Come affrontare il lutto del proprio cane o gatto

Chiunque abbia dovuto affrontare la perdita del proprio animale, sia per morte naturale che per eutanasia, avrà sicuramente sperimentato una sensazione di tristezza, rabbia, di pianti irrefrenabili ma soprattutto una mancanza di sostegno dato dalle persone che lo circondano che trattano la persona in questione come la “pecora nera” della società.

La morte nella nostra comunità viene esorcizzata perché ci fa allontanare da quelle persone che hanno avuto un ruolo importante nella nostra vita e perciò la  temiamo; e così succede quando perdiamo il nostro animale, ma a differenza dell’uomo, il cane o il gatto non sono considerati così importanti nella nostra cultura. Vengono visti come qualcosa che accompagni passo passo il padrone ma a cui, però, non porgere talmente tanto affetto da provare dolore nella sua morte.

Quando ci si trova davanti a delle difficoltà, delle frustrazioni o a dei dolori emotivi in generale, la società assume un atteggiamento di rifiuto e un senso di fastidio, come se ogni accadimento che si opponga alle nostre speranze ed aspettative sia percepito come seccante e ingiurioso e dove l’uomo ha la convinzione di poter padroneggiare la natura e gli eventi tollerando ben poco le situazioni che sfuggono al nostro controllo.

Alcuni elementi culturali ed affettivi che sono stati inseriti profondamente nel nostro modo di pensare e di percepire, possono aiutarci a comprendere meglio perché ci risulta così difficile accettare  e resistere ad alcune situazioni dolorose che contornano la nostra esistenza. Talvolta è difficile tollerare anche solo l’idea di perdere il lavoro, una persona a noi cara, l’affetto di un cane; questi pensieri ci arrecano un senso di tristezza e ci spiazzano, così cerchiamo di dimenticare e oltrepassare questo momento, dopotutto “The show must go on”!

Imbattersi in una persona che si dispera e piange continuamente può far pensare, alla maggior parte della comunità, che ci troviamo di fronte ad un depresso e viene difficile pensare che possa essere giustamente e profondamente triste, non importa chi o che cosa abbia perso o se questo condivideva ogni momento della sua vita…se manifesta troppo apertamente i suoi sentimenti e le sue debolezze, non pensano sia triste ma che sia depresso.  Il fatto di non dare la possibilità di essere tristi ai soggetti, non concede loro di rinnovarsi  e stabilizzarsi elaborando la sofferenza e ciò avviene perché si sta perdendo, pian piano, quell’atteggiamento di conforto e partecipazione che aleggiava in passato nei rapporti umani e nella nostra cultura.

Oggi, invece, ci accorgiamo di non essere più tolleranti verso la nostra sofferenza ma soprattutto verso quella degli altri, ed essere tristi, piangere o essere bisognosi dell’altro diviene un qualcosa da evitare o nascondere. La società tende a farci vivere in modo dissociato e lontano dalle nostre emozioni più vive, incapace di tollerare le frustrazioni affettive della nostra vita ed incrementando una bassa adattabilità al dolore e all’ansia, favorendo così, l’uso di farmaci per alleviare questa sofferenza. Quello che importa è eliminare, in breve tempo, la questione o i pensieri sgradevoli che affliggono l’individuo.

La società tende a scoraggiare il dolore in seguito alla  perdita di un animale, banalizzandola con la credenza erronea, che questo si possa sostituire in qualunque momento e così si crea la sofferenza nei proprietari che possono far finta che tutto vada bene anche se dentro sentono un vuoto e possono diventare riluttanti nel rivelare i loro stessi sentimenti, sentendosi in imbarazzo nel far sapere agli altri lo stretto legame che dominava tra lui e il suo animale.

Le credenze personali riguardo a come comportarsi in relazione alla morte di un animale sono dettate dall’intensità e dalla durata del loro lutto; le vere reazioni sono modificate dall’aspettativa, precedentemente definita, per gestire i sentimenti, ” Quando ho lasciato l’ambulatorio, lo avevo tra le mie braccia, io piangevo, ma sai, non volevo dimostrare agli altri adulti che non ero in grado di gestirmi…” (Adams, Bonnett, Meek, 1999).

Alcuni ricercatori (Adams, Bonnett, Meek, 1999) hanno svolto uno studio sul dolore associato alla morte di un animale ed è stato chiesto ai partecipanti di determinare come si erano sentiti e cosa avevano provato (senso di colpa, tristezza, sollievo…), per comprendere le credenze sociali e definire il ruolo degli animali nella società, il valore che era stato posto su di loro e il comportamento che assumevano i proprietari. Risultò che la società non riconosceva la natura della relazione uomo-animale e che sanzionava le emozioni di sofferenza per la morte dell’animale. I partecipanti vivevano in una condizione di contraddizione tra come si sentivano dopo la morte dell’animale e l’assenza di sostegno percepita dagli altri e dalla società in generale; infatti, tentarono di controllare le loro emozioni e di nascondere la loro angoscia ad esempio indossando occhiali da sole scuri all’interno dello studio del veterinario prima e dopo aver deciso per l’eutanasia del proprio animale. Alcuni cercarono di minimizzare i loro comportamenti mantenendo una sorta di autocontrollo con il fine di evitare di esplodere in pianti insistenti, cercando di recuperare l’omeostasi il prima possibile, in modo che la loro normalità non sia messa in discussione e possano tornare ad esplicare le attività che quotidianamente svolgevano prima della morte del loro animale come tornare a lavoro, uscire con gli amici.

Inoltre bisogna sottolineare il fatto che la società in cui viviamo è carente di un protocollo per il lutto di un animale defunto perciò non si richiede al proprietario di organizzare il funerale, di invitare parenti o di effettuare qualsiasi rito usuale che si verificano quando una persona muore.

Diversamente la morte umana prevede un ambiente simbolico (il carro funebre nero), dei luoghi specifici associati con la morte (chiesa e cimitero), dei ruoli specifici (medici, onoranze funebri, pompe funebri…). La morte di un animale non predice un sistema di riti e protocolli prestabiliti, anche se questa morte  comporta una routine (come rimanere durante l’eutanasia o mentre l’animale viene sedato) e rituali semplici come tornare a casa con le ceneri in una borsa o in un’ urna di ceramica, ma non vi è nessuna standardizzazione in pratiche veterinarie.

La pratica della cremazione dell’animale  aveva creato nei soggetti sentimenti di rabbia, sospettosità perché non erano stati informati riguardo a questo tipo di esperienza.

Questo studio suggerisce l’idea che la morte di un animale venga considerata insignificante da parte della società e che queste credenze negative influenzino comunque il processo di lutto del proprietario che si sente non ascoltato e compreso.

Il messaggio che trapela è quello di riuscire, in tempi brevi, a dimenticarsi del proprio animale poiché vi è la possibilità di prenderne un altro e continuare ad essere felici.

Non è chiaro se l’esperienza di dolore in relazione alla morte dell’animale venga troncata a causa della percezione che non sia permesso piangere o se il dolore associato con la morte di un animale sia semplicemente più breve.

Ciò che tengo a sottolineare è che una “polis” corretta e consapevole nella gestione delle difficoltà e del dolore sia un compito arduo da realizzare ma comunque comporterebbe dei vantaggi alla nostra cultura.

Se da una parte abbiamo la società che non presta cura e attenzione al proprietario luttuoso, dall’altra c’è la famiglia in cui viveva l’animale che può creare una rete di supporto poiché può comprendere il dolore che aleggia in casa.

Dato che il concetto di famiglia “tradizionale” diventa sempre più difficile da descrivere, è sempre più evidente che gli animali da compagnia stiano giocando un ruolo molto più grande nella dinamica dei nostri sistemi familiari (Ross-Barton & Baron-Sorensen, 1998).

L’animale all’interno di una famiglia molto spesso è considerato come un componente della famiglia stessa (Carmack, 1985; Cusack, 1988; Triebenbacher, 2000) in quanto vive ogni attimo, sia positivo che negativo, della vita dei padroni e ciò li rende affiatati emotivamente; l’animale può fungere anche da amico, compagno o da figlio (Gunter, 1999).

Il rapporto con un animale domestico può essere particolarmente significativo in circostanze in cui una persona si senta fisicamente o psicologicamente deprivata di un attaccamento umano, con il caregiver, o nelle relazioni sociali. Come ho sottolineato nel precedente capitolo, la teoria dell’attaccamento di Bowlby gioca un ruolo importante anche nel legame inter-specie infatti il cane, in mancanza di una figura importante nella vita del proprietario, funge da base sicura e assicura sostegno fino a quando l’animale non viene a mancare.

Ricoprendo questo ruolo, gli animali vengono considerati come membri di una famiglia e la loro perdita potrebbe essere molto simile alla perdita di un familiare o di un coniuge.

Alcuni soggetti dichiararono di aver pensato di preferire la morte del proprio coniuge piuttosto che quella del proprio cane (Carmack, 1985) poiché quest’ultimo riusciva a comprenderli in ogni momento e, con il suo atteggiamento non giudicante, riuscivano ad essere loro stessi, cosa che magari non avveniva in presenza del proprio coniuge.

Queste dichiarazioni cercano di farci comprendere quando sia realmente importante un animale per l’uomo, con tutte le sue caratteristiche e attenzioni, e ciò dovrebbe essere uno spunto per una comprensione da parte della società in termini di conforto e aiuto in situazioni difficili come la sua perdita dello stesso.

di Gessica Mattiacci

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