Psicologia della costruzione dell’identità

Co-costruzione di manufatti: percorsi di sensibilizzazione all’esperienza estetica e consapevolezza della percezione.

Articolo di Emanuela Mangione

 

“L’uomo che vive pienamente è un uomo in marcia”.

È il viaggio stesso a costituire la salvezza.

Non ha importanza (per l’esperienza terapeutica)

a cosa si riferisce in viaggio.

Importa soltanto che il paziente rimanga sulla via.

Il ‘riferimento costituisce lo stesso pseudo-problema di ‘contenuto’

che fu creato nel mondo dell’arte

quando “le persone solevano chiedere

a cosa si riferiva il quadro”.

McLuhan

 

In un contesto culturale di riappropriazione di senso e di identità, chi si occupa di Counseling spesso si è interrogato quali supporti possano facilitare, se usati come mezzi, questa esigenza vivificante e, tra le attività prettamente umane, ha intuito che ciò possa essere possibile attraverso ed attraversando l’arte. L’arte intesa pertanto, non come passiva adulazione visiva di qualcosa di già realizzato, ma come esperienza dell’opera d’arte attraverso la sensibilità, tale per cui l’arte stessa, in quanto parto umano, riconsegni all’individuo i mezzi per un rinnovato contatto con il sé. Considerata l’esperienza artistica in questa modalità, lo spazio in cui questa si rappresenta e le immagini rappresentate, si condensano in una dimensione che non concede distacco sensoriale, dove si partecipa dell’esperienza artistica proprio perché sensibile. Così l’ambiente parla e ascolta, ha una superficie un sapore un odore ed una rappresentazione. E così, l’estetica che è arte percettiva intrisa del senso per il sé, scioglie nodi emotivi, commuove, riabilita, ricorda.

Sì, perché per qualche strano indotto culturale, ad un certo punto nella storia dell’Occidente, si situa una frattura identitaria, che è  ravvisabile in almeno due termini in uso di cui ci si compiace tutt’oggi, quello di “individuo” a sé, quale entità vaga, sagoma, numero, e quello di “persona” nel quale termine finalmente si ravvisa il rapporto dinamico che connette l’individuo all’ambiente e viceversa, il cui connettivo esperienziale ed emotivo  ne fa appunto la “persona”, inclusiva di uno spazio psichico e vitale in un mondo meccanicamente sovradeterminato.

È il momento in cui si situa lo strappo identitario, che si fa risalire all’età moderna ed il cui battesimo è cartesiano, dove il dominio della res cogitans si incontra con la res exstensa solo in un’arcaica ghiandola pineale – o non si spiegherebbe come a certe emozioni o volontà il corpo allora risponda. Momento che raccoglie  il contributo del cattolicesimo, che fa del corpo una  prigione di cui liberarsi, perché il piacere in ogni sua forma è mefistofelico e della tecnica poi, che ha concentrato l’uomo nel suo cognitivo, allontanandolo dal più ferino ed autentico contatto con la terra, con il suo essere faber, e che sancisce  così   forme di nevrosi che si sono caratterizzate  specificatamente almeno dal Novecento in poi,  proprio perché si è insediato una  sorta di diaframma culturale tra il sé emotivo ed il sé cognitivo.

In questo senso, un processo tale che sia in grado di ricomporre la trama originaria della consapevolezza del sé come un tutto, anche e necessariamente  corporeo, è un modello a cui il Counseling attualmente sta guardando con interesse: questa metodologia parte dalla  sollecitazione dei sensi, che  proprio perché bistrattati, se  ci consentono  di  partecipare del mondo e farne rappresentazione, una volta rieducati, possono contribuire a rappresentazioni dello stesso e di noi medesimi molto più armoniose ed a nuovi modelli di esperienza del mondo, oramai occlusi. La modalità prevista pertanto, non può essere che quella creativa.

Val la pena di accennare a questo punto – a proposito del recupero del “sensibile” – alle indagini del filosofo tedesco Gernot Böhme, che risuonano del fascino (subìto nel merito) di Baumgarten.

Per il filosofo, che intende rimarcare il rapporto tra estetica e sensazione, noi non percepiremmo tanto cose, quanto atmosfere, perché l’esperienza estetica non consiste nel vedere cose, quanto nell’avvertire, pertanto le “cose viste” con rimarrebbero più cose esterne, ma stati d’animo, fatti sentiti. Ed è esattamente ciò che queste nuove frontiere del Counseling intendono fare, dove i conduttori specializzati, attraverso esperienze psico-sensoriali artistiche, prevedono un percorso che ti riaccompagna gradatamente nel profondo del te dimenticato, sepolto sotto strati informi di esperienze altre: un’archeologia del sé, dove presente passato e futuro si fondono assieme. L’impressione è che prenda quasi forma una certa ermeneutica personale che coinvolge la sensorialità tutta, in un’atmosfera percettiva in cui si sollecitano i cinque sensi: l’olfatto sfiorato da fragranze familiari per esempio, concede il recupero di tasselli di una propria storia, in immagini e suoni che si pensino spersi per i sentieri interrotti della memoria e che ripiombano come flashback, memorie nostalgiche, evocate da odori riabilitanti parti identitarie. Ed ancora, dove tutti gli altri sensi sono esclusi, vista compresa, lingua e palato indugiano alla scoperta di sapori negati allo sguardo: ancora evocazioni sopite e un rinnovato piacere dell’assaporare dimenticato dalla società del consumo. Poi, voci appena sussurrate, tonalità soffuse che giungano bisbigliate all’udito, tutto in assenza di coinvolgimenti cognitivi.

Per coinvolgere la tattilità, il percorso approda alla sua sintesi, quello della realizzazione corale di manufatti artistici.

Ciascuno intride la mani nei colori che sente propri, invitati a disegnare senza altri mezzi la propria tela, si passa poi vicendevolmente ad arricchire con le proprie mani la tela dell’altro finché, tutte recano il segno di ciascuno ed ogni opera si fa monade di un universo condiviso, parte del tutto corale.

Segni, simboli, significanti, significati.

L’impianto teorico qui perseguito è gestaltico e nel mio intento di studiare i processi che si rivelino utili nella relazione di aiuto, trovo proficue quelle metodologie che coinvolgano anche la corporeità, lo “sporcarsi” sensorialmente, come base per un processo di crescita e di ricontatto con il sé.

Si tratta di  esperienze in grado di generare momenti di commozione, grazie al riaccesso a zone a cui raramente si perviene con altre forme di esperienze: dal  pianto alla disperazione più piena, dal sorriso alla risata dionisiaca e convulsa, fino alla pacificazione e alla carezzevole sensazione di un volersi bene, che mette pace e ciò che viene descritta è la sensazione di “diventare amici di se stessi”, nel senso di quel che significa aver affetto sincero per una persona, nonostante i suoi difetti. Credo si tratti di approcci oggi, molto utili alla relazione consulenziale, utile nel senso che non si tratta di esperienze in grado di dissiparsi con la fine della pratica in questione, perché l’esperienza sensoriale ed emotiva è memoria e memoria fisica, ancor prima che cognitiva; ed è finalmente lì che il ragionamento implode lasciando il posto a bellezza e sentimento.

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