Una breve storia del costrutto di leadership

Psicologia delle folle

Uno dei primi autori a trattare il tema dei processi di influenza nei grandi gruppi è Gustave Le Bon, etnologo e psicologo (1841-1931). Nel suo testo principale, Psicologia delle folle, non parla mai esplicitamente di “leadership” ma di “capi” contrapposti alle “folle” e di “suggestione”. Il tipo di “suggestione” che i “capi” esercitavano sulle folle sono intesi da Le Bon, come unidirezionali.

Parlare di capi e folle significa che si fa riferimento al ruolo formale investito da una persona. Le Bon considera, dunque, che il processo di influenza di gruppo porti necessariamente ad un’involuzione irrazionale delle singole persone. Viene da sé che per Le Bon il gruppo sia facilmente suggestionabile, sia per il calo delle abilità intellettive, sia per il contagio emotivo; l’autore afferma che nel gruppo il “grande matematico e il suo calzolaio” (ibidem, p.12) sono uguali. La suggestione di cui ci parla Le Bon è molto simile a quella di un ipnotista. La metafora dell’ipnosi da lui stesso utilizzata calza perfettamente ai modi in cui Le Bon prevede che la leadership si sviluppi: messaggi ripetuti in maniera ridondante, aumento dell’emotività e pensiero semplificato. Questa teoria ha diversi limiti, è basata esclusivamente sulle osservazioni di Le Bon. Risente, inoltre, del limite per cui ad esercitare “suggestione” sono solamente i capi, non si prevede assolutamente un’influenza da parte delle altre persone all’interno di un gruppo.

 

Gustave Le Bon.

 

L’approccio psicoanalitico

Successivamente alla teoria di Le Bon, si è sviluppato il pensiero psicoanalitico, che conserva ancora una visione esclusivamente emotiva, irrazionale del gruppo. Per Freud (1921) le persone che formano una folla provano un senso immediato di intimità che deriva dalla proiezione del loro ideale dell’Io sul leader e dalla identificazione con esso. Questa proiezione si accompagna a una riduzione del funzionamento dell’Io, inoltre, i bisogni primitivi che generalmente rimangono inconsci vengono alla luce sotto la stimolazione diretta del leader. A prescindere dalla maturità e dall’integrazione psicologica dell’individuo, i piccoli e grandi gruppi non strutturati, che mancano di una leadership operativa o di un compito definito in modo chiaro, tendono a provocare nell’individuo un’immediata regressione. Questa regressione consiste nell’attivazione di operazioni difensive e processi interpersonali che riflettono relazioni oggettuali primitive.

Il potenziale di tale regressione è insito in ciascuno di noi: quando perdiamo la nostra abituale struttura sociale e i ruoli vengono sospesi in una situazione non strutturata, inevitabilmente si riattivano livelli primitivi di funzionamento psicologico. E’ proprio questa tendenza alla regressione che determina una minaccia all’identità personale.

Successivamente Bion, in Relazioni nei gruppi (1961) specificò questi fenomeni parlando di tre assunti emotivi gruppali di base.

1. Assunto di dipendenza: quando si attiva questo assunto, il gruppo percepisce il leader come onnipotente e onnisciente, l’idealizzazione del leader si accompagna a tentativi di strappargli la conoscenza, il potere, la bontà, i membri del gruppo sono perennemente ingordi e insoddisfatti. Quando il leader non corrisponde più al loro ideale reagiscono prima con il diniego, poi con una svalutazione  rapida e la ricerca di un sostituto.

2. Assunto di lotta-fuga: il gruppo è compatto contro tutto ciò che può essere vagamente inteso come un nemico esterno. Proprio perché i membri non possono tollerare l’opposizione alla loro ideologia condivisa, spesso si scindono in sottogruppi che lottano uno contro l’altro. In genere, secondo Bion, un sottogruppo si unisce al leader, l’altro se ne allontana o combatte l’altro gruppo. C’è in questo gruppo la tendenza a controllare il leader o a percepirsi controllato dal leader e a condividere un’intimità mediata dal diniego condiviso dall’ostilità interna al gruppo e dalla proiezione su un gruppo esterno.

3. Assunto di accoppiamento: i membri si focalizzano su una coppia interna al gruppo, la coppia rappresenta l’aspettativa positiva del gruppo a riuscire veramente a riprodursi, che ne assicura la sopravvivenza. Se i primi due sono assunti pregenitali, questo assunto è genitale.

L’approccio psicoanalitico si esprime oggi, in ambito organizzativo, come Psicoanalisi delle organizzazioni. Gli autori principali di questo approccio sono Kets de Vries e Kernberg. Otto Kernberg (1998) afferma come Freud (1921), che i fenomeni di gruppo rappresentano una minaccia all’identità personale, che portano ad attivare una serie di operazioni difensive e aggressività primitive, dalle caratteristiche pregenitali. Tuttavia, Kernberg prevede anche, differentemente dai primi teorici della psicoanalisi, casi in cui la leadership possa considerarsi razionale e positiva. Dal suo punto di vista sono cinque le caratteristiche di personalità fondamentali auspicabili per un leader razionale:

1) intelligenza[1]

2) onestà personale e incorruttibilità[2]

3) capacità di stabilire e mantenere relazioni oggettuali profonde

4) un narcisismo sano

5) una sana attitudine paranoide anticipatoria, contrapposta all’ingenuità.

Il narcisismo sano protegge il leader dall’essere troppo dipendente dall’approvazione altrui e rinforza la sua capacità di funzionamento autonomo, la sana attitudine paranoide lo rende attento ai pericoli della corruzione e della regressione paranoiagenica[3] e lo protegge da un’ingenuità che potrebbe impedirgli di analizzare le motivazioni dei conflitti istituzionali. Limite di questo approccio è rappresentato dal fondare le proprie affermazioni basandosi esclusivamente sulle proprie osservazioni.

 La teoria del grande uomo e la teoria dei tratti

Nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima del Novecento, in diversi ambiti di studio, una delle spiegazioni più comuni dell’efficacia e delle abilità di leadership consisteva nell’attribuire il successo o l’insuccesso delle persone alle loro caratteristiche interne e stabili. Inizialmente, queste caratteristiche stabili erano rappresentate dall’appartenenza razziale e dalle caratteristiche morfologiche; successivamente, il focus sulle caratteristiche stabili come fonti di successo si è spostato verso i tratti di personalità.

La frenologia di Gall (in Mengozzi, 2008), ad esempio, assumeva che le funzioni psichiche dipendessero dalla morfologia del cranio; non è stata rara la giustificazione anche frenologica del potere di alcuni leader, come accadde nel caso di Giuseppe Garibaldi. Timoteo Riboli, frenologo e medico di Garibaldi, usando i suoi strumenti definì la testa di Garibaldi “una testa meravigliosa, organica, senza défaillance, che la scienza studierà e prenderà a modello” (in Mengozzi, 2008). Lo stesso si può dire della fisiognomica di Cesare Lombroso, utilizzata specialmente per identificare “criminali e folli” a partire da caratteristiche morfologiche.

Sebbene Riboli e Lombroso parlassero di scienza, le assunzioni su cui si basavano per formulare le loro valutazioni non sono mai state dimostrate scientificamente. Il determinismo morfologico e genetico, che ha legittimato alcune tra le più grandi stragi dell’umanità e alcuni dei più grandi processi di schiavizzazione (Losurdo, 1998, 1999, 2002, 2006)[4], è sicuramente qualcosa di molto diverso dalle teorie dei tratti. Tuttavia, il determinismo morfologico ha lasciato in eredità alle teorie dei tratti la fallacia logica per cui la causa delle capacità di influenzare efficacemente è da cercare esclusivamente all’interno delle persone[5].

Questo è il tipico ragionamento delle teorie della leadership basate esclusivamente sui tratti: se alcune persone influenzano più di altre, esse dispongono necessariamente di aspetti stabili interni, che facilitano l’assunzione del ruolo di leader.

Una prima formulazione della teoria dei tratti nello studio della leadership risale a Galton (1869), in Hereditary Genius. Galton sostiene che alcuni tratti innati, come ad esempio gli attributi individuali, la personalità, i bisogni, i motivi, i valori e le skills (come le abilità a fare certe cose in maniera efficace) possono predire il raggiungimento e l’efficacia nelle posizioni di leadership. Galton giunse a queste conclusioni analizzando come si distribuivano 997 persone eminenti in un gruppo di 300 famiglie con due o più persone eminenti. Galton notò che il numero di parenti eminenti decresce all’aumentare del grado di parentela (ad esempio, le persone eminenti hanno più parenti eminenti fratelli o figli, meno parenti eminenti pronipoti, nonni, bisnonni), ed aveva attribuito la distribuzione di questi dati a motivazioni genetiche (Figura 1).

Esistono una serie di studi e di meta-analisi (Bono & Judge, 2004; Derue, Nahrgang, Wellman & Humphrey, 2011; Judge, Colbert & Ilies, 2004; Lord, De Vader & Alliger, 1986) che mostrano come ci siano effettivamente dei tratti legati alle abilità di leadership, come estroversione, dominanza, mascolinità/femminilità, intelligenza, intelligenza emotiva, che legittimerebbero, in parte, la teoria del grande uomo. Questi tratti, tuttavia, spiegano solo una parte della varianza dell’efficacia della leadership; inoltre, talvolta, le meta-analisi sulla leadership hanno riportato risultati incoerenti (Klenke, 1993). Questo approccio ha, inoltre, il forte limite di non considerare in nessun modo il contesto e di non considerare che i tratti “non sono statici ma dinamici” (Palmonari, Cavazza & Rubini, 2002).



[1] Sebbene diverse meta-analisi (Derue, Nahrgang, Wellman, Humphrey, 2011; Judge, Colbert, Ilies, 2004; Lord, De Vader, Alliger, 1986) riscontrino legami positivi tra intelligenza, leadership e percezione del leader, l’intelligenza non è da considerare in maniera assoluta e lineare. Come nota Northouse (1997)  nonostante l’intelligenza sia fortemente correlata con capacità e competenze di apprendimento del leader, essa non dovrebbe essere troppo diversa da quella dei subordinati, in modo tale da non produrre effetti controproducenti, come le incomprensioni; questa relazione curvilineare è stata inoltre riportata da Ghiselli (1963).

[2] Aspetto che ricorda la leadership etica

[3] Secondo Jaques (1976, p. 6), la paranoiagenesi nelle organizzazioni si verifica quando è “impossibile agli individui avere relazioni normali improntate alla fiducia e alla confidenza.”

[4] Secondo Domenico Losurdo (1998, 1999, 2002, 2006) è proprio la “despecificazione naturalistica”, una sorta di svalutazione dell’outgroup dovuta ad aspetti innati, stabili e naturali ad aver legittimato le stragi degli Indiani d’America, degli Ebrei nella Germania Nazista e la schiavitù di intere popolazioni (indios, ebrei, afroamericani). Secondo lo stesso autore la “despecificazione politico-morale”, svalutazione legata alle idee e a i valori, storicamente non ha mai prodotto discriminazioni così disastrose.

[5] Gordon Allport (1963) definisce la fallacia individualistica come la tendenza a porre eccessiva enfasi sul soggetto come entità separata, senza riferimento al contesto.

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