Disturbi Psicologici nei bambini: riassunto completo

I disturbi dello sviluppo.

Un articolo di Martina Petrucciani

Secondo studi di psicologia dinamica, la patologia si definisce come quella serie di situazioni in cui difese inefficienti, inadeguate o immature permettono la formazione di sintomi o di comportamenti disturbati. Da tale premessa è facile operare un collegamento tra un disturbo psicologico nell’infanzia e lo sviluppo del bambino all’interno della propria rete famigliare. Il disordine diagnosticato per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza, così come
riportato nel Manuale Diagnostico alla IV edizione, che presenta un fattore di rischio per una futura condotta deviante nell’adulto, rientra nei disturbi da deficit di attenzione e da comportamento dirompente, nello specifico si tratta del “Disturbo da deficit di attenzione o iperattività”. Esso si pone come oggetto di trattazione nel contesto di questo studio poiché si presenta come disturbo di base in molti comportamenti antisociali, seguito da un “Disturbo oppositivo-provocatorio” ed un “Disturbo della condotta”, che possono essere prodromici di un “Disturbo antisociale di personalità” nell’adulto, quest’ultimo associato a molte forme di devianza. Da riflettere sul fatto che i disturbi sopracitati possono avere genesi in un tipo di attaccamento non sicuro con la figura di accudimento.

Il “Disturbo da instabilità dell’attenzione o iperattività” viene diagnosticato con l’inizio della scuola, dopo i 6-7 anni.

È caratterizzato da una difficoltà di apprendimento, tratti di aggressività ed una attività motoria eccessiva. Le caratteristiche cliniche sono a carico dell’attenzione, in quanto i soggetti dimostrano di non comprendere bene le istruzioni che gli vengono fornite a scuola, sono disordinati nei compiti, non sono in grado di organizzarsi, hanno difficoltà di concentrazione, si distraggono facilmente e neppure in ambito di gioco riescono a mantenere un comportamento rilassato, non rispettando le regole e suscitando l’intolleranza dei coetanei compagni di gioco, nonché degli insegnanti; sono soggetti iperattivi, hanno difficoltà a mantenere una posizione, vi sono continui movimenti degli arti, incapacità a rimanere seduti, il soggetto presenta segni di irrequietezza e spesso parla troppo e fuori luogo; è un soggetto impulsivo, tende a “sparare” le risposte, interrompe gli altri mentre parlano con grande impazienza o risponde prima che la domanda sia stata completata. In questo quadro il bambino presenta un rendimento scolastico compromesso e relazioni interpersonali precarie. La famiglia assume facilmente atteggiamenti di svalutazione e rifiuto nei confronti del bambino, a cui tendono ad attribuire caratteri di pigrizia e scarsa volontà. Sono bambini che presentano un Q.I. lievemente inferiore alla media. L’eziopatogenesi non è chiara, si parla di familiarità del disturbo associata a disturbi dell’umore, di precedenti infezioni (encefaliti) o di danno tossico cerebrale anche durante il periodo di vita intrauterina, di precedenti di maltrattamento, di abbandono o di atteggiamenti materni di trascuratezza.

Il ”Disturbo oppositivo provocatorio” si può manifestare dai 6 agli 8 anni, si tratta di un disturbo del comportamento che spesso precede l’insorgere dei disturbi della condotta.

È caratterizzato da atteggiamenti oppostivi, di ostilità, perdita di controllo e litigiosità, atteggiamenti di sfida, rifiuto con irritabilità, intolleranza, rancore, desiderio di vendicazione. Il rendimento scolastico ed i rapporti sociali vengono compromessi, la scarsa autostima e la bassa tolleranza alla frustrazione portano ad una tendenza a fare ricorso a sostanze quali alcol e droghe. Bambini con questo disturbo possono presentare problemi all’interno del nucleo famigliare, come l’adozione di una educazione eccessivamente rigida o incoerente. L’oppositivo provocatorio può sfociare in “Disturbo della condotta”, il quale si distingue in due tipi, a seconda che venga diagnosticato con esordio nella fanciullezza o nell’adolescenza, cioè prima o, nel secondo caso, dopo i 10 anni di età.

La prognosi è più seria per i disturbi a inizio nella fanciullezza poiché si ha una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo antisociale della personalità in età adulta. Tale disturbo presenta comportamenti ripetitivi e persistenti in cui vengono violate le norme e le regole societarie con condotte aggressive nei confronti di proprietà, persone o animali, reati di frode, furto e gravi violazioni di regole come marinare la scuola, rientrare a casa molto tardi mostrando indifferenza per le proibizioni dei genitori, fughe reiterate. I soggetti portatori del disturbo hanno scarsa considerazione e scarsa empatia con gli altri, interpretano in chiave ostile e negativa le intenzioni altrui, agiscono a scopo di difesa, non provano sentimenti di colpa che possono però essere simulati,
vi è intolleranza alla frustrazione, facilità ad azioni impulsive, atteggiamenti “da duro” che mascherano però sentimenti di autosvalutazione e scarsa autostima. Predispongono all’insorgenza di questi disturbi situazioni quali maltrattamenti, gravi carenze pedagogiche come eccessiva severità ed autorità nell’imposizione di regole e punizioni o eccessiva indulgenza. Anche incoerenza tra una educazione permissiva di un genitore e rigida dell’altro, oltre che forme di trascuratezza, sono fattori di rischio. Nei soggetti si mostra una difficoltà ad affrontare lo stress che li rende imprevedibili, episodi di poco conto possono scatenare reazioni violente. Le condotte di sregolatezza devono essere diagnosticate prima dei 13-15 anni di età, quando il ragazzo si accompagna a pari sregolati, mette in essere condotte pericolose per la propria incolumità, fuma e beve alcolici, fa molte assenze e viene bocciato a scuola. Nel caso di omicidi commessi su commissione il soggetto dimostra una totale mancanza di rimorso.

Spunti di analisi comportamentale: famiglia e pari a confronto.

Gli studi e le ricerche socio-criminologiche mostrano, nelle diagnosi dei disturbi sopra esposti, adolescenti che esternano comportamenti da “bullo”, di prepotenza e prevaricazione all’interno delle scuole, sia nei confronti dei propri insegnanti, verso cui non mostrano alcuna forma di rispetto e riconoscimento dell’autorità, sia verso gli studenti più deboli, creando in certi casi un proprio gruppo di pari, spesso formando vere e proprie “gang” composte da soggetti predominanti ed altri gregari, adottanti atteggiamenti continui di sfida e condotte a rischio tra cui l’uso di sostanze. Una volta rientrati presso il nucleo famigliare, questi soggetti mostrano un atteggiamento diverso: si mostrano verbalmente aggressivi nei modi senza adottare forme di violenza fisica. Appaiono scocciati, freddi, distanti.

Con il gruppo di pari tendono ad essere più protagonisti mettendo in essere azioni che provocano il riso per rimanere al centro dell’attenzione, con comportamenti anche estremi che suscitano stupore e clamore nel gruppo, durante i momenti di ritrovo, sentendosi rispettati o idolatrati. Questo tipo di meccanismo e di considerazione esperito e provato all’interno della cerchia di pari non viene percepita all’interno della famiglia, per questi motivi il ragazzo non ha piacere a rientrare tra le mura domestiche poiché sa di non poter mettere in essere la medesima condotta “prevaricante” per poter ottenere la stessa attenzione. Il ragazzo considera di rientrare in un ambiente in cui non è ben accetto, è ignorato, non è nessuno, non è importante. Durante il tempo passato in casa il tono dell’umore appare deflesso negativamente. Il protagonismo attivo si trasforma, in casa, in lassismo, sentimento di inutilità, ci si mostra dunque freddi, distaccati, come a volersi vendicare, come se gli altri colpevoli della trascuratezza non meritassero attenzioni. Il ragazzo si limita ad annuire senza ascoltare le parole dei genitori, a “fare presenza” senza essere davvero presente. Quello è il ruolo che in famiglia ha ormai assunto. I momenti di distacco si alternano a momenti di euforia, nei casi rari di attenzione particolare o di condivisione con le figure genitoriali di cui il ragazzo approfitta, ma vi sono altresì scatti di ira e risposte aggressive se ripreso per i propri comportamenti. Si mostra diffidente e immaturo. In queste situazioni di chiusura i genitori sono spesso assenti, dimostrano poco affetto soprattutto in nuclei numerosi o in condizioni socio-economiche disagiate. I genitori non ascoltano le richieste di aiuto e accettano la situazione assecondando il figlio nelle proprie scelte, non mostrandosi autoritari, assumendo comportamenti di sfiducia, rinuncia alla comunicabilità e al trovare soluzioni. Spesso i sintomi collegati a tali disturbi si attenuano, soprattutto con l’aiuto di un intervento pedagogico e riabilitativo che intervenga anche sull’ambiente familiare e scolastico. In caso contrario si possono riscontrare problemi in età adulta.

Il Disturbo Antisociale nell’adulto.

In età adulta il disordine considerato più strettamente collegato alla commissione di atti illegali e di crimini è il “”Disturbo della personalità antisociale. Il soggetto ha almeno 18 anni e presenta un disturbo della condotta con esordio precedente ai 15 anni. La diagnosi comprende l’inosservanza e la violazione dei diritti degli altri, l’incapacità di conformarsi alle norme sociali, presenta atti di disonestà come la menzogna patologica, impulsività, irritabilità e aggressività, uso e abuso di sostanze stupefacenti o alcol, condotte pericolose per la propria incolumità, irresponsabilità abituale. Questi soggetti si mostrano sempre come vittime, hanno un’alta valutazione di sé stessi, sono manipolatori e diffidenti verso il mondo, considerato come frustrante. Le emozioni esperite più di frequente sono la rabbia, l’irritazione, l’umiliazione, il disprezzo, il distacco, la noia, il piacere di dominare. Difficilmente provano simpatia, affetto e senso di colpa. I loro rapporti interpersonali sono disastrosi: prevale antagonismo, superficialità e indifferenza. Questo disordine è caratterizzato da un repentino cambiamento di umore. Nel commettere crimini, il movente può essere il vantaggio personale o il senso di liberazione da un intenso stato di irritabilità. Si tratta di reati di impeto, non premeditati, compiuti sempre sotto l’effetto di qualche droga o alcol. Il soggetto agisce aggredendo d’assalto l’Altro, agendo d’impulso poiché non possiede un controllo emotivo, a causa del proprio deficit nelle funzioni inibitorie, reagisce con un attacco difensivo ad un fatto vissuto come minaccia.

È fondamentale a questo punto sottolineare che non vi è equivalenza tra delittuosità violenta e patologia mentale. Si può stabilire una correlazione tra la psicosi organica (es. la schizofrenia) ed i crimini violenti, ma questo non si può estendere ai disturbi di personalità. L’esistenza di un rapporto criminogenetico unicausale che determini il comportamento violento non è mai configurabile. Tali condotte e disturbi possono essere un fattore di rischio della messa in atto di comportamenti devianti, ma mai l’unica ragione poiché l’aggressività può scaturire da processi differenti anche “sani”.

Criminogenesi dell’azione violenta: che cosa succede “all’improvviso”.

Nella crescita dell’individuo la crisi si definisce come “fisiologica”, “normale”, essa concerne la sua esigenza di autonomia da un lato e la dipendenza a livello emotivo dalle figure di accudimento, dall’altro. Lo stadio evolutivo comincia nel periodo contrassegnato dalla pubertà, dalla maturazione dei caratteri sessuali ove le modificazioni dello schema corporeo dovute all’accrescimento fisico ed allo sviluppo dell’identità sessuale creano nuovi conflitti ed una frattura interiore. Il ragazzo si trova incastrato in una realtà che non è ancora compiuta, in un mondo diviso ove egli non si inquadra ancora perfettamente e si trova spaesato, non riesce a fare proprie e a padroneggiare le risorse ed i propri cambiamenti, venendo piuttosto “preso da assalto” da essi. In questo contesto si inserisce la costruzione dell’identità. In questa fase l’adolescente necessita del sostegno dell’adulto che si presenta come dipendenza emotiva dalle figure genitoriali a cui egli richiede protezione, nel processo di maturazione in atto.

La crisi del ragazzo avviene quando egli si trova a richiedere l’aiuto e l’intervento genitoriale ma altresì lo respinge, alla ricerca di una propria identità che lo porta a separarsi dai modelli di riferimento per trovare un proprio spazio, una propria autonomia, in un processo che lo porta ad esperire sentimenti di ansia e insicurezza. Si tratta di un periodo, l’adolescenza, in cui il soggetto dispone di uno scarso patrimonio di esperienze ed una reattività impulsiva ove il controllo razionale degli eventi viene operato con mezzi ridotti.

Può capitare che il ragazzo dia un’impressione di armonia, di “normalità”, citazioni come “era felice”, “non gli è mai mancato niente”, “ha sempre avuto tutto”, “un ragazzo normale come tanti altri”, possono rappresentare la fotografia di una personalità in realtà strutturata in modo rigido e patologico. Ci troviamo oggi in una generazione nuova, diversa dalle precedenti. Le possibilità fornite dal territorio, lo sviluppo tecnologico, il condizionamento di un ambiente sociale differente incide sul processo di maturazione che racchiude ogni componente, da quella affettiva e relazionale a quella cognitiva ed etico-sociale. In fondo a tanti vissuti vi sono storie di esperienze interiori di vuoto emotivo e desolazione che crea angoscia, da cui i ragazzi cercano di difendersi nascondendosi dietro a comportamenti estremi spesso autolesivi, per afferrare la propria presenza, urlarla. Si tratta di grida di aiuto, per mostrare al mondo la propria esistenza, sono gesti mascherati dietro ad un grande senso di solitudine. Questa è la generazione che si trova isolata all’interno del proprio nucleo famigliare, ove manca la comunicazione.

Si tratta di adolescenti fragili, irresponsabili, molti giovani non hanno riferimenti forti e modelli di vita da incorporare e da seguire, mancando di un codice di comportamento e carenti di leggi interiori che non vengono introiettate. La carenza di leggi interiori porta carenza di senso di colpa. Senza senso di colpa non si ha malessere né pentimento, non si conosce, riconosce né esperisce ad alcun livello. Se non si impara un codice comportamentale adeguato e stabile all’interno della prima agenzia di socializzazione quale la famiglia, mai l’adolescente potrà comprendere all’interno delle diverse situazioni cosa è giusto e sbagliato, quali sono le conseguenze, quali sono le emozioni negative che le azioni sugli altri producono. Non si produce né si impara, in questo contesto, il senso di responsabilità. Sono adolescenti poco stimati, si sentono ignorati nell’ambiente in cui sono inseriti, hanno necessità di apparire, farsi sentire, così al gruppo di pari come alla propria cerchia familiare o al mondo intero, in qualche modo. In ragazzi a cui precocemente sono stati diagnosticati disturbi dell’apprendimento o della condotta presentano spesso le caratteristiche comportamentali di scarso controllo di sé e delle proprie risorse. In queste premesse si inserisce una anestesia affettiva dell’adolescente che manca di legami stretti e veri.

L’acting-out violento e l’impulsività.

Tutti disponiamo di lati oscuri della personalità ma i nostri freni inibitori sono allenati e la nostra morale così come il nostro codice etico di comportamento, i sensi di colpa, il senso di responsabilità, ci impediscono di compiere azioni violente nei confronti di altri. Se i freni inibitori non funzionano, le emozioni, le passioni, il piacere, l’adrenalina prevalgono. Quando le angosce non sono mediate dal pensiero, l’atto estremo è l’espressione di un momento di psicosi dove i gesti drammatici spiegano che l’adolescente non è riuscito a trovare nel contesto familiare e sociale strumenti che possano contenere le sue ansie, i suoi dolori. Come già detto, la crisi adolescenziale si presenta come un momento di crescita “normale”, essa può però sviluppare un esito psicopatologico quando l’adolescente mette in essere una strategia di irrigidimento delle difese finalizzata al non riconoscimento della propria conflittualità interna. In questo senso la tensione non viene elaborata psichicamente ma scaricata attraverso la messa in atto dell’azione violenza, definendo questo processo un “acting-out”. Un concorso di fattori precipitanti può portare la crisi ad esplodere. Gli scarsi mezzi acquisiti per difendersi dai propri impulsi, lo scarso autocontrollo, dinamiche intra-familiari distorte e dolorose, spesso sottovalutate dagli adulti ma così tanto importanti e rilevanti per gli adolescenti, come una separazione, un divorzio, un lutto, una grave malattia, possono diventare catastrofi.

Il giovane fragile, incapace di adattarsi e reagire alle sofferenze si può trovare di fronte a due strade, entrambe patologiche, con interiorizzazione del proprio conflitto: l’esito può condurre a gesti anticonservativi (suicidio) o violenze etero-dirette (omicidio), messi in atto generalmente con condotte impulsive. Nel periodo precedente l’acting-out il minore si chiude e si allontana dai genitori, parla meno, è meno presente in casa. In questo modo l’acting-out si pone come soluzione ed esternalizzazione dei propri impulsi distruttivi in un soggetto con bassa autostima e poco considerato. L’azione commessa protegge il soggetto dall’angoscia intrapsichica spostando il conflitto nel mondo esterno e liberandosi dal dolore. In tal senso la risoluzione del disagio sofferto è l’uccisone dell’Altro, in modo da preservare la propria persona ed evitare atti di violenza auto-diretta. Statisticamente la modalità di commissione di omicidio tramite l’acting-out impulsivo si riscontra in soggetti che commettono uccisioni a bruciapelo, utilizzando armi da fuoco se ne hanno a disposizione, spesso presentano medi o severi disturbi di personalità, dunque senza premeditazione o architettura del progetto criminoso, in un totale stato di nebbia e confusione scaturita di solito da un evento precipitante.

Aggressività e premeditazione

Se un gesto impulsivo può condurre ad una azione “acting-out” di esplosione violenta paragonabile ad un “raptus”, spiegato all’interno di dinamiche psichiche di aggressività emozionale, reattivo-impulsiva, provocata da un fattore scatenante che interviene su una base di personalità connotata da deficit e disturbi precoci del comportamento, come si può spiegare un atto, come un omicidio, in assenza di acting-out?
Aggressività, secondo Freud, si sintetizza in una strategia comportamentale per allentare lo stato di tensione generato dal mancato soddisfacimento immediato di un bisogno.
Per Fromm si tratta di una reazione biologica adattiva in difesa ad uno stimolo negativo e di rischio in una prospettiva neuropsicologica. Si tratterebbe dunque di una pulsione ove il vissuto psichico correlato è la rabbia, che può essere gestita e manifestata in diversi modi, ove l’aggressione è rivolta con agito violento verso l’Altro.

Il sentimento di rabbia ha la funzione di segnalare che qualcosa o qualcuno è presentata come una minaccia. Se colta, ascoltata e utilizzata correttamente, la rabbia predispone il soggetto ad attivarsi per ripristinare il confine che è stato violato. Ancora, l’aggressività sarebbe una normale reazione alla frustrazione. In adolescenza le tendenze all’individualizzazione e le esigenze di protezione sono inconciliabili e creano la crisi, ponendo il soggetto in una condizione frustrante che predispone ad un aumento della pulsione aggressiva.

Se l’aggressività non concomita l’emozione della rabbia, si parla di aggressività strumentale o fredda, usata come mezzo per altro scopo. In una società come quella attuare, ove si assiste ad una sensibilizzazione alla violenza, che fa parte dei linguaggi e dei giochi, questi tipi di comportamenti vengono rafforzati e facilitati. Escludendo patologie organiche di modificazione del comportamento, considerando alla base dello sviluppo della personalità nell’infanzia una educazione caratterizzata da trascuratezza da parte della figura di accadimento, eccessivo controllo o educazione bivalente, tali variabili possono condurre il soggetto ad uno stato emotivo ed emozionale tale per cui l’esito violento non è impulsivo di acting-out ma di aggressività etero-diretta estrema, come un omicidio. Nell’azione criminosa vi è un lento processo di progettazione e premeditazione “fredda” che cela uno scopo, una motivazione intima personale come una vendetta mossa da sentimenti di rabbia, rancore, un piccolo riscatto al proprio istinto narcisistico, l’impossibilità di mostrarsi e di essere sé stessi in una realtà chiusa vista come una gabbia, una maledizione a cui si è inevitabilmente legati. Nell’ideare il genitoricidio, l’adolescente in questa situazione esperisce una dissociazione tra pensiero profondo, emozionale e componente razionale: si crea un pensiero falsamente razionale, caratterizzato dalla freddezza allucinatoria e dal delirio. Sfera emotiva e sfera razionale si dissociano e la realtà viene distorta. Si può verificare una
scissione tra il Sé e l’atto compiuto, rendendo tutto accettabile, considerabile, anche le azioni più scabrose.

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