La gelosia patologica in psicologia: una spiegazione

La struttura della gelosia
È ormai nota l’idea che la gelosia sia un sentimento che coinvolga tre soggetti, i cui rapporti si inscrivono in una matrice triangolare: si pensi al famoso triangolo edipico costituito da padre, madre e bambino, alla gelosia fra fratelli in relazione all’amore dei genitori ed infine a quella romantica, basata su una configurazione relazionale costituita dal Sé, dalla Persona amata e dal Rivale, che può essere o meno una persona reale. Per quanto l’individuo possa inconsciamente aspirare al ripristino dello stato simbiotico originario e della beatitudine ad esso connesso, inevitabilmente dovrà fare i conti con la separazione, con l’altro in quanto persona reale con i suoi bisogni e desideri, nonché con la realtà di soggetto impegnato in un gioco a tre, in quanto non esiste rapporto interpersonale che non implichi l’essere in relazione ad un terzo (Giusti e Frandina, 2007).

Dunque, premesso che l’esperienza relazionale dell’individuo è per sua natura triadica, la possibilità da parte dell’adulto e prima ancora del bambino di gestire tale configurazione, deriva innanzitutto dalla capacità di stabilire delle connessioni triangolari, cioè «di farsi nella propria mente un’idea del tessuto di relazioni in cui si è inseriti» (Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery, 2000, introduzione di Zavattini p. XV). Dunque, per comprendere come essa si sviluppi nel bambino è importante assumere una prospettiva evolutiva che, dal punto di vista della ricerca sperimentale in psicologia dello sviluppo, ci rimanda agli studi sulla comunicazione referenziale e sull’intersoggettività.

Secondo Klinnert e i suoi collaboratori (1983)8 le interazioni triadiche assumono grande importanza proprio in relazione alla comparsa fra i sette e i nove mesi di una nuova competenza nel bambino, quella di riferirsi all’azione con un oggetto o ad un evento esterno condividendolo con la madre (Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery, 2000). Come Bakeman e Adamson (1984)9 hanno messo in evidenza, il bambino inizia a comprendere che sia lui che i suoi genitori hanno delle “cose nella mente”, che possono essere condivise, e sulle quali si può essere o meno in sintonia: questa compartecipazione passa attraverso l’attenzione coordinata verso uno stesso oggetto, che può essere diretta talvolta dalla madre e qualche volta dal bambino (Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery, 2000).

Alcuni ricercatori (Kasari et al., 1990; Klinnert et al., 1983; Stern, 1985)10 hanno sottolineato un altro aspetto significativo di questa competenza, la condivisione degli stati interni: il bambino esprime il proprio piacere nel toccare un oggetto sorridendo alla madre, oppure la guarda quando si trova in una situazione di incertezza ricercando degli indici affettivi attraverso i quali interpretare un evento, o ancora può segnalare il suo bisogno di aiuto attraverso il pianto (Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery, 2000).

Secondo Stern (1985) grazie allo sviluppo dell’intersoggettività, la “sintonizzazione affettiva” prende il posto dell’imitazione, dunque l’attenzione non è più rivolta al comportamento esterno, ma all’esperienza interna, verso la “qualità del sentimento che viene condiviso” (Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery, 2000). Stern (1985) ha dato particolare importanza alla comunione affettiva agli inizi dello stadio intersoggettivo, ma come hanno messo in evidenza Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery (2000), due importanti studiose delle relazioni familiari, né lui né gli altri ricercatori si sono posti la questione di indagare questi stessi processi nelle relazioni triangolari, fatta eccezione per gli studi sul riferimento sociale che, pur utilizzando l’estraneo al posto dell’oggetto come stimolo che generi incertezza, di fatto non valutano la tipica costellazione triangolare composta da madre, padre e bambino.

Detto in poche parole, nonostante i ricercatori hanno considerato il triangolo primario come la “nicchia ecologica dello sviluppo”, hanno finito per studiare unicamente le interazioni faccia a faccia della diade madre-bambino (Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery, 2000). Proprio oltre questo limite si è spinta la proposta di studio delle relazioni primarie, avanzata da Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery a partire dagli anni Ottanta a Losanna: si trattava di un progetto basato sull’osservazione della famiglia come unità secondo una procedura ben precisa, il cosiddetto “gioco triadico di Losanna” (LTP, Lausanne Triadic Play) che si componeva delle seguenti quattro fasi:

1) una situazione “due più uno” in cui madre e bambino giocano insieme e il padre è in una posizione periferica;

2) il passaggio all’altra configurazione “due più uno” con padre e bambino che giocano insieme e la madre in disparte;

3) i tre partner che giocano insieme;

4) il ritorno alla situazione “due più uno” con il bambino in posizione periferica, mentre i due genitori giocano insieme.

Uno dei punti innovativi di questo progetto è stato proprio quello di considerare come terzo il padre e non più un oggetto o un evento esterno, ampliando così l’universo psichico e relazionale del bambino e mettendo in discussione la visione classica dello sviluppo, fondata su un costrutto madri-centrico e presupponente un percorso che dalla diade porta alla triade. Fivaz-Deupersinge e Corboz-Warnery (2000) hanno dimostrato che la competenza triangolare si sviluppa molto precocemente, infatti, hanno osservato nell’LTP la presenza di un numero sufficiente di precursori delle strategie triangolari del bambino nello stadio sociale, cioè in quella fase dello sviluppo, verso i tre mesi, in cui la comunicazione è espressiva, non referenziale o diretta, mentre la conoscenza delle persone e delle cose passa attraverso l’imitazione e la manipolazione dell’oggetto (Fivaz- Deupersinge, Corboz-Warnery, 2000).

Esse hanno rilevato che i bambini, non soltanto differenziavano fra le quattro configurazioni, distribuendo in maniera diversa gli sguardi, ma alternavano anche l’orientamento dello sguardo fra i due genitori diverse volte durante la seduta: queste strategie triangolari dirette a tre mesi avrebbero prefigurato le successive strategie referenziali a nove mesi (Fivaz-Deupersinge, Corboz-Warnery, 2000).

Alla luce di tali risultati, le due studiose, hanno affermato che «la competenza triangolare è una parte integrante della motivazione diretta verso le persone e non dovrebbe essere confusa con lo sviluppo di pratiche coordinate fra la persona e l’oggetto» (Fivaz-Deupersinge, Corboz-Warnery, 2000 p. 166). In questa prospettiva il processo triangolare non faceva riferimento solo all’esperienza soggettiva di esclusione del bambino dalla relazione di intimità dei genitori, cui si associava il vissuto della gelosia, così come inteso nel panorama psicoanalitico, ma si riferiva anche alla sua controparte nell’inclusione: egli, infatti, partecipava al triangolo primario come oggetto di attenzione da parte dei genitori (“due per uno”), come soggetto presente ma in posizione periferica (“due più uno”) o come soggetto in una relazione a tre (“tre insieme”) (Fivaz-Deupersinge, Corboz-Warnery, 2000).

di Valentina Donnari

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