Le cause dell’anoressia legate alla famiglia

Nel capitolo 1.2. abbiamo posto l’accento sulla questione dell’identità che sta alla base della condizione anoressica o bulimica. All’interno di un sistema familiare nel quale si manifesta un problema di anoressia o bulimia, i modelli relazionali e i problemi di comunicazione dovrebbero essere considerati come interconnessi.

Tenendo conto del peso conferito da molti studi alla famiglia per la comprensione dei DCA, possiamo considerare il disturbo come l’indice e allo stesso tempo come il tentativo estremo di soluzione da parte del soggetto anoressico-bulimico del quadro relazionale patologico presente all’interno della propria famiglia.[1]

Hilde Bruch nel suo libro La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale (1978) sostiene che l’anoressia possa essere intesa come una complessa reazione alle famiglie orientate verso la perfezione e il controllo.

L’autrice sottolinea come le ragazze anoressiche si preoccupano così tanto dei desideri e dei bisogni degli altri che finiscono per dimenticarsi di ciò che vogliono esse stesse, di chi sono o vogliono essere veramente. Esse cercano di accontentare i propri genitori cercando di raggiungere la perfezione in diverse aree e credono di dover continuare ad ottenere grandi successi per assicurarsi il loro amore e il loro supporto.

La gabbia dell’anoressia però fa sì che le donne rimangano intrappolate in una lotta senza fine: se da una parte l’anoressica si dimostra dipendente dal giudizio e dall’affetto dei propri genitori, dall’altra dichiara la propria indipendenza. Il controllo del peso, di ciò che mangia o non mangia provano la volontà segreta di liberarsi dalle catene familiari e costruire una propria identità.

Molto spesso medici, psicoterapeuti e altri figure professionali suggeriscono una temporanea separazione del soggetto anoressico o bulimico dalla famiglia soprattutto durante il periodo adolescenziale.

L’effetto patogeno della presenza familiare non sta tanto nella sua eventuale nocività, che può comunque esistere, quanto nel carattere paradossale della relazione di attaccamento, soprattutto se è segnata dall’insicurezza. […] i disturbi che si presentano, qualunque sia la forma che assumono, servono a controllare e a regolare la distanza rispetto ai genitori e hanno l’effetto immediato di suscitare il loro interesse, in quanto li preoccupano, e di proteggere l’adolescente dall’angoscia da abbandono; al tempo stesso, lo proteggono dall’angoscia da fusione-intrusione, tenendo a distanza questi stessi genitori, perché impediscono qualsiasi avvicinamento nella condivisione del piacere e li rendono più o meno impotenti, facilitando nell’adolescente la negazione della sua dipendenza e dalle sue aspettative nei loro confronti. [2]

L’anoressia e la bulimia sono delle vere e proprie dichiarazioni d’indipendenza ma d’altra parte esse rendono i soggetti “ammalati” e portano le famiglia a preoccuparsi ulteriormente di loro e a controllare cosa fanno, cosa mangiano, se mangiano, quanto pesano e così via. Invece di guadagnare indipendenza dalla famiglia quindi il soggetto si ritrova ancora più invischiato nel legami familiari. “La separazione – sottolinea Jeammet – permette all’adolescente di ritrovarsi di fronte a se stesso, di tornare sui suoi passi, di ritrovare la strada”.[3]

         Queste patologie possono essere considerate quindi come delle forme di protesta attuate mediante l’utilizzo del corpo. Riprendendo il paragone con le “sante anoressiche” del Medioevo[4] il cibo rimane l’elemento principale per comprendere come la società considera le donne.[5] Per certi aspetti è ancora viva la concezione secondo la quale la donna debba essere capace di sacrificio, di dedizione, unicamente votata al matrimonio o alla maternità, incapace di reggersi da sola e di reagire.

         Nonostante i DCA siano visti come dei problemi comuni della nostra epoca, molto spesso vengono sottovalutati o sminuiti dalle famiglie stesse. Le ragioni possono andare dalla paura della stigmatizzazione da parte della società alla mancanza di informazioni riguardo questi disturbi, dalla paura di sentirsi responsabili della sofferenza del familiare al dolore e allo spavento che colpiscono la famiglia stessa.

In questa prospettiva la diffusione del fenomeno pro-ana[6] può rappresentare da una parte il desiderio dei soggetti anoressici o bulimici di idealizzare e celebrare i propri sintomi e dall’altra il tentativo di farsi ascoltare, riconoscere e accogliere da una società che li rende omologati e invisibili.

[1] Cfr. BARBUTO M., PACE P., “Logiche del funzionamento e del trattamento della famiglia si soggetti anoressico-bulimici”, in RECALCATI M. (a cura di), Il corpo ostaggio. Teoria e clinica dell’anoressia-bulimia, Roma, Borla, 1998, p. 250.

[2] JEAMMET P., op. cit., p.188-189.

[3] JEAMMET P., ibidem.

[4] v. cap.1.1.1.

[5] Parliamo al femminile poiché, malgrado i DCA siano presenti anche nel genere maschile, è comunque più elevato il tasso di incidenza su quello femminile.

[6] v. cap.1.1.2.

di Federica Maria D’Autilia

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