Storia del femminicidio

 

In ambito internazionale, e nell’Unione Europea in particolare, le iniziative politiche per contrastare il fenomeno della violenza sulle donne sono storia piuttosto recente. Uno dei primi passi è stato rappresentato dalla Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne adottata dall’ONU nel 1993.

Fondamentale è stata, poi, nel 2009, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in cui la parità tra uomo e donna viene riconosciuta tra i valori fondanti e posta tra i principali obiettivi dell’Unione Europea.

Viene resa giuridicamente vincolante la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea che stabilisce: il rispetto della dignità umana, la proibizione di trattamenti inumani o degradanti, il divieto di discriminazione sulla base del sesso; oltre che l’obbligo di assumere la parità tra uomo e donna.

Ma è soprattutto importante notare che, solo a partire dagli anni Duemila, tutte le varie iniziative promosse dall’Unione Europea in seno ai programmi di azione per le pari opportunità prevedono progetti volti a combattere questi specifici casi di violenza, che vengono finalmente considerati non solo – in modo neutro, come violenza domestica – ma come violenza di genere.

Nella Convenzione di Istanbul del 2011 si legge che: “L’espressione violenza contro le donne basata sul genere designa qualsiasi violenza contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato”. Si intende con ciò designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere, che provocano o sono suscettibili di provocare danni e sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti. Queste dichiarazioni rappresentano dei traguardi politici importanti. I modi e le circostanze in cui la violenza e l’uccisione delle donne vengono perpetrati hanno dimostrato infatti come la generica definizione di omicidio non solo si rivelava inadeguata, ma rischiava di nascondere o trascurare la vera natura del problema. Si è giunti così alla definizione del termine “femminicidio”.

Si deve all’antropologa e sociologa americana Marcela Lagarde l’imposizione del termine “femminicidio” sulla scena politica, designando compiutamente il complesso di pratiche sociali, sia private che pubbliche, agite ai danni delle donne. Nel 1997 Lagarde parla di femminicidio, richiamando l’attenzione internazionale sulla grave questione di Ciudad Juàrez (Messico), dove, a partire dal 1993, vennero alla luce i casi di centinaia di donne e di ragazze, prima sfruttate in modo disumano negli stabilimenti industriali, poi barbaramente uccise.

Lagarde descrive il femminicidio come la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dello Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa, e a rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa.

Alla base di questa forma di violenza c’è una cultura di stampo maschilista e patriarcale che, ancora oggi, per molti aspetti, assegna all’uomo una posizione di assoluto predominio sula donna. C’è da dire che le donne sono state anche vittime, forse, dell’introiezione di quei modelli e codici comportamentali che le fa tutte donne in attesa del “principe azzurro”, con cui consacrarsi totalmente e da cui ottenere protezione e sicurezza.

La dipendenza economica, la mancanza di altre aspirazioni all’infuori di quelle che gli prospettano il ruolo di moglie e di madre, un’educazione che le vuole belle, docili, fragili e indifese, sono tutti passaggi che conducono molte donne alla rinuncia dei propri spazi di autonomia, riducendole a essere dipendenti in tutto e per tutto dall’uomo.

Tutto ciò crea l’habitat ideale all’insorgere di frustrazioni, tanto nell’uomo quanto nella donna: entrambi sono vittime di modelli precostituiti.

Io proverò a parlare della vittima, nella speranza che, di riflesso, sia possibile mettere a fuoco qualcosa anche sul o sui carnefici.

Possiamo parlare allora di vittima considerando prima di tutto quelle che non hanno un volto e un nome, né mai lo avranno. E’ il diritto all’esistenza che qui è in gioco, prima ancora che questo inizi.

Sono le bimbe indiane o cinesi, uccise prima della nascita o abbandonate per strada subito dopo. In questi casi l’attacco al femminile ha molte radici, prima di tutto di tipo sociale. In Oriente una figlia rappresenta un “investimento a fondo perduto” per la famiglia di origine, in quanto destinata a diventare con il matrimonio appartenente alla famiglia del marito. A questo aspetto si è aggiunto in Cina (che ha peraltro una tradizione di infanticidio femminile antichissima) la politica del figlio unico, che ha fatto sì che gli assassini aumentassero ancora. In India, e non solo, decisive sono le possibilità rappresentate dalla tecnica ecografica di determinazione del sesso, in un mix di antico e moderno che, in società sostanzialmente patriarcali, sta causando un massacro delle bambine, ancora prima che nascano: a questo le istituzioni cercano di porre rimedio proibendo la determinazione del sesso prima della nascita.

Si tratta qui di un tentativo estremo di controllo sul processo procreativo che racconta di un’invidia degli uomini nei confronti della potenza femminile, raffigurata dalla potenza della madre.

Spostando ora il discorso alle nostre latitudini, ci troviamo su un versante decisamente opposto: la situazione delle donne che sembrano coinvolte in legami di coppia perversi.

Queste sono figure femminili in cui l’identità, pur problematica, è ben delineata e la struttura della personalità supporta dinamiche relazionali patologiche. Sono donne che hanno un volto e un nome. In questo caso si tratta di capire come e perché si è arrivati all’epilogo tragico e violento. Il rapporto in questo caso diventa non luogo dell’amore ma luogo di combattimento, in cui è assolutamente necessario prevalere. Si fonda così una qualità della relazione di coppia in cui il punto non è tanto essere capiti e capire l’altro, quanto piuttosto acquisire potere sull’altro. Spesso sono le donne quelle più deboli. Ciò anche sul piano economico sociale.

La parte “masochista” spetta dunque più frequentemente alla donna, la quale proietta sul compagno la parte violenta di sé. Il disprezzo e la paura diventano caratteristiche della relazione – perversa – che prima o poi emerge.

Può trattarsi di una violenza reale, di omicidi, suicidi, ferite, amputazioni, interventi della polizia, comunque tutti temi legati a quello centrale della perversione, che è la morte. Il legame all’interno della coppia, tuttavia, è fortissimo e fondato su questo patto scellerato di violenza e competizione.

Molto spesso le donne uccise sono vittime due volte. Prima dei mariti, dei compagni o degli ex fidanzati che le ammazzano. Poi della cronaca giornalistica che racconta gli omicidi: i giornali riducono le vittime a corpi sanguinanti, mentre indugiano sulle motivazioni dei carnefici usando, in alcuni casi, un lessico fuorviante.

Una donna su tre nel mondo ha subito violenza fisica o sessuale. In termini numerici sono circa un miliardo in tutto il mondo le donne che hanno subito qualche tipo di abuso da un partner o da uno sconosciuto. È questo il dato allarmante che emerge trasversalmente da ricerche e sondaggi sulla violenza di genere.

Nella maggior parte dei paesi con dati disponibili, meno del 40 per cento delle donne che subiscono violenza cercano aiuto di qualche tipo. Tra le donne che lo fanno, un numero maggiore si rivolge alla famiglia, molte di meno quelle che si rivolgono alle istituzioni, alle forze dell’ordine o ai servizi sanitari.

La lotta del governo italiano contro il femminicidio è già realtà in molte altre parti del mondo, sia in Europa (dove esistono leggi ad hoc in Francia, Spagna, Austria, Germania, Gran Bretagna e Olanda) che negli Stati Uniti, in Australia, in Canada, in Giappone e in India). Andiamo a vedere Paese per Paese cosa succede nelle altre legislazioni.

Spagna – Il reato di stalking è stato introdotto nel codice penale nel 1989, e nel 2004 i legislatori iberici hanno stabilito l’istituzione di tribunali ad hoc per le violenze che vengono compiute all’interno di una coppia di conviventi. In più, la legge spagnola sostiene l’elemento debole della coppia, fornendo sia un aiuto finanziario che pratico – attraverso l’intervento delle forze di polizia – per permettere alla parte offesa di poter abbandonare la casa comune.

Francia – Con una legge del 2010 vengono stabilite pene severe non solo per chi usa violenza sul coniuge/compagno in termini psicologici e fisici, ma anche per chi abusa verbalmente del proprio convivente, che – se lo ritiene opportuno – può denunciare alle autorità eventuali insulti che gli sono stati rivolti. In modo specifico, sulle violenze fisiche una norma varata a luglio scorso prevede l’immediato allontanamento del convivente dal tetto comune e l’irrigidimento delle pene in termini di galera.

Austria – A Vienna la prima legge sulla violenza entro le mura di casa è datata 1996 ed è stata più volte modificata nel corso degli anni. Attraverso lo strumento delle ordinanze di protezione delle vittime (che possono essere emanate anche da tribunali civili) il soggetto violento viene immediatamente allontanato dalla casa comune, disinnescando così il suo potenziale distruttivo. 

Germania – I dati che arrivano da Berlino dicono che solo nel 2011 il 49% delle donne uccise è stato vittima di compagni e mariti violenti. Dal 2002 in Germania vige una legge per prevenire le violenze domestiche e la figura del giudice di Famiglia interviene per evitare il protrarsi di situazioni a rischio che possono compromettere l’esistenza stessa di uno dei due partner della coppia o dei loro figli. Ai mariti violenti viene impedito il contatto con le loro vittime, che – se ne hanno bisogno – possono essere accolte in apposite case comuni. Dal 2008 esiste poi una legge anti-stalking.

Gran Bretagna – A Londra lo stalking è stato criminalizzato nel 1997. Le pene arrivano fino a 6 mesi di detenzione e aumentano se ci si trova in presenza di denunce reiterate. La Corte può anche emanare un ordine restrittivo, che arriva fino a una pena massima di 5 anni di reclusione qualora venga violato.

Scozia – La fattispecie dello stalking non rientra tra i cosiddetti “crimini d’offesa”, ma viene comunque gestito come delitto. La vittima può adire le vie legali contro il suo stalker, e una Corte valuta di caso in caso se è necessario emanare ordini restrittivi o, per i fatti più gravi, se comminare la galera.

Olanda – Lo stalking è considerato un crimine punibile con la prigione fino a un massimo di tre anni.

Canada – La sezione 264 del Codice penale canadese, dedicata alle molestie criminali, fa diretto riferimento al reato di stalking. Il pacchetto di norme è entrato in vigore nel 1993, con l’intenzione di rafforzare le leggi a tutela delle donne. Lo stalking viene considerato una sorta di “offesa ibrida”, che può essere punita con il carcere fino a 10 anni nel caso di fatti particolarmente gravi. 

Stati Uniti – Il primo stato americano che ha criminalizzato il reato di stalking è stata la California nel 1990, a seguito di numerosi casi accaduti proprio nel Golden State, incluso il tentato omicidio dell’attrice Theresa Saldana, il massacro attuato da Richard Farley nel 1988 e l’omicidio dell’attrice Rebecca Schaeffer nel 1989. Dopo la California, nel giro di tre anni, tutti gli Stati americani hanno seguito l’esempio dotandosi di norme anti-stalking, che prevedono una serie di pene molto rigide, incluso il carcere.

Cina – Nell’ex Impero Celeste lo stalking è stato espressamente proibito nel 1987 e recentemente la vecchia normativa è stata sostituita da norme, più al passo con i tempi, che classificano fattispecie che si verificano su internet.

Giappone – Nel 2000, sulla scia dell’omicidio di Shiori Ino, una studentessa universitaria di 21 anni brutalmente assassinata da uno stalker nel 1999, Tokyo si dota di una legge anti-stalking, visto come “un crimine che interferisce sulla tranquillità e la qualità di vita delle persone colpite”. Tuttavia, recentemente sono riesplose le polemiche perché la legge, adottata tredici anni fa e mai più modificata presta il fianco a molte critiche e – di fatto – non tutela fino in fondo le donne aggredite. Hotoke tsukutte tamashii irezu: “Costruire una statua di Buddha senza mettergli dentro l’anima”. E’ un modo di dire giapponese che significa che è stata costruita una struttura apparentemente utile, ma che poi risulta priva di contenuti e totalmente inefficace. Così la stampa nipponica addita la legge anti-stalking del 2000 e continua a fare pressioni sul mondo della politica affinché la modifichi, adeguandola ai tempi e alle minacce della rete.

Australia – Nel 1994 lo stato del Queensland è stato il primo a dotarsi di una legge anti-stalking e contro le violenze domestiche. Le pene variano da un massimo di 10 anni di prigione a una multa, nel caso in cui lo stalking sia di bassa intensità. Le leggi australiane hanno una peculiarità. A differenza della legislazione statunitense, le norme non richiedono che la vittima provi di aver sofferto di stress, ansie e paure in seguito all’azione dello stalker. In alcuni Stati, poi, la legge ha una valenza extra-territoriale, ovvero lo stalker può essere portato in tribunale dalla vittima anche se risiedono in Stati diversi.

India – Nel 2013 il Parlamento indiano ha votato emendamenti al codice penale, introducendo il reato di stalking come un’offesa di stampo criminale. Uno stalker può essere punito con il carcere fino a 3 anni nel caso di una prima denuncia, e con pene più severe (fino a 5 anni) nel caso di una reiterazione del crimine. Sono previste anche sanzioni economiche. 

Messico – Nonostante le violenze e gli omicidi sulle donne che occupano sistematicamente le prime pagine dei principali quotidiani internazionali, in Messico il femminicidio tuttora resta impunito e non si configura come specifico reato.

Dovremmo arrivare ad avere tutti un’espressione collettiva di rifiuto rispetto a questi fatti che ripugnano la coscienza umana. Il problema però, a mio avviso, è un altro. Il riflesso tutto negativo generato dall’illusione di poter estirpare il male soltanto attraverso il diritto penale. Quando ci si rende conto che il fenomeno persiste nonostante le buone leggi, l’effetto che si genera è davvero devastante, una sorta di balzo all’indietro, di arretramento che provoca la sensazione che ogni lotta sia inutile.

Le norme in generale, e soprattutto quelle penali, quando stentano ad essere applicate, hanno nel sociale la pesante caratteristica di generare sconforto e senso di fallimento. Un ulteriore rischio è quello del “populismo punitivo” portatore di fenomeni assai gravi come quello dell’eccessiva espansione della sfera penale, dell’aumento delle pene in assenza di garanzie, dell’artificiale creazione del capro espiatorio per andare incontro a generiche esigenze di giustizia.

Il problema, se lo si vuole davvero prevenire, è soprattutto educativo e culturale, finalizzato a modificare la visione arcaica del rapporto tra i sessi. E questo lavoro di educazione riguarda soprattutto il maschio.

Il mondo ha subito veloci, inattesi e travolgenti cambiamenti e, forse, sono state dichiarate acquisite novità che non hanno avuto modo di agire nel profondo. La velocità del mutamento è stata tale che, probabilmente, questi maschi si trovano davvero in una situazione asfittica nel contrasto tra i vecchi modelli educativi e familiari e le nuove dinamiche delle relazioni.

La violenza sulle donne è un dramma di non facile risoluzione. Questo non vuol dire che non si possa fare nulla per cambiare la realtà. Basterebbe partire dal principio che non esistono assolutamente differenze tra gli uomini e le donne, che queste ultime andrebbero trattate esattamente allo stesso modo, che abbiamo tutti gli stessi diritti e la stessa dignità.

 

 

 

                                             Articolo di Patrizia Oliverio

 

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