La comunicazione non verbale è innata o appresa?

Comunicazione non verbale è innata o dipende dalla cultura?

Le teoria innatista e la teoria neuroculturale

 

Valeria Bafera

 

Per lungo tempo il tema sull’origine della comunicazione non verbale è stato oggetto di controversie tra studiosi innatisti, che ne ipotizzano l’origine genetica, e studiosi ambientalisti che sottolineano l’importanza dell’apprendimento sociale e dei fattori culturali.

Le numerose ricerche condotte in quest’ambito, d’altro canto, hanno avvalorato sia ipotesi di origini culturali della comunicazione sia ipotesi di origini innate, privi d’influenza da parte dell’apprendimento sociale (Cozzolino, 2007).

Com’è stato rilevato da diversi studiosi della comunicazione non verbale, come Argyle, (1975), non esiste una teoria unitaria e globale di questo tipo di comunicazione o un’ unica disciplina che ne studia aspetti e funzioni. Diversi approcci disciplinari (psicologia, sociologia, biologia, antropologia), infatti, hanno indagato da differenti prospettive teoriche questo sistema di comunicazione, tanto da poterne ricondurre le origini e le radici a tre orientamenti predominanti.

Il primo orientamento potremmo definirlo innatista in quanto pone enfasi al ruolo decisivo del corredo genetico (Toni, 2011). È, certamente, Darwin il primo scienziato ad aver studiato la comunicazione non verbale secondo una concezione innatista. Nel celebre saggio L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), mettendo a confronto le modalità espressive corporee dell’uomo e dell’animale, egli elabora il principio secondo il quale il linguaggio corporeo nell’uomo è a base innata e per lo più geneticamente ereditato.

In particolare, afferma che le espressioni facciali delle emozioni, individuate sia nell’uomo che nell’animale, abbiano una valenza adattiva, esito dell’ evoluzione filogenetica e regolati da precisi processi e meccanismi nervosi.

Per esempio la capacità da parte di un animale di riconoscere che un suo simile prova paura e non rabbia può garantire la sopravvivenza, poiché permette di intraprendere determinati comportamenti. Proprio questi modelli comportamentali, nel corso della selezione naturale, sarebbero divenuti stabili e messi in atto in maniera automatica anche in circostanze non richieste, tale da divenire segnali stereotipati. Per cui, come gli animali, anche gli uomini disporrebbero di un repertorio di segnali riconducibili ad adattamenti filogenetici, con lo scopo di regolarne la coesistenza sociale.

Dal punto di vista neurologico, tra l’altro, esisterebbe nella specie umana la cosiddetta amigdala, la parte più antica del cervello, responsabile delle reazioni emotive (in particolare la paura) e degli istinti primordiali; ed è proprio in questa parte che si generano le reazioni di comunicazione non verbale involontarie.

Quando riceviamo uno stimolo sensoriale, il talamo, una volta sottoposto lo stimolo all’amigdala, smista in frazioni di secondo questo stimolo anche all’area sottoposta allo stesso (visiva, linguistica, gestuale, ecc.) che valuterà l’adeguatezza della reazione dell’amigdala dandone consenso o innescando tentativi di inibizione (Giusti, Azzi, 2013).

Anche Ekman (1972) confermò alcune intuizioni originali di Darwin circa la gestualità innata, allorquando studiò le espressioni facciali dei membri di cinque culture completamente differenti. Egli appurò che ogni cultura adottava la medesima mimica facciale di base per esternare le emozioni; questo lo portò alla convinzione che doveva trattarsi di una caratteristica innata.

Così elaborò la teoria neuroculturale, secondo la quale esiste un “programma nervoso” specifico per ogni emozione che attiva l’azione coordinata di determinati muscoli facciali; questo assicura l’universalità delle espressioni facciali e la sua forza prevale anche su quelle che Ekman ha chiamato regole di esibizione, apprese culturalmente e che posso modificare la manifestazione non verbale delle emozioni.

L’approccio culturale antropologico, invece, sostiene l’origine culturale dei comportamenti non verbali utilizzati dall’uomo soprattutto a fini sociali. Secondo questa prospettiva, dunque, l’acquisizione delle competenze non verbali avviene sulla base di meccanismi di apprendimento condizionati dalla cultura di riferimento (Balconi, 2008).

Molteplici ricerche antropologiche si sono indirizzate in questa direzione avvalendosi di metodi etnografici e di osservazione partecipata all’interno di culture o tribù anche “non civilizzate”, nel senso occidentale del termine. Esse hanno focalizzato l’attenzione sulla differenza tra queste culture nell’attribuzione di significati diversi allo stesso comportamento non verbale (per esempio l’inchino o il saluto) oppure nell’utilizzo di diversi segnali non verbali aventi uno stesso significato sociale.

Uno dei primi studi svolti all’interno di quest’orientamento è stato quello di Efron (1941), il quale ha condotto uno studio sulle comunità di italiani e di ebrei immigrati in America, allo scopo di dimostrare l’origine culturale della comunicazione non verbale, nonché l’influenza culturale sulle espressioni non verbali. I risultati mostrarono come gli atteggiamenti non verbali fossero maggiormente condizionati da fattori culturali, piuttosto che da quelli biologici. Inoltre, gli italiani utilizzavano il linguaggio non verbale come il popolo d’origine, mentre gli ebrei diminuivano il numero di gesti durante la conversazione quando parlavano in lingua inglese. E ancora un importante contributo lungo questa direzione, proviene dagli studi sulla prossemica condotti da Hall (1966), il quale ha analizzato le differenze culturali della distanza interpersonale (da lui coniata con il termine di prossemica), con particolare riferimento all’utilizzo e ai significati attribuiti dagli individui ai quattro tipi di distanze: intima, personale, sociale e pubblica (nel secondo capitolo analizzeremo questo aspetto più dettagliatamente).

Infine, sono da ricordare i lavori sulla cinesica svolti da Birdwhistell (1970), il quale ha esaminato le analogie tra i gesti non verbali e il linguaggio parlato sostenendo per entrambi l’influenza del contesto culturale in cui avvengono.

Il desiderio di appurare se i segnali non verbali siano innati oppure appresi, trasmessi geneticamente o acquisiti ha, quindi, stimolato un gran numero di ricerche con le conseguenti controversie. Proprio per testare l’origine del comportamento non verbale, sono stati condotti molteplici esperimenti sia con i non vedenti che con i non udenti, cioè con soggetti che si trovano nell’impossibilità di apprendere segnali non verbali.

Eibl-Eibesfeldt (1970), per esempio, ha scoperto che nei bambini nati ciechi e/o sordi l’atto di sorridere avviene indipendentemente dall’imitazione degli adulti, per cui si caratterizzerebbe come gesto innato. Oppure altri studi hanno testato che la maggior parte dei primati nasce con la capacità di succhiare, tanto da farla supporre una caratteristica genetica o innata. Le conclusioni di tali ricerche indicano che alcuni gesti sono sicuramente innati, mentre altri hanno un’origine di tipo culturale, tuttavia il dibattito circa l’innatismo di alcuni gesti rimane ancora aperto (Pease, 1993). In compenso, però, si è sviluppato un ulteriore approccio che definisce l’interdipendenza tra cultura e natura. Si tratterebbe di una prospettiva multidisciplinare e integrata, la quale afferma che l’origine della comunicazione non verbale non è né innata né esclusivamente appresa, ma assume forme differenti in base ai diversi segnali del repertorio comunicativo. Per cui, all’interno del processo di comunicazione è possibile rintracciare sia aspetti universali con una forte componente innata, sia aspetti che scaturiscono dallo sviluppo storico-culturale e dall’apprendimento sociale del soggetto (Cozzolino, 2007).

Secondo questo approccio i processi legati alla comunicazione non verbale si baserebbero su strutture neurobiologiche specifiche che, pur essendo geneticamente determinate, godono di un certo grado di flessibilità dovuto proprio all’effetto della cultura (Toni, 2011). In questi circuiti nervosi sottostanti alle diverse forme di comunicazione non verbale, s’integrano processi automatici e involontari con processi consapevoli e volontari. Infatti, benché la comunicazione non verbale sia ancorata a principi istintivi, gli individui possono esercitare su di essa un certo grado di controllo, regolandone intenzionalmente le modalità espressive.

A questo proposito, Anolli (2006) parla di plasticità del linguaggio non verbale, inteso come variabilità della consapevolezza e del grado di controllo lungo un continuum neurofisiologico, che pone le condizioni di apprendimento di alcune sue forme e attiva processi di condivisione convenzionale all’interno di ogni comunità di individui. Basti pensare alla distanza fra la comunicazione non verbale dei giapponesi e quella delle popolazioni latine: nei primi vige l’ideale della soppressione delle emozioni, per cui si tenderebbe ad assumere un volto che abbia sembianze di una maschera immobile, mentre per i secondi prevale il principio della naturalezza che incoraggia la manifestazione delle emozioni.

Potremmo dunque concludere affermando che per sua natura la comunicazione non verbale è un sistema analogico, quindi realistico, ma per effetto delle influenze culturali sulla visione del mondo, del tempo o delle tradizioni, tende a divenire convenzionale, meno realistico e più astratto. A volte grazie ai gesti riusciamo a intenderci con persone che parlano lingue diverse, ma altrettante volte i gesti restano incompresi oppure creano forti malintesi (Pease, 1993). Così come il linguaggio verbale, anche le espressioni non verbali, infatti, possono differire da una cultura all’altra e questo spiegherebbe il motivo per cui alcuni suoi aspetti non si rivelano un’efficace veicolo universale. In ogni caso, pur avendo una certa convenzione sociale, questi segnali hanno comunque una connessione diretta con ciò che rappresentano: il contesto, gli interlocutori, l’insieme delle azioni che vengono compiute durante una conversazione, permetteranno di volta in volta di coglierne il significato.

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