La tecnica del Photolangage in Fototerapia

L’uso del Photolangage nella terapia con la fotografia

Fototerapia e Photolangage

 

Lorena Rigoli

Tra le varie tecniche utilizzate sono apparse particolarmente efficaci quelle di mediazione artistica, ovvero tecniche gruppali che fanno riferimento alle più accreditate metodologie terapeutiche e che si avvalgono dell’arte come intermediazione del rapporto terapeutico che la dinamica di gruppo riesce a sviluppare.

Le tecniche d’intermediazione artistica, grazie alle loro caratteristiche, non permettono un’intromissione eccessiva nel privato psichico del soggetto partecipante. Esse inaugurano con molta delicatezza itinerari d’introspezione e di consapevolezza che non obbligano mai a svelarsi o raccontarsi in prima persona, ma sempre attraverso un oggetto intermedio ovvero l’oggetto artistico.

Tra le varie tecniche utilizzate, le immagini fotografiche aiutano a raccontare la propria complessità, creando un luogo, uno spazio che supporta le proiezioni in una posizione intermedia e al contempo favorisce la capacità di superare atteggiamenti resistenziali. La foto viene utilizzata come medium privilegiato tra immaginazione e parola, diventando, attraverso uno sguardo soggettivo, una significazione ridisegnante la realtà. Il medium fotografico  tutela attraverso l’oggetto esterno gli oggetti interni, rendendoli esternabili.

In questo paragrafo mi soffermerò particolarmente sul metodo fotografico denominato Photolangage. Il Photolangage è stato creato nel 1965 a Lione presso la scuola psicoanalitica di Jean Bergeret da un gruppo di psicologi che lavoravano con gli adolescenti. Il metodo attraverso un contesto di gruppo permette ai soggetti coinvolti di raccontarsi ed entrare nel loro privato psichico mediante l’utilizzo dell’oggetto artistico il quale consente di creare uno spazio di gioco che mobilita pensieri, idee, emozioni ed affetti. Inizialmente, in modo del tutto intuitivo, questi professionisti proposero di utilizzare delle fotografie come supporto alla parola, per quei giovani che presentavano difficoltà ad esprimersi e a parlare in gruppo delle loro esperienze diverse, e a volte dolorose sul piano personale. Le prime foto erano di vari autori, stampate in bianco e nero su carta fotografica. Gli animatori rimasero colpiti dal risultato di questa prima esperienza: gli scambi si sviluppavano e le storie si legavano con spontaneità e interesse reciproco. Sembrava possibile provare piacere ad ascoltarsi.[1] Successivamente l’idea fu applicata anche  nella formazione degli adulti e nel campo sociale.

Da circa vent’anni il Photolangage viene utilizzato in campo terapeutico propriamente detto, per la cura di situazioni cliniche come i disturbi d’ansia, dell’umore ma anche con gravi pazienti psicotici o affetti da dipendenza patologica.

Il Photolangage è un metodo di gruppo nel campo della salute mentale; ogni gruppo è costituito in media da un numero variabile di pazienti, da cinque a otto, e si riunisce una volta a settimana per una durata di un’ora, mentre nel caso degli adulti si lavora con dodici o più partecipanti per un minimo di due ore per seduta. I gruppi settimanali, a luogo e ad ora fissa nell’istituzione, conferiscono al gruppo la sua dimensione terapeutica.

Ogni seduta inizia con una domanda accuratamente preparata dall’animatore che una volta posta al gruppo determina la scelta delle fotografie. Le domande poste al gruppo, che cambiano ogni settimana, segnano le principali tappe della sessione e sono ispiratrici di un’evoluzione. Il punto più delicato del dispositivo è proprio quello di selezionare la domanda da porre all’inizio della seduta che non deve essere né troppo diretta né troppo lunga o complessa; questo momento richiede la più grande cura e la più grande creatività. Per quanto riguarda le fotografie, il metodo Photolangage è costituito da un insieme molto preciso di consegne e da un certo numero di dossier di 48 foto in bianco e nero, raggruppate per tema.

Una seduta di Photolangage si svolge in due tempi:

  1. La scelta delle fotografie: dopo aver comunicato la domanda che dà inizio alla seduta di gruppo, l’animatore dispone con cura le foto su diversi tavoli, in modo che tutti i membri del gruppo possano circolare nella stanza, passare di tavolo in tavolo e guardare liberamente le foto senza ordine prestabilito. La scelta delle foto si compie in silenzio, con il solo sguardo, inoltre è necessario lasciare tutte le foto a disposizione di tutti i partecipanti ed infine è importante non cambiare la scelta anche se due o più persone hanno selezionato la stessa foto. L’obiettivo è quello di coinvolgere il più possibile i partecipanti nel lasciarsi interrogare dalle foto, guardandole attentamente e farsi catturare da quelle che parlano di più. L’animatore stesso, durante l’annuncio di tutte le consegne, comunica al gruppo che lui stesso sceglierà una foto e parteciperà agli scambi in gruppo come tutti gli altri membri. Nell’ambito della cura questo tipo d’interesse favorisce grandemente la possibilità per  pazienti d’identificarsi con i curanti, con uno dei quali magari ha scelto la stessa foto e che di questa stessa foto può esprimere dei punti di vista simili o differenti.
  2. Gli scambi in gruppo: in questo secondo momento i partecipanti sono invitati dall’animatore a scambiare in gruppo i propri pareri sulle foto che sono state scelte. Il tempo della presentazione permette al soggetto di appropriarsi della propria visione personale della realtà,così come la vede. Si constata in questo modo la qualità dell’ascolto mentre un partecipante presenta la propria foto. Spesso risulta sorprendente scoprire, attraverso la descrizione di un altro, una visione nuova e creatrice, un punto di vista diverso sulla realtà che sembra aprire nuovi orizzonti. Ognuno si riconosce più o meno nella propria scelta ma soprattutto in quello che gli altri ne dicono. Sono gli sguardi degli altri a far evolvere sensibilmente la percezione della foto. Può succedere anche l’inverso, indipendentemente da quelli che siano gli scambi e le associazioni che si sviluppano sulla base di una foto, chi l’ha scelta esprime con forza il carattere irriducibile della propria percezione.

La specificità del Photolangage riguarda sia gli elementi del dispositivo che i processi gruppali, inoltre questo metodo facilita largamente la presa di parola da parte del soggetto di fronte al gruppo, favorendo anche degli scambi identificatori. Per quanto riguarda il dispositivo, una delle particolarità del metodo è determinata dal fatto che l’animatore pone al gruppo una domanda, alla quale suggerisce di rispondere con l’aiuto di una foto. Questa componente è essenziale perché definisce uno spazio di gioco tra la mobilitazione del pensiero […] e la mobilitazione del pensiero in immagini.[2] Questa particolarità del metodo ha due effetti principali sullo svolgimento di una seduta: da un lato l’effetto di contenimento e dall’altro la doppia articolazione tra l’intrapsichico e l’intersoggettivo.

La domanda e la fotografia rappresentato i due pilastri del Photolangage. Quando una foto ci parla, ci sceglie, è diventata un’immagine, e dunque ha per noi la capacità di connotare ben altro che una semplice realtà storica, socioculturale. Ci fa pensare, evoca uno scenario, metaforizza una situazione del tutto diversa, ci fa emergere ricordi o, talvolta, ci confronta soltanto ad un ambiente affettivo. Una foto scelta come oggetto mediatore diventa, attraverso l’investimento di cui è oggetto, un’immagine atta a mobilitare le nostre immagini interne, associate e legate attraverso l’affetto che la sottende.[3]  Dunque colui che partecipa è invitato a presentare la foto davanti al gruppo esponendosi agli sguardi degli altri. Grazie alla mediazione data dalla fotografia, il soggetto non parla direttamente di sé ma lo fa attraverso l’immagine partendo da essa e da quello che il soggetto ci vede associativamente. Nel frattempo gli altri ascoltano, guardano la foto e possono partecipare con interesse e sollecitazione oppure con totale indifferenza.

Con le tecniche mediatrici, come il Photolangage, possiamo apprendere come l’immaginario non faccia altro che rivelarsi in termini di contenuti ma anche come funzione psichica. Sono gli interventi sulle foto degli altri ad avere un valore interpretativo, mostrando delle volte la violenza di tale atto dovuto al rifiuto di vedere ciò che l’altro ha percepito nella foto da lui scelta. La foto, oggetto mediatore, può essere il ricettacolo di una violenza verbale trasportata su di essa, e può essere commentata negativamente, criticata, demolita a parole, senza che il soggetto si senta attaccato – dato che questi continua a pensare che si tratti solo di una foto, anche se di quella che ha scelto. Si constata allora che lo scarto tra foto – oggetto esterno e la foto – immagine interna crea uno spazio di gioco.[4] In conclusione, dunque, una foto può evocare una musica, un profumo, un movimento, un contatto attraverso il tocco. Tutte le tecniche mediatrici hanno la loro specificità, ciascuna privilegiando una porta d’ingresso al mondo interno ed intimo della nostra sensorialità.

 


[1] S. Ferrari, op. cit., p. 157.

[2] Ivi, p. 160.

[3] Ivi, p. 161.

[4] Ivi, p. 162.

Scrivi a Igor Vitale