Come comportarsi con un genitore malato di Alzheimer

 

Il caregiver è identificabile in un membro della famiglia che aiuta l’altro membro malato nello svolgimento delle normali attività, necessarie alla vita di tutti i giorni. In valori percentuali si può affermare che nel 64.1% dei casi il caregiver è un figlio/a, nel 25,2% il coniuge e in altri casi meno rappresentativi, possiamo trovare un nipote, un fratello o altro (come in tabella 2):

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Da uno studio effettuato in Italia tra Roma, Milano e Napoli si è riscontrato che un caregiver su 4 è già over 65 e otto volte su dieci si tratta di una donna (moglie, figlia, nuora). E sempre da tale studio è emerso che ogni caregiver dedica in media 15 ore giornaliere all’assistenza del malato, intendendo per assistenza le cure dirette alla persona, come per esempio l’igiene, la preparazione e somministrazione di pasti, farmaci, ecc (vedi tab. 9):

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Facendo una somma di queste ore, è possibile notare che l’assistenza diretta del caregiver può arrivare a 5.500 ore annue

(http://www.salute24.ilsole24ore.com/articles/15883-alzheimer-le-otto-regole-per-tutelare-pazienti-e-caregiver).

Parlando di assistenza è però opportuno fare distinzione tra assistenza diretta e sorveglianza; con la prima si intendono tutte le attività dirette al malato e alla sua cura (igiene, somministrazione pasti e medicinali, ecc.), con la seconda si intende invece il tempo trascorso con il paziente mentre si svolgono altre attività (fa riferimento quindi alla compagnia che viene offerta al malato).

Quando si ha a che fare con un malato di Alzheimer, tutto il nucleo famigliare ne risente, ogni ruolo, ogni routine, ogni abitudine deve essere rivista; è raro che tutti i membri si occupino del malato in egual misura ma è invece più frequente che in maniera più o meno esplicita, venga “eletto” un caregiver principale; spesso è il malato stesso che lo sceglie, quando è ancora in pieno possesso delle sue abilità cognitive. La malattia in sé e la scelta del caregiver può riportare a galla dinamiche familiari irrisolte e riacutizzare vecchi conflitti, altre volte invece viene affrontata con serenità, sempre che di serenità si possa parlare. È importante in ogni caso evitare che il caregiver da principale diventi l’unico poiché va da sé l’immaginare quanto sia oneroso per una sola persona occuparsi di una simile situazione. L’onere che ne deriva è sia di tipo economico, accudire un malato di Alzheimer prevede infatti costi elevati, sia di tipo emotivo-relazionale, non dimentichiamo che il malato è pur sempre un familiare e ben presto anche il più disinformato in materia verrà a conoscenza del fatto che la malattia non potrà regredire, che non esistono farmaci in grado di debellarla e che la prognosi non potrà che essere nefasta.

È fondamentale per il caregiver concedersi degli spazi propri, non chiudersi verso l’interno ma aprirsi, cercare aiuto e accettare l’aiuto offerto (Izzicupo et al., 2009). Ai fini del malato, avere un caregiver frustrato non farà altro che peggiorare la situazione, diminuiranno le sue capacità di ascolto, empatiche e di pazienza, fondamentali nel processo di cura. Questo porterà ad un malato ancora più frustrato ed ansioso con il peggiorarsi dei sintomi comportamentali, aumentando ancor di più il distress del caregiver.

Ecco creatosi un circolo vizioso dal quale è difficile uscire e quando questo avviene è importante che il caregiver esponga le sue difficoltà e si orienti, con l’aiuto degli altri familiari coinvolti, nella scelta di possibili soluzioni (badanti, centri diurni, centri residenziali, ecc.).

Ogni famiglia deve essere consapevole dei sacrifici che andrà ad affrontare, poiché tutti i membri volenti o nolenti saranno chiamati a rivedere il proprio ruolo ed il proprio coinvolgimento all’interno della famiglia.

Uno degli obiettivi principali che ogni caregiver si pone o si dovrebbe porre è quello di mantenere un equilibrio familiare per permettere al malato di mantenere un livello di vita qualitativamente accettabile: “La percezione degli individui circa la loro posizione nella vita e nel contesto della cultura e del sistema dei valori in cui vivono, in relazione ai loro scopi, aspettative, standard e occupazioni” (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1998).  Il fatto che nelle fasi iniziali della malattia il soggetto mantenga preservate alcune delle sue funzioni cognitive è importante che i caregiver lo responsabilizzino e lo rendano partecipe nel processo di scelta, non devono infantilizzarlo o ignorarlo ma supportarlo al fine che possa preservare il più a lungo possibile alcune delle sue autonomie, come il lavarsi, il vestirsi o il ritrovare la strada di casa.

Nelle fasi moderata e grave le funzioni cognitive si ridurranno progressivamente ed è importante che il caregiver sia pronto a sostenere il malato nelle azioni che non riesce più a compiere autonomamente (Izzicupo et al., 2009).

Il caregiver può anche diventare l’ amministratore di sostegno quella figura che aiuta il malato a curare la propria saluta, a gestire il patrimonio, a firmare documenti importanti, ecc.

Pertanto nella pratica cosa fa il caregiver?

  • Stimola il malato in attività che lo facciano sentire utile e gratificato;
  • Stimolarlo a mantenere la propria autonomia, soprattutto nella fase dell’igiene;
  • Ricordarsi che spesso il linguaggio è compromesso ma la capacità di comprensione della comunicazione non verbale è ancora intatta, quindi mostrarsi sempre accoglienti;
  • Offrire un luogo di vita sicuro (maniglioni nella doccia, allarme in casa, prodotti per la casa disposti in luoghi difficilmente raggiungibili, ecc.) e anche luminoso, per evitare il più possibile il presentarsi di deliri ed allucinazioni (dovuti spesso a scarsa illuminazione);
  • Se sono frequenti misidentificazioni potrebbe essere opportuno togliere gli specchi;
  • Se il soggetto soffre di vagabondaggio, supervisionarlo con discrezione;
  • Quando subentrano idee ossessive e fissazioni è sconsigliabile insistere ma cercare di distogliere la sua attenzione da quello stimolo (Izzicupo et al., 2009).

di Ilaria Giardini

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