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Filosofia del linguaggio e del pensiero

Articolo di Emanuela Mangione

Noumeni

Nella storia del pensiero, la mente è sempre stata attratta dallo “spazio vuoto”, affascinata cioè da quell’ ossimoro che consegna al “vuoto” una proprietà estensiva – che è quella della spazialità e dunque della corporeità (corpo/esteso) – nel quale il pensiero e il linguaggio precipitano vorticosamente come in una dimensione ineffabile. Nel “vuoto” Democrito faceva cadere e scontrare vorticosamente gli atomi, da cui nascevano – in questa caoticità – infiniti mondi, frutto della necessità.

Poco dopo Parmenide lo cancellava come “ciò che non è” restituendogli dunque dignità, poiché – e solo grazie al medesimo – egli poteva definire “ciò che è”, dimensione della quale la filosofia a partire dallo stesso e proseguendo con Aristotele, ha definito l’alterità grazie a principi intanto logici, quali quelli: di identità (A è A) , di non-contraddizione ( è impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia) e del tertium non datur (A non è non A).

Con Platone quello “spazio vuoto” iniziava a designarsi con il termine di noumeno (dal greco νοέω, “io penso, pondero, considero”), intendendo con tale termine o dimensione quel concetto indecifrabile che si riferisce a tutto ciò che non può essere dimostrato nel mondo esperibile, ma a cui si può arrivare solo tramite il pensiero, quindi a qualcosa di costruito dallo stesso –  concetto che ontologicamente fonda l’idea di metafisica –  e rispetto al quale, le cose del mondo, che sono evidenti , cioè  non costruite dalla mente ma immediatamente attestabili, sono copie imperfette di idee astratte,   alle quali riconosceva un primato logico, cronologico e ontologico, in quanto principio di pensabilità delle cose – e che considerata la sacralità, le vedeva affollarsi in una zona residenziale altra dalle cose stesse (nell’Iperuranio e non nella mente stessa)[1]. Il Noumeno insomma è quello scarto tra ciò che si vede e ciò che non si vede (ciò che è e ciò che non è potremmo dire) ma che è pensabile o supponibile – che dir si voglia – dalla natura umana, ma pur sempre supponibile.

Bisognerà attendere Aristotele per vedere le idee stesse delle cose ritornare in seno alla materia (sinolo) grazie all’inammissibilità logica ed ontologica di pensare al di là delle cose la natura delle stesse – pena un accrescersi di idee tese a spigare i vari modi con cui si combinano le sostanze singole – e Kant e Schopenhauer per poterle situare finalmente almeno nella mente umana.

È con Kant infatti che si definirà noumeno, ciò che la nostra mente non è in grado di percepire del fenomeno, ciò che sfugge alla mente della cosa stessa, per limiti a noi intrinseci, che percepiamo solo ed apriori le cose attraverso lo spazio il tempo e le categorie, lasciando probabilmente fuori da questi “contenitori” chissà quali e quante cose; quello scarto insomma tra noi e la cosa, scarto nuomenico. Ed infatti e per questo, in Kant il noumeno e la cosa in sé non sono perfettamente sovrapponibili perché il noumeno è comunque una rappresentazione che come tale risiede nella mente umana, è la modalità con la quale il pensiero cerca di rappresentarsi ciò che va oltre le sue capacità di conoscere, metá ta physiká. E’ insomma indefinibile perché non definito dalla mente, è quello scarto in cui si insinua quel tutto definito da taluni “nulla”. È quel tutto/nulla, quella camera oscura in cui invece o appunto, ribollono tutta una serie di processi indefinibili ancora perché in fieri, deputati alla speculazione, quale una sorta di intelletto potenziale avicenniano. In questo scarto si insinua quel fil rouge che collega la cosa alla parola esattamente, come la cosa si lega per la stessa logica alla sua idea, è in quello scarto noumenico che si insidia il processo del collegamento/appartenenza.

Per la stessa modalità e sulla base di funzionamenti appena accennati, la nostra mente prosegue – ancora Kant – nell’assomigliare e nel definire le cose, ovvero nel classificare, riconoscere come eguali o meno, talune a talaltre, nel categorizzare, e tra una categoria e l’altra, ancora scarti noumenici appunto – nel cui vuoto/pieno si annidano i processi di categorizzazione.

 

1.2 Fenomenologia del noumeno linguistico

 

La riflessione che ne consegue è se e quanto anche la nostra logica categoriale sia culturale, cioè se il modo in cui somigliamo e differenziamo – e a questo punto giudichiamo – si modifichi nel tempo. In questo senso Foucault avvia quella che definisce “indagine archeologica” dell’episteme, dimostrando quanto l’ordine su cui poggia il nostro modo di pensare moderno “non ha lo stesso modo d’essere di quello dei classici”[2] e di come pertanto il nostro modo di pensare/giudicare si corregga nel tempo, attraversando diverse condizioni di possibilità – condizioni di possibilità del pensabile (e del pensiero) che da un certo momento in poi accendono i propri riflettori sull’uomo e ne fanno oggetto speculativo[3].

Servendosi di un esempio di tassonomia cinese per la classificazione degli animali riportata da Borges[4], Foucault può farci riflettere sulle condizioni di categorializzabilità condizionate dalla tipologia di “tavola” intesa nella sua duplice valenza: quella di supporto “accogliente” (unificante) – “tavola operatoria” alla Russell maniera – la cui superficie ospita oggetti, che seppur disparati e diversi, per il solo fatto di trovarsi sulla medesima, essa li unisce costituendosi loro substratum, e così la descrive: “ è qui che tutti [gli oggetti in questo caso][5] hanno il loro luogo comune, come sulla tavola operatoria l’ombrello e la macchina da cucire; se la stranezza del loro incontro è lampante, lo è sullo sfondo di quella e, di quel in, di quel su la cui solidità ed evidenza garantiscono la possibilità d’una giustapposizione[6] […] tavola nichelata, gommosa, avvolta di candore, scintillante sotto il sole vitreo che divora le ombre – ove per un istante, per sempre forse, l’ombrello incontra la macchina da cucire; e “tabula” intesa come griglia ordinante “che consente al pensiero di operare sugli esseri un ordinamento, una partizione in classi, un raggruppamento nominale che ne sottolinei le similitudini e le differenze – ove, dal fondo dei tempi, il linguaggio si intreccia con lo spazio”[7].

Scarti noumenici dunque, che investono consequenzialmente il linguaggio. Se per Aristotele il concetto è l’essenza delle cose, per gli Stoici esso è appena un segno che significa le cose, un segno che può riferirsi a più cose aventi in comune caratteristiche simili (secondo la “tavola e tabula” di riferimento). Dello stesso dunque si distingueva: 1) la parola, che significa la cosa, 2) il significato, cioè la rappresentazione mentale che si forma in noi quando pronunciamo e dunque quando pensiamo quella parola, 3) l’oggetto reale, cioè la cosa significata. Di queste tre, la natura corporea attiene alla parola ed alla cosa reale, al significato l’incorporeità.

Per rimanere in tema, un cenno a tal riguardo non può mancare circa la famosa disputa sugli “Universali”, che ha ben coinvolto la speculazione ontologica del concetto, se esistente cioè solo all’interno della nostra mente o se situato nella realtà, e là dove il realismo ammetteva che essi se ne stessero sia ben fuori di noi ma anche dentro le cose e prima e separatamente da esse, ante rem – il realismo estremo di Guglielmo di Champeaux-, altri li trovavano nelle cose, in rem – realismo moderato di S. Tommaso – quali principi regolatori delle stesse, e ben altri ancora toglievano ai medesimi ogni rispetto sostanziale riducendoli a puro flatus vocis, come nomi irradicati appiccicati per mera convenzione e ben lontani dall’intercettare la natura della cosa nominata – nominalismo estremo di Roscellino.  Altri ancora li collocavano solo ed esclusivamente in intellectu, come segni rappresentativi delle cose con caratteri simili, in cui il plus valore non s’annidava certo nella dimensione ontologica, quanto in quella esclusivamente logico-gnoseologica: nominalismo moderato di Ockham.

Secondo Mach – e l’empiriocentrismo – oggetto fisico ed oggetto psichico sono invece la stessa cosa e posto che, per un’economia cognitiva, poiché percepiamo attraverso le sensazioni e che la varietà dei nostri bisogni (cognitivi) biologici è di gran lunga inferiore a ciò che esiste realmente, noi classifichiamo mediante concetti, operando con essi una sintesi delle reazioni e delle caratteristiche dei vari oggetti.

Per Whitehead ancora, l’esperienza e quindi la conoscenza è simile ad una prensione: (a) attività soggettiva nel prendere, b) l’oggetto che è preso, c) la forma, il modo con cui lo prendiamo, che non è passivo rispecchiamento della realtà, ma un atto creativo in vista di fini, fini che la coscienza coglie e che pertanto sceglie quel che intende conoscere.

Anche per Russell la conoscenza passa da un’esperienza privata ed immediata.

Lo scritto sulla denotazione (1905) e quello sulla Filosofia dell’atomismo logico (1918) contengono la teoria del linguaggio di Russell. Egli sostiene pertanto che: 1) il linguaggio è costituito da proposizioni, 2) i costituenti delle proposizioni, cioè i simboli, significano i costituenti dei fatti che rendono le proposizioni vere o false, o, in altre parole, corrispondono a tali costituenti, 3) dei costituenti dei fatti bisogna avere conoscenza diretta per capire il significato dei simboli, 4) la conoscenza diretta è diversa da individuo a individuo.

Pertanto: “Un linguaggio logicamente perfetto sarebbe fondato sui primi tre capisaldi: in esso ‘non ci sarebbe che una parola, e non più di una, per ogni oggetto semplice ed ogni cosa che non fosse semplice sarebbe espressa da una combinazione di parole ciascuna delle quali starebbe per componente semplice’. Secondo Russell, il linguaggio dei Principia Mathematica mira ad essere un linguaggio di questa specie: in esso c’è solo sintassi e niente vocabolario. Aggiungendo il vocabolario diverrebbe un linguaggio logicamente perfetto. Purtroppo, il quarto dei capisaldi enumerati rende irrealizzabile questo ideale. Poiché persone differenti hanno conoscenza diretta di oggetti differenti, se ogni parola non avesse che un unico significato, quello che corrisponde all’oggetto che cade nell’esperienza diretta della persona che parla, questa non potrebbe mai comunicare con gli altri. Paradossalmente, secondo Russell, il linguaggio può esercitare la sua funzione di comunicazione, quando più è imperfetto, vago ed equivoco.”[8]

Nel trattato Logico-filosofico, Wittgenstein dà del linguaggio stesso la rappresentazione del mondo. Se per il nostro infatti il mondo è “una totalità dei fatti”, allora il pensiero si identifica con il linguaggio al quale estende la stessa limitazione che vale per il linguaggio, in poche parole, per noi il mondo consiste nei soli fatti che riusciamo a pensare e di cui siamo pertanto in grado di nominare e di concatenare logicamente in proposizioni di senso. Ergo: la proposizione è per Wittgenstein la rappresentazione di un fatto, ma non nel senso della riproduzione mentale o copia, quanto di una “raffigurazione formale o logica del fatto, cioè di rappresentare una determinata configurazione possibile degli oggetti che costituiscono il fatto. La proposizione […] ha in comune con il fatto atomico (fatti che accadono indipendentemente l’uno dall’altro) la forma degli oggetti, cioè una determinata possibilità di combinazione degli oggetti tra loro”[9], connessione che garantirebbe un linguaggio come dotato di senso, grazie all’accordo con il mondo. Tuttavia, ricalcando la posizione humiana, Wittgenstein nega la possibilità di inferire logicamente una proposizione dall’altra, esattamente come Hume riferiva dell’impossibilità di inferire il futuro dal presente. Per il nostro insomma, il linguaggio appare dotato di senso in quanto ci si attenga a questa precisa connessione con il mondo, esulando dalla quale, si cade nel non-senso, esattamente come quando si parli di proposizioni filosofiche o di chimere. Pertanto, data la non necessità quanto la casualità del mondo, anche il rapporto del linguaggio con il mondo potrà assumere forme diverse (tavola/tabula) oppure si potranno avere possibili forme diverse di linguaggi: è ciò che egli definisce come “teoria dei giochi linguistici”, cioè il fatto che il significato delle parole consista nell’uso, a patto che neanche questo precetto valga come norma quanto come consuetudine.

Val la pena a tal proposito citare – per il medesimo intenso l’opera del pittore surrealista belga René Magritte: “Il tradimento delle immagini” in una delle numerose variazioni sul tema della pipa che realizzò tra il 1926 e il 1966. Questa presa in considerazione, rappresenta l’immagine di una pipa, sulla quale campeggia la scritta “Ceci n’est pas une pipe” (Questa non è una pipa). L’intento dell’artista appare pertanto quello di riconfermare questo scarto originario tra ciò che lega l’oggetto al suo nome, considerando che “ceci” e non “cela” (per l’appunto) – oggetto della rappresentazione – non è l’oggetto pipa, quanto il quadro in sé, quasi a voler indurre alla metacognizione sui processi complessi di rappresentazione, oltre che a una metacognizione linguistica sulla complessità della comunicazione, capace di sfociare spesso nella comunicazione patologica descritta nella teoria del “doppio vincolo” quale schizofrenica mancata coerenza tra comunicazione verbale e non verbale. Ancor prima di Maigritte, val la pena di accennare al mito di Zeusi e Parrasio: “Si dice che costui (Parrasio) sia venuto in competizione con Zeusi, il quale presentò un dipinto raffigurante acini d’uva: erano riusciti così bene, che alcuni uccelli volarono fin sulla scena [ i dipinti erano di norma esposti in teatro]. Lo stesso Parrasio, a sua volta, dipinse il drappo, ed era così realistico che Zeusi,- insuperbito dal giudizio degli uccelli, lo sollecitò a rimuoverlo, in modo che si potesse vedere il quadro. Ma appena si accorse del suo errore, con una modestia che rilevava un nobile sentire, Zeusi ammise che il premio l’aveva meritato Parrasio. Se infatti Zeusi era stato in grado di ingannare gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui, un artista.”[10]

 

[1] Escamotage con cui Platone cerca di dare alla conoscenza un valore assoluto sottraendola al relativismo soggettivo umano e dunque al soggetto giudicante.

[2] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, pag. 12, Bur Saggi, 2015.

[3] “Ma via via che le cose si avvolgono su se stesse, non richiedendo che al loro divenire il principio dell’intellegibilità e abbandonando lo spazio della rappresentazione, l’uomo, da parte sua e per la prima volta, entra nel campo del sapere occidentale. Stranamente, l’uomo – la conoscenza del quale passa per occhi ingenui come la più antica indagine da Socrate in poi – non è probabilmente altro che una certa lacerazione nell’ordine delle cose, una configurazione, comunque, tracciata dalla disposizione nuova che egli ha recentemente assunto nel sapere […]. Conforta tuttavia, e tranquillizza profondamente, pensare che l’uomo che non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma”.

Ibidem, p. 13.

[4] “Questo testo menziona ‘una certa enciclopedia cinese’ in cui sta scritto che ‘gli animali si dividono in: a) appartenenti all’imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) con libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, K) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche’“.

Ibidem, p. 5.

[5] Nel testo il riferimento si fa ai vari tipi di vermi per bocca di Eustene.

[6] Ibidem, p. 6.

[7] Ibidem, p. 7.

[8] Filosofi e filosofie nella storia, N. Abbagnano, G. Fornero, vol. III, seconda edizione 1992, Paravia, Torino, pagg. 477-478.

[9] Ibidem, p. 481.

[10] Plinio il Vecchio, Storia Naturale XXXV 65-66.

Articolo di Laura Mangione

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