Differenze tra uomo e donna nell’Antica Roma

Nella Roma antica, cominciano a imporsi i rapporti antagonistici, il pater familias (con la sua patria potestà, col suo potere assoluto, natura et iure) aveva dei privilegi relativi al fatto che era titolare dei propri beni, a differenza della donna, che, come i figli, non poteva possedere qualcosa di proprio.

Nei primi secoli della sua storia il diritto romano rifletteva le regole di una società in cui capo indiscusso era l’uomo, con un potere di vita e di morte (“ius vitae ac necis”), padrone della casa e della familia, comprensiva anche dell’intera servitù.

Soltanto l’uomo godeva dei diritti politici (votare, eleggere e farsi eleggere, percorrere la carriera politica, il corsus honorum). La donna ne era del tutto esclusa; anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore, di un uomo che esercitasse su di lei la tutela: questi era il padre, poi il marito e, all’eventuale morte del marito, il parente maschio più prossimo.

Una situazione molto differente da quella Egizia, ma anche da quella Spartana.
Da una legge che figura nelle XII Tavole si può ricavare la posizione giuridica della donna nell’antica Roma: “Feminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus Vestalibus”. E cioè: “(E’ stabilito che), sebbene siano di età adulta, le donne devono essere sotto tutela, eccettuate le vergini Vestali” (che però erano sotto la tutela del pontefice massimo).

La donna romana era costantemente sotto tutela, cioè in manu: dalla manus protettiva e imperativa del padre passava, anche senza il suo consenso, a quella del marito.
Tuttavia, è documentata la presenza di un matrimonio senza manus, cioè senza potere del marito, in epoca precedente alle Dodici Tavole.
E’ con la legislazione attribuita a Romolo che si sancisce definitivamente una situazione iniqua nel rapporto tra i sessi.

Le limitazioni alla capacità giuridica della donna romana vengono spiegate dai giuristi latini con pretese qualità negative come l’ignorantia iuris (ignoranza della legge), imbecillitas mentis (inferiorità naturale), infirmitas sexus (debolezza sessuale), levitatem animi (leggerezza d’animo) ecc.

La rivendicazione di questa radicale diversità tra uomo e donna rifletteva una netta contrapposizione già esistente tra uomo e uomo, tipica delle società antagonistiche.

Al pari degli impotenti o degli eunuchi, la donna romana, nel periodo arcaico, non poteva adottare; non poteva neppure rappresentare interessi altrui, né in giudizio, né in contrattazioni private; non poteva fare testamento o testimoniare, né garantire per debiti di terzi, né fare operazioni finanziarie; non poteva neppure essere tutrice dei suoi figli minori.

Le veniva preclusa la facoltà d’intervenire nella sfera giuridica di terzi semplicemente perché (e con questo in pratica si chiudeva il cerchio della discriminazione) non aveva mai ufficialmente gestito alcun tipo di potere su altri.
Sotto questo aspetto la società maschilista romana non faceva molta differenza tra donne ignobili e donne rispettabili, come p.es. le matrone. Le differenze erano di carattere etico sociale, non certo politico.

Tra le prime, spesso indicate come non romane, sono coloro che provengono dal mondo del teatro, del circo, della prostituzione. Queste donne appartengono ad uno status sociale inferiore, riconoscibile ad esempio nel fatto che era loro consentito di
non coprirsi il capo o nel divieto di portare la stola, quel manto che è considerato proprio della rispettabile matrona. Queste donne di rango inferiore, come pure quella ufficialmente dichiarate adultere, vengono private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili.

A differenza delle donne egiziane le romane non avevano diritto al nome proprio. Nel caso avesse un nome proprio, questo non doveva essere conosciuto se non dai più stretti familiari e non doveva mai essere pronunciato in pubblico. (1)

Alla nascita infatti venivano assegnati tre nomi al maschio: il praenomen (p.es. Marco; in tutto erano circa una ventina), il nomen (p.es. Tullio) e il cognomen (p.es. Cicerone); e uno solo alla femmina, quello della gens a cui apparteneva, usato al
femminile. La donna veniva considerata non come individuo, ma come parte di un nucleo familiare. Cicerone, p.es., chiamerà la figlia col nome di Tullia.

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