Il significato della voce nella comunicazione non verbale

Comunicazione paraverbale e non verbale: una definizione

Esiste un legame tra voce e personalità?

 

Valeria Bafera

“Non esistono parole pure e semplici: vi sono soltanto parole con gesti o con tono di voce o qualcosa del genere” scrive Bateson (1984) e qui cercheremo di analizzare gli aspetti vocali che rientrano nella comunicazione non verbale, i quali denotano il modo in cui è detta una cosa.

La voce manifesta e trasmette numerose componenti di significato oltre alle parole (Anolli, 2006): chiunque a occhi chiusi sarebbe in grado di riconoscere la voce di una persona familiare, o se si tratta di un uomo, una donna, un bambino, un adulto. Questo perché oltre alle parole viaggiano nell’aria altre informazioni, quali il timbro, il volume, l’estensione della voce, ecc., informazioni sonore che possono essere definite segnali vocali o paralinguistici.

Classificare gli elementi vocali non verbali non è facile visto la scarsa chiarezza terminologica utilizzata dai vari studiosi, tuttavia il termine “paralinguistico” è quello più comune nella designazione delle caratteristiche vocali non verbali. Il linguista Trager (1958) fu il primo a coniare il termine paralinguistica, distinguendo all’interno due categorie principali: qualità della voce e vocalizzazioni. La prima riguarda le caratteristiche individuali fisiologiche (aspetti legati al sesso, all’età, alla provenienza) e relative all’intonazione (controllo delle labbra, della glottide, del tono della voce, della risonanza, dell’articolazione dei fonemi). Le vocalizzazioni, invece, comprendono: i caratterizzatori vocali che esprimono emozioni (riso, pianto, sospiri, gemiti); i qualificatori vocali che caratterizzano i suoni (timbro, intensità, intonazione); i segregati vocali utilizzati come intercalare tra le parole: grugniti, schioccare della lingua, intercalari sonori («uhm», «ah», «eh»).

Argyle (1992) distingue tra vocalizzazioni non verbali connesse al discorso e quelle indipendenti da esso. I primi accompagnano la pronuncia delle parole e vengono modificati a seconda del contesto comunicativo o del significato semantico che si vuole trasmettere all’interlocutore: abbiamo i segnali prosodici come parte integrante del discorso ( ad esempio tono di voce ascendente per fare una domanda, pause, ecc); i segnali di sincronizzazione utilizzati per ultimare una frase (cedere la parola o continuare a mantenerla); le pause riempite come balbettii, omissioni, ripetizioni, incompletezza della frase.

Le vocalizzazioni indipendenti dal discorso, corrispondono alle vocalizzazioni descritte da Trager (1958), sono: i rumori emotivi (ridere, piangere, gemere, sussurrare); i segnali paralinguistici indicatori delle emozioni e degli atteggiamenti interpersonali; la qualità della voce e l’accento. Tra l’altro secondo Argyle (1978) l’origine delle vocalizzazioni risiede nella respirazione, per prepararsi a uno sforzo, per proteggere la gola chiudendola; questi suoni sono stati ritualizzati al fine di comunicare e hanno assunto la funzione di richiami di soccorso, pericolo e così via.

E ancora Anolli (2006) distingue tra segnali vocali verbali (paralinguistici) e segnali vocali non verbali (extralinguistici). I primi sono fondamentali per l’esposizione linguistica: il tono, generato dalla tensione delle corde vocali, determina il profilo d’intonazione della voce; l’intensità, prodotta dalla pressione ipolaringea e dalla forza fonorespiratoria, si riferisce al volume della voce e pone l’accento enfatico attraverso cui il soggetto enfatizza specifiche porzioni del discorso; il tempo che determina la successione dell’eloquio e delle pause (numero di sillabe pronunciate al secondo, brevità delle pause interne all’eloquio, ecc.). I secondi determinano la qualità della voce di un individuo, ne costituiscono quella che Anolli (2006) chiama l’impronta vocalica, grazie alla quale siamo in grado di riconoscere con facilità una voce familiare in mezzo a molte altre. Essi interessano i fattori biologici (sesso, età), sociali (cultura, regione di provenienza, classe sociale), di personalità connessi con tratti psicologici della persona (ad esempio la voce altisonante è tipica della persona estroversa), e psicologici transitori che riguardano aspetti legati a stati d’animo situazionali o a esperienze emotive.

La voce è un canale non verbale su cui è difficile esercitare un controllo cosciente e per questo un importante veicolo per la comunicazione dei vissuti emozionali (Cozzolino, 2007): dalle variazioni di tono, timbro e ritmo si possono riconoscere gli stati emotivi del parlante indipendentemente dal discorso. Attraverso gli studi di Scherer (1981), si è giunti alla tesi che le emozioni producono effetti stabili sulla voce e sul parlato. Le variazioni dell’apparato vocale in relazione agli stati emotivi del soggetto, possono essere rilevate mediante una serie di parametri acustici che includono cambiamenti fisiologici in diverse parti del sistema di produzione vocale: si considerano le variazioni temporali, l’intensità, la frequenza (Balconi, 2008).

Quando per esempio si prova collera durante un eloquio, è statisticamente provato che il parlato presenti una frequenza della voce più alta, con presenza di pause molto brevi o assenti. Ma potremmo analizzare anche la paura, la quale si caratterizza per un aumento della frequenza media della voce, della sua variabilità ed estensione; e ancora quando si prova tristezza la frequenza e l’intensità della voce si abbassa, sono presenti numerose pause e l’articolazione è rallentata; per contro all’emozione della gioia è associata un aumento sia della frequenza che dell’intensità, una tonalità acuta della voce e un’accelerazione del ritmo di articolazione; infine quando si prova disgusto la voce subisce un aumento della media della frequenza e un rallentamento della velocità dell’eloquio (Toni, 2011).

Nella comunicazione paraverbale, a fianco alle qualità vocali, non dobbiamo dimenticare le pause con una valenza non verbale di tipo strategico il cui significato varia con le situazioni, le relazioni, la cultura di riferimento. Goldman e Eisler (1968) sono stati i primi a ipotizzare l’importante ruolo delle pause soprattutto per la pianificazione di un discorso. Per di più, secondo Argyle (1992) esse costituiscono circa la metà di un discorso: ne distingue tra pause brevi, inferiori a un quinto di secondo, usate per dare enfasi al discorso e pause lunghe, che segnalano congiunzioni grammaticali, come la fine di una frase. Burgoon, Buller e Woodall (1996) classificano tra pause piene e vuote. Entrambi sono sospensioni del parlato, tuttavia le prime, dette anche non silenti, sono interruzioni del flusso linguistico realizzate attraverso l’emissione di vocalizzi (uhm, mhn…) in situazioni di esitazione e sono funzionali al parlante per organizzare in tempo reale il proprio discorso senza cedere il turno di parola. Le seconde, invece, dette anche silenti o silenzio, sono legate ad un’assenza totale dell’attività vocale ma ciò non esclude la loro importanza comunicativa.

Anzi, come accennato nelle prime pagine, spesso il silenzio rappresenta un potente mezzo di comunicazione. Per la sua ambiguità e apparente neutralità, il silenzio è indubbiamente uno degli aspetti non verbali più difficili da interpretare, la sua valenza comunicativa positiva o negativa dipende da diversi aspetti (Anolli, 2002): esso può indicare consenso o segnalare dissenso; può rivelare qualcosa o nasconderla; può indicare una forte concentrazione mentale o viceversa una dispersione mentale. Addirittura, in sede di selezione del personale molti focalizzano l’attenzione sui tempi di riposta dei candidati come ulteriori indizi valutatori.

Infine, si suppone che esistano dei legami fra la voce e la personalità: Gandolfi (2003) sostiene che la mancanza di un equilibrio nella voce è un indice della presenza di un problema nella personalità. Tra le dimensioni più affermate della personalità troviamo sicuramente l’estroversione correlata a determinate caratteristiche della voce, quali elevata intensità e voce risonante con poche e brevi pause durante un eloquio; per contro una voce bassa e sussurrata è tipica di soggetti ansiosi, i quali utilizzano frequenti pause lunghe durante l’eloquio, probabilmente per la necessità di riorganizzare cognitivamente il proprio discorso (Scherer, 1981).

Un’interessante classificazione dell’attribuzione dei tratti di personalità a partire dai segnali vocali non verbali è stata fornita dalle ricerche di Addigton (1968), ne elenchiamo alcune: una voce aspirata è associata a giovinezza e ipersensibilità per le femmine, mentre per i maschi richiama aspetti di creatività; la voce piatta è tipica delle persone pigre, introverse, collegata ad attribuzioni di mascolinità; la voce tesa nelle donne è percepita come indice di emotività, mentre negli uomini come indice di anzianità e scarsa flessibilità; la voce gutturale è connessa con lo stereotipo dell’uomo maturo, sofisticato, curato nell’aspetto, viceversa per la donna è indice di mascolinità, rozzezza; una voce altisonante, forte e chiara è considerata prerogativa dell’uomo energico, orgoglioso, leader e della donna gregaria con uno spiccato senso estetico.

Questi stereotipi possono basarsi in parte su mere associazioni fra voce e personalità oppure su voci di persone di età, sesso e cultura differenti o anche su analogie, quali sonoro, piacevole, tremolante (Argyle, 1992). Tuttavia non possono essere considerate correlazioni assolute dal momento che, come per ogni relazione semantica, incide significativamente il contesto sul significato attribuito al segno.

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