Il linguaggio dell’inconscio svelato: psicologia, sogni e simboli

Articolo di Emanuela MAngione

Sogni, segni, simboli, in altre parole: inconscio. Ed “inconscio è linguaggio” diceva Lacan.[1] Lacan pur di formazione medico-psichiatrica, non si mantiene esclusivamente nell’ambito clinico, ma si avvale di una visione umanistica necessaria per una comprensione “olistica” dell’uomo occidentale, impregnato, a suo parere, da trame simboliche che lo abitano.

Per il nostro, sostenere che “l’inconscio è linguaggio” ha senso per diversi motivi: sia perché l’inconscio appare come “capitolo censurato” e pertanto la parola tenta di recuperarne l’accesso alla coscienza, sia perché ritiene che l’inconscio sia strutturato esattamente come il linguaggio, cioè per regole e leggi che condivide con questo, anche se parla un linguaggio cifrato, codificato che è necessario svelare. Tuttavia, anche se l’inconscio è strutturato come il linguaggio, non tutto nell’inconscio è però significante, ovvero esiste anche qui uno scarto noumenico, una mancanza che necessariamente si aggrappa all’Altro nel tentativo di colmarla. In questo tentativo non solo riconosce l’alterità ma anche l’individualità e – sempre per questo tentativo di accedere all’Altro -non vi è altro mezzo per farlo se non quello del linguaggio.

Ciò che qui pare essere ancora interessante nel quadro teorico di Lacan è la funzione formativa, nominativa e regolativa che attribuisce al linguaggio. Per Lacan infatti, i significati linguistici in quanto rappresentazioni psichiche, non sono né fedelmente nominativi, o meglio, non in grado di tradurre fedelmente né gli oggetti nominati, tantomeno i contenuti psichici stessi, intesi anche come bisogni: scarti insomma, scarti noumenici rispetto a ciò che davvero siamo o diciamo.

Ora l’individuo nella sua “mancanza a essere” per avvertire di essere, ha bisogno del riconoscimento dell’altro “che non è l’altro in carne ed ossa, ma, innanzitutto, l’Altro, con la “A” maiuscola, che rappresenta l’universo linguistico e simbolico in cui il desiderio, per esprimersi, si deve inserire. […] l’Altro che è ordine simbolico e linguistico, a cui deve accedere per esprimere il suo desiderio inconscio”[2]

Per riportare alla coscienza il vuoto inconscio insomma, ci si abbisogna della parola. Per Lacan quella mancanza desiderabile è sempre sintomatica, nel senso che ci sono i simboli che ci dicono che se questi sono dei significanti, i loro significati sono stati rimossi, probabilmente perché essi, situati nell’inconscio derivatoci dalle leggi inscritte e sovrascritte, non sono stati posti da noi e pertanto ce ne sfugge ricordo e significato appunto. Ecco allora che Lacan individua in determinati nostri meccanismi linguistici, il tentativo incosciente di recuperare il significato: condensazione, spostamento, e metafora e metonimia.

In questo contesto, ci si soffermerà piuttosto sulla metafora per prevedere poi la sua funzionalità riorganizzatrice nell’ambito della relazione di aiuto.

Per Lacan intanto: “la metafora si costituisce nel punto preciso in cui il senso si produce nel non-senso, per cui si può dire che è nella catena del significante che il senso insiste, ma che nessuno degli elementi della catena consiste nella significazione di cui è capace in quello stesso momento.”[3]

Chiarito il significato che la metafora ha per il nostro, appare chiaro che, nell’intenzione di voler nominare ciò che manca, ma in quanto sconosciuto a livello cosciente, si utilizzano altri oggetti nominabili, che non si sostituiscono affatto al mancante, ma cercano di avvicinarvisi nella catena consequenziale dei significati. Ora, posto che significato e significante siano incoincidenti, e che esista pertanto quello scarto noumenico tra realtà significante e significatrice e parola, consegue che “la verità non abbia altro modo di dirsi se non nella distorsione linguistica”[4], esattamente come Russell aveva già detto: “il linguaggio può esercitare la sua funzione di comunicazione, quando più è imperfetto, vago ed equivoco”.

 

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[1] J. Lacan, La scienza e la verità, in Scritti, cit., vol. II, p. 871.

[2] U. Galimberti, La casa di psiche, dalla psicanalisi alla pratica filosofica, Universale economica Feltrinelli Milano, III edizione, 2009, pp. 68-69.

[3] J. Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, cit., p. 497.

[4] Id. La casa di psiche, dalla psicanalisi alla pratica filosofica, cit. p. 77.

Articolo di Emanuela Mangione

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