La figura del padre nell’Antica Roma

La paternità è un elemento fondante della storia di Roma. Il padre romano è una continuazione della cultura greca che la stessa Roma, nei secoli dei suoi maggiori successi, ne assorbì quanto poté[1]. Le qualità che si richiedevano ad un padre , i poteri a lui attribuiti, il suo valore simbolico ma soprattutto la continua identificazione tra famiglia e Stato, cioè fra pater familias e cittadino, fanno della paternità un elemento fondamentale della storia di Roma.

Nei primordi della storia di Roma il valore assegnato al padre era più evidente ma resterà sempre ben chiaro come l’autorità del genitore e il rispetto verso di esso siano , anzitutto, una legge di natura. Solo successivamente questa devozione trovò spazio nelle leggi e nelle sanzioni[2]. Lo stesso Cicerone sottolineò il rapporto padre-figlio in termini di reciprocità: padre e figlio sono orgogliosi delle gesta positive compiute dall’altro ma entrambi subiscono anche le conseguenze delle azioni disdicevoli.

Gli antichi Romani erano infatti, più dei Greci, sensibilissimi al valore civile e a quello militare. Quindi nell’antica Roma il rapporto padre figlio era alquanto rilevante e per questo aveva una precisa struttura. Esso si fondava su due nozioni ,quella di pater familias e quella di patria potestas . Entrambe le nozioni sono inserite nel contesto della familia e poste in relazione alla società e allo Stato. La familia era intesa come “società familiare” e comprendeva tutti coloro che vivevano sotto la tutela del pater familias nella stessa casa, comprendendo quindi anche ascendenti , discendenti, parenti e schiavi[3].

Esistevano altre forme di raggruppamenti più ristretti che assomigliavano di più alla famiglia che oggi definiremo come “patriarcale” o “nucleare” , composta da genitori e figli. I diritti del pater familiasnei primi secoli della storia di Roma, erano davvero ampi, spaziavano infatti dall’aspetto economico e politico a quello educativo e religioso. Compito principale del pater familias era quello di garantire una corretta integrazione del proprio gruppo nella società e l’ubbidienza allo Stato, finalità quindi squisitamente politica. Il pater familias aveva inoltre il diritto di esercitare la legge all’interno della sua familia esattamente come un magistrato, infliggendo sanzioni non solo per reati che avevano attinenza con la famiglia ma anche per crimini pubblici[4].

Questa è la patria potestas, definita e riassunta dal giurista Gaio (II secolo d. C.) così <<Non vi sono altri uomini al mondo che hanno sui figli lo stesso potere che abbiamo noi >>[5]. Il padre era poi un sacerdote all’interno della familia e cioè era lui che compiva sacrifici agli dèi della casa per assicurare la loro protezione sull’ambiente domestico. Infine il pater familias esercitava il proprio potere giuridico in quattro diritti fondamentali : lo ius exponendi ,cioè il diritto di esporrei figli neonati; lo ius vendendi , ovvero il diritto di vendere come schiavo il figlio all’estero per mero lucro; lo ius noxae dandi , che consisteva nel cedere ad altri un figlio per liberarsi delle conseguenze giudiziarie di un atto illecito commesso dal padre, e infine persino lo ius vitae et necis, il diritto di vita e di morte sul figlio che riguardava però i figli grandi. Anche il riconoscimento del figlio spettava al padre che in segno di gradimento sollevava il figlio da terra; questo ,precedentemente, era stato deposto dalla balia davanti al pater familias. Questo gesto concretizza la paternità[6]. Vediamo però che fino allo svezzamento, che si protrae fino ai tre anni, il bambino rimaneva sotto l’influenza materna che la madre poteva esercitare anche più avanti.

Nell’allevamento del figlio l’esempio paterno rivestiva comunque una particolare importanza infatti finito lo svezzamento il piccolo usciva dall’orbita materna per entrare in quella paterna. Intorno ai sette anni il padre cominciava a occuparsi personalmente della sua educazione, dell’addestramento e della sua istruzione. Il figlio ,non ancora adolescente, seguiva il padre nella vita pubblica osservandone i comportamenti e studiandone le relazioni. A diciassette anni il ragazzo romano abbandonava la toga praetexta per indossare quella virilis. Questo avveniva con una cerimonia che segnava la fine dell’età dei giochi e l’inizio dell’età adulta. Plinio il Giovane ricorda che <<Ciascuno aveva come maestro il proprio padre>>[7] evidenziando la rilevanza del rapporto padre-figlio. A conferma di ciò e in segno di riconoscimento per l’educazione ricevuta dal padre, il primo compito che il figlio adulto si assumeva era quello di attaccare in tribunale uno dei nemici del padre. E’ noto quindi come il filius familias ,e cioè il figlio soggetto ad autorità altrui, non avesse praticamente alcuna autonomia e come il rapporto tra padre e figlio nell’antica Roma fosse un rapporto alquanto complicato. Il padre era vissuto dal figlio come opprimente e duro ,era colui che poneva forti restrizioni nella vita del ragazzo ed era colui che poteva decidere sulla sua vita o sulla sua morte e per questo a volte accadeva che il rapporto si complicasse così tanto da sfociare in delitto e in particolare in parricidio, un reato a quel tempo non insolito[8]. Un giovane orfano aveva infatti molta più libertà di azione rispetto a un filius familias che ,come lo storico francese Paul Veyne fa notare, non poteva fare nulla senza che il padre intervenisse : non poteva concludere un contratto, né affrancare uno schiavo , né fare testamento, né possedere nulla oltre il suo peculio, proprio come uno schiavo. A queste umilianti restrizioni ,lo storico fa notare , che si aggiunge anche il rischio di essere diseredato. Inoltre se il padre moriva per cause naturali il ragazzo poteva diventare capofamiglia anche all’età di vent’anni ma se ciò non accadeva restava minore pur essendo due volte più anziano[9]. Questa situazione veniva vissuta dai figli ,ormai divenuti adulti, come ingiusta e frustrante. Il grande potere detenuto dal pater familias potrebbe indurre alla convinzione che il rapporto tra padre e figlio fosse caratterizzato esclusivamente da una eccessiva severità e addirittura  ,in alcuni azioni del padre nei confronti del figlio ,anche da crudeltà; in realtà , l’amore non era certamente escluso. L’attaccamento del padre si manifestava proprio alla morte di un figlio. I Romani dicevano infatti che il lutto della propria prole era un dolore che mangia il cuore[10].

[1] Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri,Torino,2000, p. 189

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Maurizio Quilici, Storia della Paternità, Fazi Editore,Roma,2010,  pp, 117-123

[6] Ibidem

[7] Ibidem

[8] Ibidem

[9] Maurizio Quilici, Storia della Paternità, Fazi Editore,Roma,2010

[10] Ibidem

di Carlotta Sabbatini

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