divenendo riconosciuta soltanto nel 1993, come violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nel corso della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani, tenutasi a Vienna dalle Nazioni Unite. Anche la Conferenza di Pechino del 1995, ha contribuito a rivedere le politiche sociali inerenti il riconoscimento dei diritti delle donne, costringendo gli Stati Nazionali a ripensare le forme di legislazione interne.

Il progressivo esautorarsi del predominio maschile, che caratterizza l’epoca post-moderna, si concreta nella manifestazione di una violenza di genere, che attraverso forme di ricatto e di manipolazione, tenta di far riappropriare l’uomo di quella forma di potere assoluto che gli consente di ergersi a esercente di quella supremazia gerarchica, che storicamente ha caratterizzato la dualità della relazione uomo-donna, dove la potenza del maschile, si fondava sul depotenziamento femminile, decostruzione della femminilità in quanto categoria naturale, ove il dominio maschile recuperato attraverso l’esercizio della violenza, diveniva e diviene struttura fondamentale che si oppone al cambiamento, quindi all’emancipazione femminile, al riconoscimento dell’essere donna in quanto “altro”, dotato di soggettività differenziata e storicamente situata.

La violenza di genere si autoalimenta e trova terreno fertile, all’interno di contesti rappresentativi di squilibri di potere e disparità di ruoli tra uomini e donne, che riconducono alla subordinazione femminile sia nella sfera pubblica sia privata.

 

[1]             Definizione estrapolata dalla documentazione internazionale di specifico interesse: Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite (1995), Conferenza di Pechino (1995), Convenzione di Instanbul (2011) ratificata dall’Italia con la  L. 27 giugno 2013, n. 77

[2]             Michelangelo. Affresco della volta della Cappella Sistina databile del 1510 circa.

Fonte: http://italacad.canalblog.com/archives/2016/03/14/33512726.html

[3]             Irigaray L., Speculum. L’altra donna. Feltrinelli, Milano, 1975, p. 129.

[4]             Tratto da Vaccaro S. (2016). Violenza di genere. Mimesis Edizioni, Milano-Udine, pag. 228.

[5]             Il riferimento è al postulato assiomatico del pensiero occidentale che interpreta l’universo ontologicamente riconducibile all’Uno, ovvero alla cosiddetta unità gerarchica dei generi e del pluralismo politico

 

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