Come usare la comunicazione col paziente sieropositivo

La relazione medico-paziente nelle persone con HIV

La comunicazione col paziente sierpositivo

Samanta Vara

 

E’ evidente che il medico che si trovi a dover comunicare la condizione di sieropositività si troverà inevitabilmente a dover valutare tantissimi aspetti, il paziente sieropositivo infatti, più di altri, non è semplicemente un paziente da curare,ma è una persona che richiede alla struttura a cui si rivolge una comprensione globale e una risposta adeguata ai suoi molteplici bisogni che non sono solo di ordine fisico, ma anche psicologico,sociale ed esistenziale… e non potrebbe essere altrimenti poiché siamo di fronte a una malattia che non solo colpisce profondamente il corpo e la mente,ma interferisce anche con tutte le principali manifestazioni vitali del paziente che è costretto perciò a mettere in discussione oltre alla sua speranza di vita anche le sue relazioni sociali, familiari, sessuali e i suoi progetti lavorativi e procreativi.

Si tratta di una situazione molto particolare, per cui il rapporto  che si instaura tra medico e paziente HIV richiede da parte del medico un’elevata capacità relazionale e la necessità di saper controllare e gestire quell’insieme di emozioni, disagi, paure, aggressività, sensi di colpa e frustrazioni che questa malattia evoca non solo nei pazienti, ma anche negli operatori sanitari. Il medico deve saper gestire situazioni critiche come ad esempio lo shock emotivo provocato dalla notizia della sieropositività,che determina nel paziente da una parte di incredulità e negazione,dall’altra di rabbia,disperazione e depressione.

In un momento successivo poi il medico dovrà aiutare il paziente ad affrontare il problema del contagio, inteso non solo come la possibilità da parte del paziente di trasmettere l’infezione ad altre persone,cosa che determina spesso gravi limitazioni nella vita sessuale, ma anche contagio inteso come possibilità che, al momento della scoperta di sieropositività, il paziente abbia già contagiato altre persone. In quest’ultimo caso il paziente deve affrontare oltre al suo problema personale anche quello di una situazione familiare drammatica di cui egli può sentirsi colpevole.

Una volta che sia stato superato l’impatto con questi primi problemi sollevati dalla scoperta di sieropositività, il medico dovrà essere in grado di continuare una relazione che gli consenta di aiutare il paziente a intravedere quel cammino lungo e difficile,ma necessario che egli dovrà compiere per riuscire a gestire le problematiche cliniche legate alla sua sieropositività senza esserne sopraffatto.

Alla base di ogni rapporto proficuo è importante che ci sia un atteggiamento di attenzione e disponibilità nei confronti dei bisogni del paziente. Non esiste ovviamente un comportamento codificato valido in ogni circostanza, esistono comunque linee guida elaborate dal Ministero della Salute, in collaborazione con esperti di Regioni e Province autonome e di altre organizzazioni sanitarie nazionali e pubblicate nel mese di giugno 2011 che concernono la  “gestione della comunicazione dell’evento avverso”. Tali raccomandazioni riguardano:

  • il luogo dove deve svolgersi il colloquio: luogo appartato e raccolto nel quale sia possibile comunicare senza interruzioni, garantendo assoluta riservatezza,
  • il momento : la comunicazione deve avvenire non appena accertato il fatto
  •  la modalità: il professionista deve spiegare con chiarezza la situazione, utilizzare modalità di linguaggio appropriate, non criticare, giudicare o censurare, non esprimere mai troppi concetti contemporaneamente, accertarsi che il messaggio trasmesso sia stato compreso correttamente, esprimere sempre un atteggiamento aperto e disponibile,  guardare il paziente negli occhi mentre si sta parlando con lui, accompagnare le parole con i gesti e allo stesso tempo comprendere gli stati d’animo del paziente e le sue motivazioni; è importante dare al paziente la possibilità di esprimere le conoscenze che possiede riguardo alla malattia e ascoltare i suoi silenzi..  deve insomma instaurare quello che si chiama un “rapporto empatico”.

Ovviamente le situazioni che vengono a crearsi sono molteplici, non esiste “la frase giusta” da dire, tantomeno è possibile prevedere la reazione del paziente, ma fa parte delle responsabilità del medico cercare di conoscere a fondo il paziente per poter entrare in sintonia con lui e adattarsi alle diverse modalità con cui il singolo paziente affronta la sua malattia.

Nella nostra esperienza di laboratorio abbiamo assistito a reazioni di varia natura da parte dei pazienti, reazioni dettate da sentimenti di incredulità (“non è possibile!!”, “ma come,proprio io?”), di disperazione e smarrimento (“e ora cosa mi succede?”, ”ho sbagliato una sola volta e guarda cos’è successo!!”), di preoccupazione (“come faccio a dirlo a mia madre?”, “mia moglie sta bene?”) e addirittura, in un caso, di rabbia e desiderio di “vendetta” nei confronti dell’altro sesso (“mi hanno rovinato la vita e ora io la rovinerò a loro”). In alcuni casi i pazienti hanno espresso la loro profonda fede (“ credo in Dio e so che mi salverà”, “se questa è la volontà di Dio, non posso far altro che accettarla”). E’ ovvio che per affrontare queste situazioni il medico deve essere anche un po’ psicologo perché,come già detto, la diagnosi di sieropositività è una diagnosi densa di profonde implicazioni, subentrano angoscia e paura, insieme al terrore di non sapere a cosa si va incontro, se parlarne e con chi parlarne, se andare dal proprio medico oppure no… Ricordiamo a questo riguardo che la legge 135 del 1990, disciplinando la materia dell’Hiv e dell’Aids in Italia, suggerisce tra le altre cose che il contenimento dell’ infezione passa anche attraverso una corretta comunicazione al paziente fin dal primo momento. Questo al fine di supportarlo in un momento assai delicato, informarlo e insieme responsabilizzarlo sui suoi comportamenti futuri, in particolare quelli sessuali, gli unici che comportino il rischio di trasmettere il virus ad altre persone. Una corretta informazione oggi impone anche di non mostrare remore nel consigliare al paziente sieropositivo l’utilizzo del profilattico come unico strumento in grado di proteggere dal contagio i suoi eventuali partner.

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