La relazione tra fratelli in psicologia

Il legame fraterno costituisce quell’unica e straordinaria relazione, che, fra alti e bassi nel corso della vita, coinvolge due soggettività unite da un comune patrimonio genetico, familiare e culturale. Essa merita di essere esplorata con quella particolare attenzione, che, fatta eccezione per gli studi di Helene Koch (1960), non ha avuto per un periodo sorprendentemente lungo, cioè fino agli anni Settanta, nonostante già Adler nel
1928 si era interessato al tema della rivalità fra fratelli in relazione all’ordine di genitura e allo sviluppo della personalità (Adler, 1928) e poco più tardi Piaget (1932) e Sullivan (1953) attribuivano una profonda importanza all’interazione bambino-bambino da un punto di vista evolutivo (Dunn, 1982; Capodieci, 2003).

Sebbene questo aspetto sia stato studiato negli anni Venti e Trenta grazie alle ricerche di Buhler (1933), Maudry e Nekula (1939) e Parten (1932), in seguito fu quasi completamente abbandonato con il prevalere di altri paradigmi teorici, fra cui la psicoanalisi (Dunn, 1982; Capodieci, 2003).

Con la psicoanalisi inizia ad affermarsi un modello “madricentrico”, secondo il quale si riteneva che la relazione del bambino con la madre fosse «prototipica e fondante di tutte quelle successive» (Dunn, 1982 p. 14) e si «interpretavano questi rapporti interpersonali come i contesti privilegiati nei quali prende forma la socializzazione, sono acquisite le competenze comunicative, si sviluppa la regolazione delle emozioni, ha
origine il sistema del Sé» (Capodieci, 2003 p. 25). Di conseguenza, non soltanto si tendeva a relegare in un angolo l’importanza di interazioni precoci fra bambini (Dunn, 1982), ma «dalla centralità accordata alla relazione genitore-bambino derivava l’assunto che la gelosia e la rivalità fossero le dimensioni chiave per descrivere i rapporti fra fratelli molto piccoli: in termini, cioè, di competizione per l’affetto dei genitori» (Capodieci, 2003 p. 26).

Non da ultimo, all’affermarsi di questa concezione, hanno sicuramente contribuito alcuni fenomeni sociali, quali l’urbanesimo e la diffusione della famiglia nucleare, caratterizzata da un estremo isolamento dei suoi membri (Dunn, 1982).

Successivamente, agli inizi degli anni 70, fra i ricercatori inizia a farsi avanti l’idea di un’originaria socialità del bambino, prendendo coscienza del fatto che egli vive entro una rete di rapporti sociali di cui fanno parte non più solo la madre, ma anche il padre, i fratelli e tutti gli altri membri della famiglia, oltre che amici e conoscenti.

Parallelamente, la creazione di numerose istituzioni educative per l’infanzia ha offerto un terreno favorevole allo studio dello sviluppo sociale: dalle ricerche in tale direzione sono emerse la sensibilità del bambino agli stati d’animo altrui e alla perdita dell’amico, la sua capacità di consolare un compagno in difficoltà, una raffinata teoria della mente che consente di attribuire una serie complessa di stati psicologici a sé e ad altri, una certa attenzione allo spettacolo interessante creato dai pari, nonché la capacità di compiere
azioni complementari a quelle del compagno (Dunn, 1982).

Proprio grazie a questi contributi, a partire dagli anni Ottanta, l’interesse per l’argomento è cresciuto sempre di più: fra i diversi apporti è da ricordare quello di Judy Dunn (1983), ricercatrice scientifica presso il “Medical Research Council Unit” di Cambridge, la quale ha sottolineato come la maggior parte delle ricerche di quel periodo fossero focalizzate sulle interazioni anziché sulle relazioni e prendessero in considerazione principalmente la fascia di età che va dall’infanzia alla fanciullezza (Dunn, 1993).

Lo studio della relazione e del modo in cui essa viene percepita, in coppie di fratelli nella media fanciullezza e in età adolescenziale, è stato intrapreso solo a partire dagli anni Novanta con le ricerche di Buhrmester (1992) di Furman e Buhrmester (1985) e di Raffaelli (1991) (Dunn, 1993).

Alla base di questo cospicuo e rinnovato interesse per la fratria vi è il fatto è che i fratelli costituiscono un agente di socializzazione indispensabile e propulsivo per lo sviluppo, tanto quanto la coppia genitoriale, infatti, un fenomeno, come la comparsa dell’amico immaginario in bambini solitari di quattro o cinque anni (Manosevitz et al., 1973), può appunto rendere conto della necessità, da parte del piccolo dell’uomo, di mettersi in relazione con altri, suoi pari (Dunn, 1993)

di Valentina Donnari

 

 

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